Nel tribunale distrettuale degli Stati Uniti a Washington si sta giocando una delle partite più importanti dell’epoca digitale. Ufficialmente, si tratta di un processo antitrust, il Dipartimento di Giustizia accusa Google di aver mantenuto illegalmente il proprio monopolio nel mercato della ricerca online, pagando produttori di smartphone e browser affinché il suo motore fosse quello predefinito.
Una pratica che, secondo la sentenza del 2024 del giudice Amit Mehta, ha compromesso per anni la concorrenza. Ma dietro il linguaggio tecnico-giuridico di contratti esclusivi e pratiche anticoncorrenziali, si cela una questione ben più ampia, chi controllerà in futuro l’accesso all’informazione digitale?
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Da monopolio della ricerca a monopolio dell’AI
L’udienza, iniziata lo scorso aprile, è rapidamente scivolata su un terreno nuovo e cruciale: l’intelligenza artificiale. Il sospetto del governo è che Google possa estendere il proprio potere dalla ricerca classica ai nuovi strumenti conversazionali e predittivi, attraverso Gemini, il suo chatbot AI integrato in Android, Chrome e altri servizi. Documenti riservati mostrano che Google aveva considerato accordi con operatori mobili e produttori di smartphone per rendere Gemini preinstallato e predefinito, proprio come accaduto con il motore di ricerca. Dopo la sentenza del 2024, l’azienda ha fatto un passo indietro su quel fronte, ma ha comunque raggiunto un’intesa con Samsung per integrare Gemini sui dispositivi della casa coreana. Un’integrazione che, pur essendo non esclusiva, mantiene l’effetto leva di un’infrastruttura già dominante. I legali del Dipartimento di Giustizia temono che Google possa replicare il modello del passato anche nel futuro dell’AI. Non si tratterebbe più solo di controllare la barra di ricerca, ma l’interfaccia cognitiva con cui miliardi di persone accedono alla conoscenza, pongono domande, prendono decisioni. In altre parole: il cuore stesso della nostra esperienza informativa.
La proposta radicale: vendere Chrome, aprire i dati
Per evitare che questo scenario si realizzi, il governo ha avanzato richieste drastiche. Ha proposto:
- la cessione del browser Chrome, oggi utilizzato da oltre il 60% degli utenti globali, per ridurre l’effetto leva che Google può esercitare sull’ecosistema web.
- A questa misura si aggiunge la richiesta di obbligare l’azienda a condividere i propri dati, compresi i risultati di ricerca e le inserzioni pubblicitarie, con concorrenti come OpenAI, Anthropic e Perplexity, al fine di evitare una concentrazione eccessiva delle fonti informative.
- Infine, il governo intende vietare la stipula di nuovi accordi esclusivi tra Google e i produttori di smartphone o operatori mobili, che potrebbero limitare la libertà di scelta degli utenti e ostacolare l’accesso ad alternative reali.
Ed è qui che la vicenda ha assunto una piega ancora più sorprendente. In aula, Nicholas Turley, head of product di ChatGPT, ha dichiarato: “OpenAI sarebbe interessata ad acquistare Chrome se fosse messo in vendita.” Non si tratta solo di un’acquisizione strategica: il vero obiettivo è ridisegnare l’intera esperienza di accesso al web in ottica “AI-first”. Non più una barra dove digitare parole chiave, ma un assistente intelligente che comprende, anticipa, consiglia. Il nuovo layer cognitivo di internet.
Una scissione storica in un contesto tutto nuovo
Se il giudice Mehta accogliesse le richieste del governo, ci troveremmo di fronte alla prima vera scissione forzata di un colosso tech dalla separazione di AT&T nel 1982. Allora si trattava di linee telefoniche e infrastrutture fisiche. Oggi la posta in gioco è ancora più sottile ma altrettanto decisiva: il controllo degli accessi digitali, delle interfacce, dei dati. Chi possiede il browser, chi imposta il motore di default, chi distribuisce l’assistente vocale o il chatbot predefinito… detiene il potere di orientare l’attenzione, l’informazione, il consumo. Un potere invisibile ma profondissimo.
Una regolazione che guarda ancora al passato
Il processo contro Google non è l’unico. A Washington c’è anche il procedimento della FTC contro Meta, accusata di aver eliminato la concorrenza con l’acquisizione di Instagram e WhatsApp. Ma anche in quel caso, la lente regolatoria sembra fissata su un tempo superato: le acquisizioni risalgono a oltre 12 anni fa, nel frattempo TikTok ha conquistato un’intera generazione, diventando il vero competitor dominante. Eppure, viene escluso dal perimetro competitivo considerato. Lo stesso accade con Google. Si analizza il suo potere nella pubblicità su siti web, mentre gran parte del mercato si è già spostato su streaming, creator economy, ad tech video. E si giudica la sua posizione nella ricerca testuale, proprio mentre i chatbot generativi stanno ridefinendo il concetto stesso di ricerca. È il cosiddetto shark fin effect: una tecnologia cresce rapidamente, raggiunge un picco di adozione, poi viene superata da un’altra ancora più efficace. Le autorità intervengono quando il picco è già passato e il mercato si è già spostato altrove.
Le interfacce cognitive, il nuovo fronte del potere
Nel mondo digitale di oggi, il vero potere non è nei contenuti né nei server. È nelle interfacce cognitive: quei livelli software che mediano tra l’utente e l’informazione. Il browser, il motore, l’assistente, il feed, il chatbot. Google lo ha capito per prima. Ma oggi anche OpenAI, Apple, Amazon e TikTok si stanno muovendo nella stessa direzione: essere il punto d’ingresso preferito, naturale, invisibile. La battaglia è tutta lì. Se Chrome diventasse contendibile, se Gemini non fosse più preinstallato, se i dati di Google fossero accessibili agli altri, si riaprirebbe uno spazio di concorrenza reale. Ma soprattutto, si riaprirebbe il dibattito su come vogliamo accedere all’informazione in futuro, e su chi può decidere come ci viene presentata.
Le regole cambiano, ma chi innova comanda
La lezione finale è chiara, le regole del mercato contano, ma è l’innovazione a riscrivere i rapporti di forza. I tribunali possono correggere abusi passati, ma non possono prevedere le discontinuità future. Il vero antagonista di Google non è l’antitrust. È il cambiamento tecnologico. Se Gemini non funzionerà meglio di ChatGPT, o se il pubblico deciderà di affidarsi ad altri strumenti, il dominio verrà eroso naturalmente. Ma perché ciò accada, le condizioni di accesso e sviluppo devono essere davvero aperte e contendibili. È questo, in fondo, il cuore del processo in corso. Non si giudica solo il comportamento di Google, si decide se l’intelligenza artificiale sarà un terreno aperto o una nuova forma di concentrazione. Se l’informazione del futuro sarà pluralista, o se avrà un solo volto, un solo assistente, un solo algoritmo.