Nel suo recente Exiles Economics, Ben Chu, giornalista economico della BBC, legge l’evoluzione della politica internazionale come progressiva negazione della reale interdipendenza delle nazioni dal punto di vista economico, come svalutazione degli accordi e della cooperazione internazionale e in terzo luogo come aspirazione a raggiungere una maggior autosufficienza a livello nazionale[1].
Indice degli argomenti
Le origini della crisi della globalizzazione
Le cause che avrebbero spinto l’opinione pubblica e i partiti in direzione antiglobalizzazione sarebbero da ricondurre alla crisi finanziaria del 2008, percepita come una crisi della finanza internazionale, al COVID, che ha dimostrato la fragilità dei sistemi sanitari nazionali alle prese con la pandemia, e infine alla guerra della Russia contro l’Ucraina, che ha provocato blocchi e rallentamenti negli scambi internazionali, con particolare intensità per processori, grano, energia.
Gli slogan sovranisti e i loro effetti economici
Uno studio, citato da Chu, sostiene che “il commercio globale ha in parte indebolito la diversità della produzione di cibo locale (…) ciò ha alimentato l’interesse per la produzione locale e per la ‘sovranità alimentare’ favorevoli ai mercati e alle coltivazioni locali su piccola scala (…)”. Ma questo interesse si scontra con una realtà profondamente diversa: i cereali compiono in media 3.800 km per giungere sul piatto di un abitante della terra, con metà della popolazione mondiale che viene raggiunta con trasporti entro i 900 km e il 25% che viene raggiunta con trasporti superiori ai 5.200 km[2].
Il libro di Chu smonta giustamente gli slogan delle politiche sovraniste: “indipendenza energetica”, “sovranità alimentare” e le promesse di maggior benessere, maggiore sicurezza attraverso l’isolamento nazionale, che ha al centro la politica dei dazi di Trump. Il loro costo, come argomenta Alberto Mingardi, ricadrà in primo luogo sui consumatori americani[3].
L’impatto dei dazi e dell’incertezza che gli annunci continui e contraddittori di Trump producono è riconosciuta dallo studio della Banca Federale di Atlanta. Lo studio pone in evidenza l’effetto inflazionistico che l’aumento dei dazi ha non solo sui prezzi delle aziende più esposte, ma anche di quelle che lo sono di meno o che operano in settori mediamente meno esposti. Il movimento verso l’alto dei prezzi delle aziende esposte consente anche a quelle meno esposte di aumentarli, quanto meno in parte, poiché non temono la competizione di quelle più esposte. “In definitiva i nostri risultati indicano una elevata probabilità che aumenti di prezzo apparentemente una tantum possano trasformarsi in un vero e proprio impulso inflazionistico, del tipo a cui abbiamo assistito pochi anni fa (con la pandemia)”.[4]
Verso una globalizzazione 2.0
La politica sovranista di Trump è stata analizzata dal punto di vista degli obiettivi che essa stessa si propone: riportare l’industria manifatturiera in America.[5] Se la bilancia commerciale americana del settore manifatturiero fosse riportata in pareggio, circa 2 milioni e mezzo di lavoratori dovrebbero spostarsi dai servizi all’industria, seguendo una traiettoria che essi non hanno scelto. Ma a quale costo? Compreso tra 600 miliardi e 1.200 miliardi di dollari l’anno (a seconda che si adottino i coefficienti restrittivi proposti dal governo o quelli valutati nella letteratura scientifica). Il costo di ogni nuoivo posto di lavoro nell’industria, in termini di maggiori prezzi dei beni manifatturieri e di inflazione da questi determinata, sarebbe compreso tra 225.000 dollari e mezzo milione. Ecco perché Mingardi insisteva sul danno che la politica dei dazi produce sul consumatore americano.
Il sentimento comune contro la globalizzazione è diffuso soprattutto tra gli strati più poveri della popolazione, per questo molti studiosi si sono impegnati nel disegnare proposte migliorative, spesso dimenticando di ricordare i colossali benefici della globalizzazione in termini di salute media, dura della vita, reddito pro-capite della popolazione mondiale.
