Le competenze digitali sono un requisito fondamentale per la piena cittadinanza nell’era digitale, ma l’Italia sconta un ritardo preoccupante rispetto agli standard europei. I numeri sono chiari e impietosi.
Indice degli argomenti
Il ritardo italiano nelle competenze digitali di base
Meno della metà degli italiani tra 16 e 74 anni possiede competenze digitali di base secondo gli standard europei: appena il 45,7%. In pratica, più di un italiano su due fatica in attività elementari come navigare online, usare l’e-mail o compilare un modulo digitale.
La media europea è più alta (circa 54%), mentre Paesi come Finlandia e Olanda sfiorano già l’80% di popolazione con competenze digitali di base. L’Italia si colloca dunque agli ultimi posti in Europa, quart’ultima per l’esattezza, davanti solo a Romania, Bulgaria e Polonia. Un paragone che evidenzia un grave ritardo storico, benché le cause varino per contesto socio-economico.
Divario generazionale e formativo: giovani non basta essere nativi digitali
Il divario interno non è uniforme. I giovani se la cavano meglio degli anziani, i laureati meglio di chi ha livelli d’istruzione più bassi – tendenze prevedibili ma comunque allarmanti. Ad esempio, tra i 25-54enni laureati in Italia, oltre l’80% possiede competenze digitali almeno di base, mentre tra chi ha solo la licenza elementare questa quota crolla al 25%.
Anche tra i giovani “nativi digitali” il nostro Paese resta indietro rispetto all’Europa: solo il 58,5% dei ragazzi italiani sotto i 30 anni (fascia 16-29) ha competenze digitali di base, contro il 70,7% della media UE. L’Italia in questo caso si colloca addirittura al terzultimo posto, facendo meglio solo di Bulgaria e Romania nonostante l’apparente familiarità dei giovani con la tecnologia.
Nord-Sud: le disparità territoriali nel digitale
Le differenze territoriali sono marcate: il Sud soffre particolarmente. Appena il 36% circa dei cittadini del Mezzogiorno possiede competenze digitali di base, contro oltre il 50% nel Nord.
In alcune regioni del Nord (Lazio, Friuli-VG, Trento) si supera il 50% di popolazione digitalmente competente, mentre in Calabria, Sicilia e Campania si viaggia attorno al 33-34%.
Questo significa che colmare il divario richiederebbe in queste regioni aumenti di 5 punti percentuali all’anno – uno sforzo enorme.
Le disparità riguardano anche il contesto urbano e il livello socio-economico, perpetuando uno schema per cui chi è già svantaggiato rischia di restare ulteriormente indietro nell’era digitale.
Pandemia e uso di Internet: connessi ma non competenti
Nonostante questo scenario poco incoraggiante, negli ultimi anni qualcosa si è mosso. La pandemia ha paradossalmente dato una spinta: oggi oltre l’88% degli italiani tra 16 e 74 anni utilizza regolarmente Internet. Nel 2019 eravamo fermi al 74%, ma il bisogno di comunicare, lavorare e studiare online durante l’emergenza sanitaria ha accelerato l’adozione del web anche tra le fasce meno digitalizzate. Tuttavia, essere online non significa essere davvero competenti. È come saper pedalare senza conoscere il codice della strada: ci si muove, ma con rischi ed enormi inefficienze. Il fatto che quasi nove italiani su dieci navighino su Internet, ma solo circa la metà abbia competenze di base, indica chiaramente che molti utilizzano strumenti digitali senza le conoscenze necessarie per sfruttarli in modo efficace e sicuro.
Obiettivi europei 2030: la sfida del Decennio Digitale
L’Unione Europea, con il programma “Decennio Digitale 2030“, ha fissato obiettivi chiarissimi e ambiziosi: entro il 2030 l’80% dei cittadini europei dovrà avere competenze digitali di base, e tutti i servizi pubblici essenziali dovranno essere disponibili online. Si tratta di traguardi contenuti nel Digital Compass europeo e che l’Italia ha recepito nella strategia nazionale “Italia Digitale 2026” e nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
In altre parole, nel giro di pochi anni ogni cittadino europeo dovrà poter gestire servizi fondamentali (dall’identità digitale alla sanità, dai pagamenti alla scuola) tramite internet, e disporre delle abilità minime per farlo.
