Pensare al futuro vuol dire immaginare come potremmo cambiare il mondo, rispondendo a degli input personali o sociali, e ipotizzare quali nuove tecnologie ci potrebbero aiutare a semplificare o velocizzare le nostre attività sia a basso che ad alto valore aggiunto. Il tutto visualizzandoci all’interno di questo flusso, di questo cambiamento. Che ruolo avremo? Avremo ancora un ruolo? Ma, soprattutto, dobbiamo avere paura di questa rivoluzione copernicana fatta di bit e algoritmi? Quanto possiamo credere nella tecnologia? In quanto spazio etico viaggiamo noi e la tecnologia che ci circonda?
Un mondo di tecnologie interconnesse
“La prossima rivoluzione non sarà lo sviluppo verticale di qualche nuova sconosciuta tecnologia ma uno sviluppo orizzontale, dal momento che riguarderà il connettere tutto a tutto (a2a), e non soltanto gli esseri umani agli esseri umani”[1]. In altre parole, qui, il professor Luciano Floridi ipotizza connessioni tra oggetti. Un mondo fatto di tecnologie interconnesse, in grado di venire incontro alle esigenze dell’uomo e della donna, dei mercati, della finanza, dell’economia e della politica.
Sempre secondo Floridi, in Italia, così come negli altri Paesi del G7, siamo già passati dall’era della storia (dove le tecnologie non hanno ancora assunto il sopravvento sulle altre, soprattutto su quelle basate sull’uso di energia) a quella dell’iperstoria dove le tecnologie dell’informazione e della comunicazione risultano indispensabili per garantire il benessere individuale e sociale.
In questo contesto diventa sempre più necessario analizzare la nostra posizione rispetto a questi artefatti con cui stiamo instaurando un rapporto osmotico, essere consapevoli della trasformazione digitale che ci sta attraversando e avere gli strumenti necessari per individuare le interconnessioni più profonde e trasversali, anche, ad esempio, rispetto ai cambiamenti climatici e ambientali. Perché “le ICT stanno rendendo l’umanità sempre più responsabile, dal punto di vista morale, per il modo in cui il mondo è, sarà e dovrebbe essere”[2].
La conoscenza vince sulla paura
In pratica quello che ci viene chiesto è di affrontare il grande tema della complessità (di dati, di proposte, di stimoli, di temi, di prospettive), sviluppando un pensiero sempre più critico e maturo rispetto alla realtà che viviamo e al modo in cui ci viene rappresentata (dai media, ma non solo) e adottando comportamenti etici e responsabili nell’uso, nella creazione o nell’adozione di tecnologia. In prima battuta, però, la vera chiave di volta è la conoscenza dei nuovi strumenti tecnologici: conoscere vuol dire non avere paura di utilizzarli, farne propri i processi per sentirli più nostri, non percependoli come nemici ma come facilitatori.
Uno degli aspetti che tocca da vicino la complessità è quello dell’incertezza: un tema che il professor Floridi sceglie di definire in termini di insipienza: “cioè di presenza di una domanda senza una risposta o con più risposte di cui non si conosce la correttezza (si noti che l’ignoranza è l’assenza anche della domanda, non solo della risposta). L’incertezza può riguardare il passato, per esempio l’interpretazione di una frase scritta in lingua morta; il presente, per esempio il risultato di un’elezione ancora in corso; o il futuro, per esempio lo stato dell’economia di un paese a distanza di un anno. In ciascun caso, usare l’IA per identificare la risposta più probabile è un po’ come usare una macchina del tempo: grazie alla velocità di trasformazione efficiente di dati in informazioni, azzeriamo la distanza tra noi e la risposta alla domanda”[3].
L’IA e il machine learning ci permettono di guardare il mondo a più velocità, o meglio a velocità prima insperate e inimmaginabili. Conoscere i meccanismi sottesi all’uso delle tecnologie e del digitale ci consente di individuarne quotidianamente fini, obiettivi e metodologie: solo così potremo davvero sentirci sempre più consci nel nostro fondamentale ruolo di gestori e amministratori. Insomma, saremo in qualche modo conquistatori e non conquistati dalle macchine e dalla loro “intelligenza”.
Il ruolo della Fondazione Italia Digitale
Dall’analisi “Italiani e digitale” condotta dall’Istituto Piepoli lo scorso settembre emerge una sostanziale fiducia da parte dei cittadini nei confronti della digitalizzazione, vista come un’opportunità dal 75% degli intervistati in tutte le fasce di età analizzate. Per il 90% degli italiani è poi necessario un ampio piano nazionale di cultura digitale, la cui caratteristica predominante deve essere la facilità e semplicità (35%). Quali caratteristiche principali dovrebbe avere, secondo gli intervistati, il modello di sviluppo digitale? Al primo posto di nuovo la facilità, seguita dalla sicurezza, dalla formazione, dall’accessibilità e dalla garanzia di velocità di connessione.
Un piano nazionale pop si potrebbe dire, dove “pop” sta per popolare, in grado di arrivare a tutte e tutti, senza differenze anagrafiche, sociali o appunto culturali. Con questo spirito è nata la Fondazione Italia Digitale: costituire il luogo privilegiato per la discussione e lo sviluppo di policy digitali a livello italiano ed europeo, in ambito pubblico, politico e economico. Un luogo dove il dialogo vero tra cittadini e imprese o cittadini e pubblica amministrazione possa essere diretto, veloce, fluido perché entrambe le parti parlano gli stessi linguaggi, usano gli stessi mezzi e soprattutto accettano lo spazio digitale in cui sono immersi.
La Fondazione, nata dall’esperienza dell’associazione PA Social, si pone l’obiettivo di contribuire allo sviluppo di politiche legate al mondo digitale necessarie per affrontare la trasformazione in atto. Questi cambiamenti stanno avvenendo così rapidamente che non sempre è possibile disporre delle conoscenze specialistiche e delle prospettive necessarie per valutare e rispondere a problemi in costante evoluzione, sfruttare nuove opportunità, superare le sfide ed evitare potenziali insidie. Le continue ondate di innovazione tecnologica infatti promuovono cambiamenti ciclopici, che vanno affrontati con “regole di ingaggio” nuove per consentire il passaggio equilibrato dalla società verticale tradizionale alla cosiddetta “democrazia delle piattaforme”, abitata da “cittadini digitali”.
Conclusioni
Gli italiani hanno voglia di accelerare e c’è una richiesta sempre più forte di digitale. A questo sentimento dobbiamo rispondere con un investimento convinto sulle competenze e sui servizi, una risposta precisa di policy eque e all’altezza della rivoluzione in corso. Lavoreremo con pubblico e privato, su divulgazione, ampliamento del dibattito, proposte, per non perdere e sfruttare al meglio la straordinaria occasione che abbiamo con il PNRR e i piani di rilancio del Paese.
Note
- L. Floridi, “La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017, p. 33. ↑
- Ivi, p. 46. ↑
- L. Floridi, Prefazione, in M. Chiriatti, “Incoscienza artificiale. Come fanno le macchine a prevedere per noi”, Luiss University Press, Milano 2021, p. 12 ↑