Le proposte della globalizzazione 2
Per correggere gli errori della prima globalizzazione, messa sotto accusa dalle politiche sovraniste, vien proposta una globalizzazione 2[6]. Vediamo che cosa propone:
- resilienza e non solo efficienza, per rafforzare le supply chain che sono fragili, ossia esposte troppo ad un solo fornitore estero, a magari anche poco affidabile sul piano politico ed economico;
- inclusività rivolta ai lavoratori spiazzati dal progresso tecnico e dall’eventuale interruzione delle catene di forniture;
- legittimazione democratica attraverso la voce delle comunità locali maggiormente colpite dall’impatto della globalizzazione;
- sostenibilità sostanziale, evitando che le politiche nazionali “esportino” in altri paesi i problemi ambientali;
- governance dell’impatto digitale, riducendo il potere monopolistico delle maggiori aziende e tassando i guadagni delle grandi aziende digitali.
Questa lista di desiderata difficilmente verrà condivisa interamente da uno dei governi in carica: quelli sovranisti possono consentire sui punti 1 e 2 ed essere incerti o contrari sia sul punto 3 sia sul 4 e sul 5. I governi di centrosinistra potrebbero essere d’accordo, anche se con diversi accenti, sull’intero set delle proposte, salvo poi essere in crisi nel reperimento delle risorse necessarie o nell’esercizio di una autorità capace di sanzionare efficacemente i comportamenti anticoncorrenziali delle maggiori società tecnologiche.
Il fallimento dei chips act e la questione energetica
Se guardiamo alla strumentazione di politica industriale e sociale disponibile, possiamo dire che i tentativi di rendere le supply chain più resilienti, in particolare con i Chips Act, non hanno raggiunto nessuno degli obiettivi in Europa, e solo alcuni negli Stati Uniti: la tendenza del settore a svilupparsi sulla base di una divisione internazionale del lavoro molto spinta sta continuando nonostante la mole di risorse messa in campo soprattutto negli Stati Uniti.
Studi recenti dimostrano che, nonostante gli aiuti, la convenienza di fondo che guida gli investimenti è ancora presente, nella competizione tra le diverse aree, anche perché ogni area ha dispiegato i suoi specifici aiuti alle imprese che investivano nella propria giurisdizione. Ma non è la sola motivazione. Fattori strutturali, come il costo del lavoro, il costo delle costruzioni, il costo dell’energia determinano le convenienze dell’investitore, non soltanto per i semiconduttori, ma anche per lo sviluppo delle infrastrutture AI, che sono poi la banda di rete e i servizi cloud.
Secondo Mc Kinsey, per effetto degli stimoli, da qui al 2030 gli investimenti in nuovi impianti dichiarati dalle aziende dovrebbero assommare a 1.000 miliardi di dollari, senza tener conto dell’impatto di AI, che è particolarmente significativo. Ma tra il dire e il fare c’è differenza. Anche tenendo conto dei sussidi, infatti, la convenienza ad investire nelle nelle diverse giurisdizioni in cui operano gli incentivi stessi, rimane assi divaricata.
Rimangono differenze che continuano a privilegiare la redditività degli investimenti in Cina e a Taiwan: la corsa al sussidio ha portato maggiori profitti alle industrie del settore, che già navigavano a gonfie vele. Nella figura 1 sono riportati, con base Taiwan = 100 gli indici di costo delle altre maggiori aree che hanno introdotto i sussidi. Si tratta del costo di investimento iniziale per una fabbrica di semiconduttori tradizionali. Come si vede, tra Stati Uniti e Cina rimane un abisso di convenienza, mentre Europa e Taiwan sono sostanzialmente allineate. Meno accentuato il differenziale degli indici dei costi di gestione annuali dell’impianto, sempre con Taiwan = 100 come base. Qui l’Europa supera addirittura gli Stati Uniti, a causa del differenziale di costo dell’energia, che è più che doppio nell’incidenza sul totale.
Se ne ricavano due conclusioni importanti. La prima è che i Chips Act non hanno funzionato, in particolare, ma non solo, in Europa. La corsa alla sovvenzione ha impoverito i cittadini e aumentato i profitti dei produttori. In secondo luogo la politica industriale dell’Europa, in materia di semiconduttori, ma anche di intelligenza artificiale deve, in primo luogo, porsi la questione del costo dell’energia, con le conseguenti scelte sulle fonti, in particolare il nucleare e le rinnovabili.