Mission impossible: formare 15-20 milioni di italiani entro il 2030
Per l’Italia, la distanza da colmare è enorme. Partendo da un livello attuale intorno al 46-48%, raggiungere l’80% di popolazione digitalmente competente entro il 2030 significa formare almeno altri 15-20 milioni di persone in pochi anni. Non a caso, le stesse fonti istituzionali definiscono questo risultato “un obiettivo molto ambizioso, che richiede importanti investimenti ogni anno, anche oltre il periodo del PNRR”. I dati Istat parlano chiaro: per centrare l’80% entro il 2030, l’Italia dovrebbe aumentare la quota di cittadini con competenze digitali di base di circa 3,8 punti percentuali all’anno da qui al 2030, un ritmo che gli esperti hanno definito una quasi “mission impossible“.
È uno sforzo senza precedenti, considerando che negli ultimi anni i progressi annui sono stati di pochi punti percentuali e che colmare certi gap strutturali (generazionali, educativi, territoriali) è molto complesso.
Punti Digitale Facile: primi risultati ma ancora insufficienti
Eppure, qualche segnale positivo esiste. Grazie ai fondi del PNRR è stato avviato un programma capillare di facilitazione digitale: i “Punto Digitale Facile“, sportelli sul territorio dedicati ad assistere i cittadini nei servizi online e a formare chi ha poca dimestichezza col digitale. Queste iniziative hanno già coinvolto milioni di persone: oltre 2 milioni di cittadini hanno usufruito di formazione gratuita presso più di 3.500 Punti Digitale Facile, permettendo all’Italia di raggiungere con 7 mesi di anticipo il target di cittadini formati previsto per il 2026. Tuttavia, restano interventi insufficienti rispetto alla vastità del problema: più della metà della popolazione adulta rimane poco o per nulla competente.
Competenze digitali nella PA: sanità e scuola in difficoltà
Se guardiamo nella Pubblica Amministrazione, spina dorsale di ogni Paese, il quadro generale è in linea con i dati nazionali. Seppure non esistano indagini pubbliche che quantifichino le competenze digitali per comparto della PA (amministrazioni centrali, enti locali, scuola, sanità, ecc.), di fatto elementi qualitativi e finanziamenti dedicati suggeriscono ampie disparità. Ad esempio, il settore sanitario è indicato come in forte ritardo: il PNRR destina 0,74 miliardi di euro allo sviluppo delle competenze (comprese quelle digitali) del personale sanitario, a testimonianza delle carenze formative esistenti. Analogamente, nel settore istruzione si segnalano ampi gap: indagini indipendenti rilevano che oltre il 66% dei docenti non ha alcuna formazione specifica su tecnologie avanzate come l’IA, implicando competenze digitali di base spesso modeste.
Disparità tra comparti della PA: chi è più avanti e chi resta indietro
In generale, i servizi centrali della PA tendono ad avere maggiori risorse (anche in formazione) rispetto a quelli locali o ai servizi erogati da scuola e sanità. Ad esempio, i dati FPA mostrano che negli ultimi anni i centri di responsabilità principali (amministrazioni centrali) hanno registrato aumenti retributivi e investimenti formativi superiori rispetto a comparti come istruzione e sanità.
Va comunque rilevato che la PA locale (Regioni, Comuni) ha pubblicato bandi concorsuali rilevanti sul portale InPA, ma manca un’analisi diffusa sulle skill in entrata per ciascun comparto. In sintesi, pur senza cifre precise, gli indicatori macro suggeriscono che le competenze digitali dei dipendenti siano più carenti nei comparti tradizionali (giuridico-amministrativi, sanità, istruzione) e migliori (ma comunque insufficienti) nei ruoli tecnico informatici delle strutture centrali.
