Nel cuore del subcontinente indiano, laddove la geopolitica si fonde con la retorica identitaria e le tensioni storiche si riverberano in ogni flusso comunicativo, si è recentemente consumata una crisi che, pur avendo trovato una momentanea tregua nei protocolli del cessate il fuoco, ha lasciato dietro di sé un cratere epistemologico ben più profondo delle ferite fisiche della guerra.
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L’inizio della disinformazione bellica nell’operazione Sindoor
La cosiddetta Operazione Sindoor, annunciata dalle autorità indiane come una legittima risposta militare all’attacco armato avvenuto in Kashmir — attacco che ha provocato la morte di ventisei persone, perlopiù turisti civili, e la cui responsabilità è stata prontamente attribuita dal governo di Nuova Delhi al vicino pakistano — ha infatti dato avvio a una campagna di disinformazione massiva, transfrontaliera e pervasiva, che ha contaminato il tessuto informativo dei due Paesi, accendendo gli schermi prima ancora che i cieli.
Strategie digitali e impatto emotivo della disinformazione bellica
Si è trattato di una guerra invisibile, silenziosa solo in apparenza, ma fragorosa nei suoi effetti, la cui trama si è snodata tra post ricondivisi milioni di volte, video artefatti, immagini generate da intelligenza artificiale, spezzoni di videogiochi convertiti in cronaca e retoriche nazionaliste amplificate da media mainstream in palese dissonanza con i principi cardine del giornalismo etico.
È bene specificare che le prime avvisaglie di questa manovra informativa si sono manifestate attraverso i social network, principalmente X (ex Twitter) e Facebook, con la diffusione di notizie tanto eclatanti quanto false: abbattimenti di aerei, catture di piloti, avanzate su territori pakistani come la città di Lahore o il porto strategico di Karachi, fino ad arrivare a fantasiose ipotesi di golpe militari e arresti di alti funzionari: una narrazione seduttiva, capace di trascinare l’opinione pubblica nel vortice dell’indignazione patriottica e di fare leva su contenuti emozionali, virali e spesso impossibili da confutare in tempo reale.
La contro-narrazione pakistana e l’effetto specchio
Parallelamente, anche il Pakistan ha alimentato una contro-narrazione speculare: presunte offensive cyber condotte con successo, bandiere bianche issate dall’esercito indiano, catture di piloti e video celebrativi di inesistenti vittorie, corredati da immagini di repertorio o da simulazioni digitali, insomma, si è trattato, in entrambi i contesti, di una reiterata violazione del principio di veridicità dell’informazione, elevata a sistema attraverso la manipolazione strategica delle emozioni collettive e l’orchestrazione di contenuti digitali opportunamente costruiti per eludere i filtri della razionalità: il risultato è stato quello di una verità frantumata in mille rivoli propagandistici e di una cittadinanza sempre più disorientata, incapace di distinguere tra la realtà fattuale e l’allucinazione mediatica, ma ciò che ha reso questa vicenda particolarmente allarmante non è stata solo la quantità di contenuti disinformativi, bensì la loro strutturazione sistemica e la capacità di infiltrarsi in ogni anfratto del discorso pubblico, compresi i notiziari ufficiali.
Il ruolo distorto dei media e la crisi dell’etica giornalistica
E proprio per tali motivi, numerose testate indiane hanno rilanciato queste falsità con toni trionfalistici, rinunciando al dovere della verifica e abdicando così al proprio ruolo costituzionalmente protetto di garanti del pluralismo e della trasparenza.
Alcuni anchor, consapevoli della deriva intrapresa, hanno poi successivamente rilasciato pubbliche scuse, ma il danno epistemico era già stato compiuto, addirittura, la stessa Citizens for Justice and Peace, autorevole organizzazione per i diritti umani, ha denunciato gravi violazioni deontologiche, accusando sei dei principali canali televisivi indiani di essere divenuti megafoni della propaganda governativa.
Responsabilità normative e inerzia delle piattaforme digitali
Dal punto di vista giuridico, invece, si impone un’analisi che abbracci tanto il diritto interno quanto quello internazionale. Infatti, in ambito domestico, la responsabilità dei media andrebbe valutata alla luce delle normative nazionali in materia di radiodiffusione e contrasto alla disinformazione, laddove esistenti, nonché alla luce dell’obbligo positivo degli Stati di garantire un’informazione corretta, specie in contesti di crisi.
È altresì doveroso interrogarsi sul ruolo delle piattaforme digitali, la cui inerzia nella moderazione dei contenuti ha aggravato il fenomeno: secondo il Centro per lo Studio dell’Odio Organizzato (CSOH), dei 427 post più problematici analizzati su X, solo 73 riportavano etichette di avvertimento o verifica, mentre il resto è rimasto accessibile e virale, quindi, in un contesto di potenziale conflitto nucleare, tale negligenza può costituire una minaccia alla sicurezza globale e richiedere l’intervento regolatorio urgente, magari su scala multilaterale.
Disinformazione bellica e violazioni del diritto internazionale
Nel panorama del diritto internazionale, invece, la questione si intreccia con il principio di non intervento, l’obbligo di non interferenza nelle questioni interne di altri Stati e il divieto di propaganda bellica sancito da strumenti come il Patto internazionale sui diritti civili e politici: la diffusione deliberata di disinformazione bellica — soprattutto se orchestrata da attori statali o parastatali — potrebbe configurare una violazione di tali norme, oltre a mettere a repentaglio i principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite, quali il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, pertanto, non si tratta più soltanto di un problema etico o culturale, ma di una questione giuridica di primaria importanza, capace di riverberarsi sull’ordine mondiale e sulla tenuta del diritto internazionale umanitario.
La guerra ibrida come nuovo paradigma del conflitto globale
In ultima analisi, la crisi indo-pakistana del maggio 2025 non rappresenta un’eccezione, bensì la manifestazione paradigmatica di una nuova era conflittuale, in cui le ostilità si consumano in parallelo tanto sul campo di battaglia quanto sul terreno dell’informazione digitale ed è ciò che molti analisti definiscono guerra ibrida: una strategia che fonde azioni militari tradizionali con operazioni di guerra psicologica, manipolazione dell’informazione, sabotaggio digitale e uso strumentale delle tecnologie emergenti.
La disinformazione, in tale contesto, diviene essa stessa arma di guerra, capace di destabilizzare, disorientare, polarizzare, suscitare consenso e consolidare il potere, in assenza di un solo colpo di cannone.
La necessità di una risposta globale alla disinformazione bellica
In conclusione, il caso dell’Operazione Sindoor dimostra, con chiarezza inquietante, che il vero campo di battaglia non è più confinato alle frontiere fisiche, ma si estende ai margini porosi del cyberspazio, dove la verità è continuamente contesa e ridefinita.
La risposta a tale sfida non può che essere sistemica, fondata su solide architetture giuridiche, robuste infrastrutture di verifica, alfabetizzazione digitale diffusa e, soprattutto, su un impegno collettivo e interstatale per preservare l’integrità dell’informazione come bene pubblico e diritto umano fondamentale, in assenza di ciò, il rischio è quello di normalizzare una realtà falsificata, in cui la narrazione della guerra precede — e talvolta provoca — la guerra stessa.