Intelligenza artificiale e nuove disuguaglianze del lavoro
I lavoratori subiranno un impatto formidabile dell’intelligenza artificiale, anche se stentiamo ancora a vederlo. Fino ad oggi alcune categorie di lavoratori giovani stanno adottando AI molto più rapidamente delle aziende: è nella natura della chat – su cui è stata impostata l’architettura user friendly dell’AI generativa – anticipare l’organizzazione e proporsi come strumento di produttività individuale[7]. Noi – ma neppure gli istituti di statistica – non stiamo registrando gli aumenti di produttività determinati da AI: in questa fase essi sono una “rendita del lavoratore” analoga alla “rendita del consumatore” che sta alle fondamenta della teoria della domanda e dell’offerta del mercato concorrenziale. Vediamo in che cosa consiste la rendita del consumatore e per analogia cercheremo di capire la rendita del lavoratore con un esempio.
Quando apparvero i primi personal computer, costavano quanto lo stipendio annuale di un operaio. Pochi potevano permetterseli. Da quell’inizio, la potenza di calcolo aumentava ogni anno di un ordine e ciononostante i prezzi continuavano a scendere. Chi aveva disponibilità avrebbe pagato un prezzo elevato al momento dell’uscita del nuovo prodotto mentre chi cercava sconti e riduzioni voleva acquistare lo stesso prodotto al 10-20% in meno. Nella rincorsa competitiva i prezzi di vendita tendono ad aggiustarsi sul valore più basso, anche perché la maggior parte dei consumatori ha disponibilità limitate. Così coloro che erano disposti a pagare anche il 10, 20% in più il nuovo prodotto, si trovano con l’opportunità di acquistarlo a meno. Questo vantaggio è ciò che nella teoria della concorrenza perfetta si chiama rendita del consumatore, e non è misurata da alcun indicatore economico.
Analogamente, la rendita del lavoratore deriva dal fatto che vi sono rapporti di lavoro non salariati, e quindi non commisurati al tempo ossia alla durata della prestazione, ma basati sul risultato (come molti dei lavori di consulenza, professionali, di servizi, di marketing,advertising etc.). Se il risultato viene raggiunto in minor tempo e con minor sforzo usando AI, e le tariffe a risultato non sono ancora state modificate, il lavoratore può soddisfare più clienti con lo stesso sforzo di prima, oppure può soddisfare meglio il proprio cliente oppure può disporre di maggior tempo libero. Spesso i tre risultati si intrecciano nella stessa persona. Solo quando la sua tariffa a risultato migliora, o il numero dei clienti aumenta, vi sarà una registrazione statistica dell’aumento di produttività, se invece aumenta il tempo libero, ci troviamo di fronte alla rendita del lavoratore, non registrata dalle statistiche.
Uno dei motivi per cui non vediamo ancora registrati, nei bilanci di impresa e nei dati macroeconomici, gli impatti dell’intelligenza artificiale, deriva dal fatto che per un breve intervallo temporale i lavoratori giovani che adottano i nuovi strumenti possono beneficiare di quella che abbiamo chiamato rendita del lavoratore, in analogia a quella del consumatore.
L’impatto strutturale dell’intelligenza artificiale sul lavoro
Ma si tratta della descrizione della fase iniziale dell’avvento di AI, in cui probabilmente i lavoratori giovani e svegli si avvalgono di AI per acquisire posizioni di “rendita del lavoratore”. La risposta delle aziende non tarderà: con il crescere dei lavoratori in grado di accedere in modo efficiente a strumenti di AI sempre più efficaci, il valore dei loro “risultati” si ridurrà. Le tariffe a risultato verranno riviste verso il basso, il numero di richieste di “servizi a risultato” si ridurrà. Molti lavori che oggi sono svolti internamente alle aziende o da servizi esterni, verranno svolti con meno dispendio di lavoro, con meno “sforzo”. L’impatto sarà elevato, come dicono da tempo, e con ragione, le aziende di consulenza. A proposito delle quali, occorre osservare che esse sono state tra le prime a segnalare il problema. Lo hanno fatto per restare sulla cresta dell’onda, ma anche perché il loro lavoro consiste nel delineare le prospettive di una specifica organizzazione alla luce dell’esperienza del settore.
Con il pieno dispiegamento dell’intelligenza artificiale, secondo Goldman Sachs, l’incremento di produttività sarebbe del 15%. Rimangono sul piatto diversi quesiti.