Investimenti formativi in crescita ma da basi molto basse
Negli ultimi anni la PA italiana ha iniziato ad aumentare l’investimento sulla formazione, ma da basi molto basse considerando che ad esempio, nelle linee guida pubblicate dall’Agenzia per l’Italia Digitale viene indicato anche la struttura dei formati file e del riversamento (archiviazione). Nel 2020 la spesa per formazione in servizio della PA era di soli 40,3 € per dipendente all’anno (≈130,7 milioni € totali). Questo valore era da decenni inchiodato sotto i 40 €/anno, assai inferiore ai modelli di PA di altri Paesi. Da allora, grazie a norme recenti e fondi europei, la formazione digitale del personale pubblico è aumentata: nel 2023 ogni dipendente ha ricevuto in media quasi 2 giornate di formazione (contro 0,86 nel 2021 e 1,31 nel 2022), segno di un raddoppio in due anni.
PNRR e fondi europei per la formazione digitale
Accanto agli sforzi interni, i finanziamenti del PNRR e della programmazione europea forniscono nuovi fondi. Oltre alle somme per specifici settori (es. i 740 M€ per la sanità), ci sono programmi per la formazione digitale di massa: l’Investimento 1.7 del PNRR (per cittadini e lavoratori) e bandi formativi (PNRR, POR, Fondo nuove competenze, ecc.) mirano ad alzare il livello delle skill di base e professionali.
I dati principali sintetici degli investimenti formativi sono: spesa 2020/PA: 40,3 €/dipendente (tot. 130,7 M€); Formazione 2023: ~1,9 giorni/anno per dipendente (vs 0,86 nel 2021); PNRR sanità: 0,74 miliardi € per competenze digitali del personale sanitario; PNRR/PNC generali: fondi per competenze digitali di base e professionali (investimento 1.7) e programmi di formazione specialistica.
Intelligenza artificiale: opportunità o illusione per il digitale?
In questo contesto di ritardo digitale strutturale, entra in scena l’intelligenza artificiale. L’IA è al centro del dibattito pubblico. Ci si chiede: può davvero aiutare questo processo di evoluzione digitale raggiungendo così gli obiettivi europei? E come può farlo, se molti utenti non sanno nemmeno orientarsi online o accendere un computer?
Assistenti virtuali e chatbot: semplificare l’accesso ai servizi
L’IA rappresenta una grande opportunità se progettata e implementata con intelligenza e inclusività. Gli assistenti virtuali, ad esempio, possono guidare un cittadino inesperto attraverso procedure complesse: immaginate di parlare con una chatbot che, passo dopo passo, compila moduli per voi, vi spiega i passaggi successivi e previene gli errori più comuni.
Può essere molto più semplice ed intuitivo che navigare da soli un sito web tradizionale pieno di istruzioni poco chiare. Alcuni enti pubblici stanno già sperimentando sistemi di questo tipo, capaci di fornire risposte ai cittadini 24 ore su 24, 7 giorni su 7, in linguaggio naturale e persino in più lingue. Ad esempio, esistono chatbot progettati per semplificare l’accesso ai concorsi pubblici o ai servizi comunali, disponibili a qualsiasi ora e in grado di parlare “come un umano”, evitando il gergo burocratico.
IA come ponte tra cittadini e servizi: vantaggi dell’accessibilità
Parlare o scrivere domande in italiano semplice a un assistente virtuale è più accessibile di un’interfaccia rigida, specialmente per chi ha poca familiarità con menù e moduli online.
Un chatbot ben progettato può usare un linguaggio semplice e chiaro, offrire risposte immediate, ed è per definizione sempre disponibile (non chiude mai gli sportelli). Inoltre, le soluzioni più avanzate gestiscono più lingue e possono funzionare sia via testo sia attraverso comandi vocali, aiutando anche chi ha difficoltà di lettura o disabilità visive. In questo senso, l’AI potrebbe diventare un “ponte” tra i cittadini più fragili e i servizi digitali, rendendo l’esperienza più intuitiva e a misura d’utente. Pensiamo a un anziano che fatica a navigare un portale: poter semplicemente chiedere a voce “Come rinnovo la carta d’identità?” e ricevere istruzioni guidate da un assistente virtuale sarebbe rivoluzionario.
