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PA digitale, oltre il PNRR: il ruolo dei fondi di coesione territoriale



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I Programmi Nazionali e Regionali della coesione affiancano il PNRR nella digitalizzazione della PA. Strumenti complementari che permettono di adattare le strategie nazionali ai territori, ma con criticità legate a tempi lunghi e disparità regionali nell’attuazione

Pubblicato il 24 ott 2025

Gerardo Gargiulo

Responsabile BU Assistenza Tecnica e Capacitazione di PA Advice

Gianluca Letizia

Centro di Competenza Politica di Coesione PA Advice



protezione-dei-dati-personali-agenda-digitale; DAC8 Tecnologie civiche digitali Programmi coesione e PA digitale

Quando si parla di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, la mente corre subito al PNRR. È comprensibile: quel piano, nato dopo la pandemia, ha portato miliardi di euro e un’agenda serrata di riforme.

Ma non è l’unico strumento in campo. Accanto al PNRR, ci sono i Programmi Nazionali e Regionali (PN e PR) della politica di coesione, che da anni accompagnano Ministeri, Regioni e Comuni ed in generale i principali attori pubblici e privati dello sviluppo nei loro progetti di innovazione. La domanda, però, è inevitabile: questi fondi che ruolo hanno? Sono un’alternativa al PNRR? O sono complementari? E soprattutto: quanto funzionano davvero?

PNRR e Programmi della coesione: due strade che si intrecciano

Il PNRR è straordinario: soldi extra, tempi stretti, obiettivi vincolanti. I Programmi della coesione, invece, sono parte della programmazione europea “ordinaria” – quella che si ripete a ogni ciclo settennale (ora siamo nel 2021-2027). Non si tratta quindi di strumenti concorrenti. Anzi, sono due strade parallele che si intrecciano: il PNRR detta la rotta nazionale, con grandi piattaforme (cloud, pagoPA, SPID, ANPR, interoperabilità); i PN ed i PR permettono di declinare quelle scelte a livello nazionale e locale, adattandole alle realtà regionali e ai bisogni dei cittadini. In altre parole: il PNRR dice “cosa” fare, i PN e PR aiutano a capire “come” farlo nei territori.

Il nodo dell’efficienza e dell’efficacia

Se guardiamo all’efficienza, i Programmi della coesione hanno un punto debole noto a tutti: i tempi lunghi. Bandi complessi, rendicontazioni pesanti, procedure che rallentano tutto. Non a caso, ogni ciclo europeo si chiude con la corsa dell’“ultima spesa” per non perdere i fondi. Sul fronte dell’efficacia, il quadro è più variegato.

Ci sono regioni che hanno usato i PR per fare un salto in avanti, ad esempio creando sportelli digitali unici per i cittadini o piattaforme condivise tra comuni. Altre, invece, hanno prodotto solo interventi sparsi, poco coordinati con le strategie nazionali: un effetto “macchia di leopardo” che lascia ancora forti divari tra Nord e Sud, tra città e aree interne. Il rischio? Spendere soldi senza produrre vero cambiamento o, peggio, creare sistemi non interoperabili, destinati a invecchiare rapidamente.

I comuni: piccoli attori, grandi sfide

La digitalizzazione si progetta nei Ministeri, ma si realizza nei Comuni. È lì che il cittadino chiede un certificato, un permesso, un servizio. Eppure, la maggior parte dei comuni italiani – oltre il 70% ha meno di 5mila abitanti – non ha competenze interne né risorse sufficienti per gestire progetti digitali complessi. Qui entrano in gioco i Programmi. Possono servire a:

  • finanziare assistenza tecnica per i comuni più piccoli;
  • incentivare la gestione associata dei servizi (unendo più municipi in un’unica piattaforma);
  • offrire formazione digitale continua a dipendenti e dirigenti.

Per i comuni, insomma, i PN ed i PR non devono essere visti solo come soldi in più, ma come occasione per costruire competenze e reti stabili.

Un esempio arriva dall’Unione dei Comuni del Mugello, in Toscana, che grazie ai fondi PR FESR ha avviato un sistema unico di gestione documentale e protocollazione per più municipi. Il risultato è stato duplice: riduzione dei costi e maggiore facilità d’uso per cittadini e imprese.

Le regioni: arbitri e giocatori

Le regioni hanno un doppio ruolo. Sono arbitri, perché gestiscono i fondi e decidono le priorità. Ma sono anche giocatori, perché spesso sono loro stesse a sviluppare piattaforme e servizi digitali a livello territoriale. Qui sta il punto: se le regioni interpretano i PR solo come strumenti di distribuzione di risorse, il risultato rischia di essere mediocre. Se invece li usano per dare visione strategica e costruire progetti scalabili, allora diventano un vero motore di sviluppo. Un esempio virtuoso viene dall’Emilia-Romagna, che già nel ciclo 2014-2020 ha usato i PR per sviluppare il progetto Lepida, una società in-house che offre connettività, cloud e servizi digitali a tutti i comuni della regione. Grazie a questa scelta, oggi l’Emilia-Romagna è una delle aree più avanzate nella gestione digitale condivisa. Diversa la situazione in alcune regioni del Sud, dove i PR sono stati usati in modo frammentato. In Calabria, ad esempio, il finanziamento a singoli progetti comunali non sempre ha prodotto soluzioni integrate, lasciando il territorio con un mosaico di piattaforme non comunicanti.

I privati come “collettori”

C’è poi il ruolo dei soggetti privati: imprese ICT, startup, università, centri di ricerca. Possono essere collettori di innovazione, aiutando i comuni a trovare soluzioni già pronte, fornendo formazione, creando ecosistemi locali.

Un caso interessante è quello della Puglia, che con il PR ha sostenuto il distretto dell’innovazione di Bari, mettendo in rete università, centri di ricerca e startup. Questo ha permesso di sperimentare servizi digitali per i comuni più piccoli, che altrimenti non avrebbero avuto accesso a tecnologie avanzate.

Ma attenzione: il rischio è che i privati diventino semplici fornitori che sostituiscono il pubblico, o che ogni comune scelga il suo partner creando una giungla di soluzioni non interoperabili. La chiave sta nei partenariati pubblico-privati stabili, capaci di unire competenze e mantenere la governance in mano agli enti pubblici.

Una governance a più livelli

Alla fine, la partita si gioca su una governance multilivello: lo Stato definisce le piattaforme e le regole comuni; le Regioni declinano e adattano le strategie;

i Comuni portano i servizi vicino ai cittadini; i privati offrono competenze e tecnologie. Se ciascun attore rimane isolato, i fondi rischiano di disperdersi. Se invece si lavora insieme, PN, PR e PNRR diventano due leve che si rafforzano a vicenda.

Conclusione: oltre il PNRR

In fondo, la domanda è: cosa resterà della digitalizzazione italiana quando il PNRR finirà? La risposta passa anche dai Programmi della coesione territoriale. Se usati bene, non sono fondi alternativi, ma una seconda gamba su cui costruire una trasformazione stabile e duratura. Una gamba meno vistosa del PNRR, certo, ma più capace di radicarsi nei territori.

Gli esempi non mancano: dall’Emilia-Romagna al Mugello, fino alla Puglia, i PN e PR hanno dimostrato che si può fare innovazione locale e condivisa. Ora serve estendere queste esperienze e farle diventare la norma. Per riuscirci, comuni e regioni devono cambiare prospettiva: dai progetti singoli alla costruzione di ecosistemi digitali locali, con i privati come partner e non come semplici fornitori. Solo così la digitalizzazione potrà diventare la normalità della PA italiana – e non l’ennesima occasione mancata.

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