Che significato ha “pieno dispiegamento” in presenza di un progresso estremamente rapido dei LLM? La stima di uno spiazzamento del 7-8% degli occupati, proposto dalle stime della società di consulenza, appare “gestibile”, ma i limiti superiori parlano di una cifra pari all’aumento della produttività previsto, ossia 14-15%. Questa dimensione sarebbe già meno gestibile, poiché inevitabilmente riguarderebbe molti lavoratori nelle fasce di età medie e medio-alte, per le usali le possibilità e opportunità di riconversione sono molto basse.
I settori dove maggiormente si concentrerebbe la riduzione di occupazione tra il 2023 e il 2026 sarebbero quelli dove ci si attende una riduzione delle paghe, misurata come scostamento dal trend del 2015-2019: software, marketing, design, call centers (-10%). Tutto ciò in presenza di una contrazione della quota di lavoratori tecnici che è già iniziata, negli Stati Uniti, dal novembre 2022.
Oltre la cassa integrazione: riforme necessarie
Torniamo ora sul punto 2 della lista precedente, ossia l’intervento a sostegno dei lavoratori spiazzati. Nel nostro Paese, strumenti nati quasi un secolo fa come la cassa integrazione, hanno fatto il loro tempo. Oggi essa viene utilizzata per accompagnare alla pensione il personale di aziende decotte che non hanno alcuna prospettiva: è stato così per Alitalia più di una volta, per FIAT – oggi Stellantis-, infinite volte per l’ex Italsider di Taranto. E’ giunto il momento, anche per ragioni di giustizia sociale, introdurre un sussidio di disoccupazione decente e chiudere il rubinetto degli aiuti inutili alle aziende e ai settori in crisi.
La cassa integrazione è un meccanismo collusivo ai danni della finanza pubblica e quindi di chi paga le tasse: imprenditori e lavoratori si accordano per richiedere all’INPS l’intervento, così la vita delle aziende viene artificialmente prolungata per garantire un elevato sussidio di disoccupazione, denominato cassa integrazione. Il lavoratore non viene spinto a cercarsi un nuovo lavoro o a riqualificarsi, l’imprenditore rinvia il redde rationem con il mercato, e con la procedura del fallimento. Nei casi peggiori, i lavoratori in cassa integrazione lavorano cosicché lo Stato si fa carico, inconsapevolmente, del loro salario, alleggerendo in modo truffaldino i costi e aumentando i profitti dell’impresa.
E’ un meccanismo nato durante la Grande Guerra, per sopperire alle interruzioni improvvise di produzione causate dal conflitto. Esso non può certo reggere l’impatto della riorganizzazione del mercato del lavoro che si preannuncia con AI, dove l’intervento decisivo è sulla formazione permanente dei lavoratori attivi e sulla preparazione digitale delle nuove leve.
Note
[1]) Ben Chu, Exiles Economics. What Happens if Globalisation Fails,New York:Basic Books, 2025.
[2]) Pekka Kinnunen , Joseph H. A. Guillaume, Maija Taka , Paolo D’Odorico , Stefan Siebert,
Michael J. Puma , Mika Jalava, Matti Kummu , Local food crop production can fulfil demand for
less than one-third of the population, Nature Food, vol. 1, April 2020.
[3]) Alberto Mingardi, Perché il consumatore USA sarà la prima vittima dei dazi, Corriere della Sera, 6 ottobre 2025.
[4]) Brent Meyer, Aaron Jalca, Michael Dwight Sparks, David Wiczer, Will Tariffs Touch Off an Inflationary Impulse? Business Execs Think So, Federal Rserve Bank of Atlanta’s Policy Hub, n. 4 August 2025.
[5]) Gary Clyde Hufbauer , Ye Zhang, How Many Manufacturing JobsWill Trump’s Tariffs Create?
And at What Cost?, The American Enterprise, September, 2025.
[6]) Atkinson, Robert D.,Time for Globalization 2.0?: This time without the mistakes?
The International Economy; Washington Vol. 39, Fasc. 1, (Winter 2025).
[7]) Anche Goldman Sachs nel suo How Will AI Affect the Global Workforce?, Aug 13, 2025
segnala la lentezza nell’applicazione delle soluzioni AI da parte delle aziende. Ritiene che questo fatto sia un motivo per attenuarne la profondità dell’impatto occupazionale.