I limiti dell’AI: serve un minimo di competenza digitale
L’AI non è una bacchetta magica: richiede comunque un minimo di competenza digitale, fiducia nello strumento e capacità di interpretare le indicazioni fornite. Chi oggi non sa accendere un computer o usare un mouse, difficilmente inizierà a dialogare con un assistente virtuale, per quanto avanzato esso sia. Inoltre, un’interfaccia conversazionale mal progettata potrebbe generare frustrazione tanto quanto un modulo online complicato.
Competenze prima della tecnologia: il nodo della trasformazione
Un recente studio sul personale pubblico italiano evidenzia che il vero nodo della trasformazione digitale non è la tecnologia in sé, ma le competenze delle persone coinvolte (utenti e lavoratori). In altre parole, senza adeguate skill, anche la migliore AI serve a poco o può addirittura essere controproducente.
In più, se l’adozione dell’AI dovesse avvenire solo nei territori e negli enti più avanzati, rischieremmo di aumentare – anziché ridurre – il divario digitale. Le aree ricche e digitalmente mature stanno infatti integrando l’AI a velocità crescente, mentre le altre restano indietro. Questo si potrebbe tradurre in un potenziale ampliamento delle disuguaglianze.
Strategie inclusive: testare l’AI con tutti i cittadini
Per questo motivo, l’introduzione dell’AI nella PA deve essere accompagnata da strategie inclusive e graduali. Bisogna testare queste soluzioni anche con utenti anziani, con persone poco scolarizzate, con cittadini stranieri poco avvezzi all’italiano, insomma con tutti coloro che oggi hanno difficoltà con il digitale. L’intelligenza artificiale nella PA dovrà integrarsi in un ecosistema “ibrido”: per un periodo di transizione, gli sportelli fisici tradizionali dovranno coesistere con i nuovi servizi digitali intelligenti, così da non lasciare indietro nessuno.
Il cittadino va accompagnato passo passo in questo percorso di cambiamento: potrà scegliere il canale tradizionale finché non si sentirà pronto per quello digitale, che nel frattempo diventerà più semplice e affidabile grazie all’AI. Solo così la tecnologia sarà davvero un’opportunità per tutti e non un ulteriore filtro.
Alfabetizzazione digitale capillare e rete permanente di facilitatori
Gli obiettivi europei per il 2030 non sono irraggiungibili, ma richiederanno un impegno straordinario e congiunto. Il digital divide italiano è in gran parte un problema di competenze e cultura, prima ancora che di tecnologia. Colmare quel 50% di cittadini “a digiuno” di digitale significa agire in profondità sul tessuto sociale, formativo e lavorativo del Paese.
Potrebbe essere utile riflettere sui programmi di alfabetizzazione digitale capillari per tutte le fasce d’età e per i vari segmenti della PA. Ogni cittadino deve avere l’opportunità di acquisire almeno le basi per vivere in sicurezza nell’era digitale, al pari di come tutti imparano le regole stradali o le nozioni igienico-sanitarie fondamentali. Ogni dipendente della PA deve essere in grado di almeno riconoscere una mail malevola. Allo stesso modo potrebbe essere utile rendere permanente la rete dei facilitatori digitali sul territorio. L’Italia sta già pianificando di rendere strutturale la rete dei Punti Digitale Facile oltre la conclusione del PNRR, affinché diventi un’infrastruttura continuativa e un riferimento per l’accrescimento delle competenze e l’uso dei servizi digitali. Nella PA sarebbe necessaria una verifica costante delle competenze minime.
Cauto ottimismo: una trasformazione culturale prima che tecnologica
In conclusione, i prossimi anni chiedono una valutazione di cauto ottimismo e realismo. La trasformazione digitale non è solo un processo tecnologico, ma profondamente culturale. L’Italia può colmare il divario che oggi la separa dagli ambiziosi obiettivi europei, a patto di investire nelle competenze dei cittadini e di utilizzare strumenti come l’intelligenza artificiale non per rimpiazzare l’uomo, ma per accompagnarlo e potenziarlo.
















