La grande corsa all’intelligenza artificiale ha già cambiato il modo in cui le aziende assumono, formano e trattengono il talento. Ma cosa sta davvero accadendo? Un’ondata di dati e casi studio racconta una realtà più complessa di quanto sembri.
Da un lato l’AI riduce la domanda di lavoratori junior/entry-level, dall’altro alimenta una nuova domanda di profili esperti e flessibili. È davvero l’inizio di una rivoluzione occupazionale o solo l’ennesima trasformazione con vincitori e vinti?
A ogni nuova ondata tecnologica, il lavoro cambia. Ma con l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa, a cambiare non sono solo le mansioni: a essere sotto pressione è la stessa idea di ingresso nel mondo del lavoro. Il livello entry-level, da sempre rampa di lancio per i giovani laureati, oggi vacilla. Dati, analisi e testimonianze mostrano una trasformazione asimmetrica che penalizza i neofiti ma può premiare chi ha già esperienza. Cosa sta succedendo davvero?
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Il dato che preoccupa: meno spazio per giovani e neolaureati al lavoro
Secondo l’analisi condotta da SignalFire su oltre 600 milioni di profili professionali, le assunzioni di neolaureati nel tech sono crollate del 50% rispetto ai livelli pre-pandemia. Nel confronto tra il 2023 e il 2024, il trend continua a peggiorare: le Big Tech hanno ridotto del 25% l’ingresso di neolaureati, mentre le startup segnano un calo dell’11%. I ruoli più penalizzati sono quelli tradizionalmente considerati la porta d’accesso al settore: sviluppo software, legal e financial analysis, vendite, marketing e ruoli di supporto.
I ricercatori credono che la responsabilità sia proprio dell’AI.
Le attività più semplici e ripetitive – come cercare dati, compilare report, installare software, fare debugging, scrivere codice standard o costruire slide – sono oggi automatizzabili attraverso strumenti di AI generativa, togliendo terreno ai compiti d’ingresso.
Anche i dati della Federal Reserve Bank di New York confermano l’inversione di tendenza: dal 2022 il tasso di disoccupazione dei neolaureati è aumentato del 30%, contro un +18% della popolazione generale.
In parallelo, emerge anche una percezione negativa dei giovani lavoratori: il 55% dei datori di lavoro ritiene che la Gen Z abbia difficoltà a lavorare in team, il 37% dei manager preferirebbe affidarsi a strumenti di intelligenza artificiale piuttosto che assumere un giovane inesperto.
Persino i laureati in informatica di alto profilo faticano a entrare nelle grandi aziende, la percentuale di neolaureati che trovano impiego presso i colossi del tech – Alphabet, Amazon, Apple, Meta, Microsoft, Nvidia e Tesla – si è più che dimezzata dal 2022. Questa tendenza, aggravata dalla crescente capacità dell’AI di eseguire attività a basso valore aggiunto, minaccia di “rompere il primo gradino della scala professionale”, come ha scritto Aneesh Raman di LinkedIn, richiamando il parallelo con il declino della manifattura negli anni Ottanta.
Oxford: allarme per giovani
Altri dati confermano la tesi. Negli ultimi mesi, la disoccupazione tra i neolaureati ha raggiunto un livello insolitamente alto, pari al 5,8%, e la Federal Reserve Bank di New York ha recentemente avvertito che la situazione occupazionale di questi lavoratori è “notevolmente peggiorata”. Oxford Economics, una società di ricerca che studia i mercati del lavoro, ha rilevato che la disoccupazione tra i neolaureati è fortemente concentrata in settori tecnici come la finanza e l’informatica, dove l’intelligenza artificiale ha registrato progressi più rapidi.
“Ci sono segnali che indicano che i posti di lavoro entry-level stanno venendo sostituiti dall’intelligenza artificiale a un ritmo più elevato”, ha scritto la società in un recente rapporto.
AI e lavoro: il paradosso dell’esperienza
Nel nuovo scenario modellato dall’intelligenza artificiale, le aziende sembrano sempre meno disposte a scommettere su potenziale e apprendistato, sempre più inclini a premiare chi ha già dimostrato risultati. Questo cambiamento sta provocando una frattura nella logica tradizionale di ingresso nel mondo del lavoroi Molti ruoli junior vengono pubblicati formalmente come tali, ma in realtà vengono assegnati a profili senior o mid-career, capaci di portare valore immediato e di ridurre i tempi e i costi dell’onboarding.
Le grandi aziende tecnologiche, in particolare, hanno aumentato del 27% le assunzioni di professionisti con 2-5 anni di esperienza, mentre le startup hanno registrato un incremento del 14% nella stessa fascia. La competizione per i pochi ruoli davvero entry-level si è fatta feroce, proprio mentre le attività una volta formative e ripetitive, come la scrittura di codice base, l’analisi preliminare dei dati finanziari, la predisposizione di materiali per le diligence, vengono progressivamente affidate all’AI, che le svolge con crescente efficienza.
Il risultato è una sorta di cortocircuito, i neolaureati non trovano impieghi perché privi di esperienza, ma non possono maturare esperienza perché non trovano impieghi. È il “paradosso dell’esperienza”, acuito dalle capacità crescenti dell’AI e dall’assenza, in molte aziende, di un reale investimento nella formazione on the job. A peggiorare il quadro contribuiscono anche le dinamiche economiche post-pandemiche, la fine dell’epoca del capitale a basso costo e la pressione verso modelli organizzativi più snelli. In questo contesto, la figura del giovane da formare diventa un lusso che molti non sono disposti a concedersi.
Ma l’AI ancora non è pronta: dubbi sull’effetto sostituzione
Al tempo stesso, la corsa all’automazione ha già mostrato i suoi limiti e ci sono dubbi sulla ricaduta occupazionale. Emblematico è il caso di Klarna, la fintech svedese che aveva sostituito 700 operatori del servizio clienti con un assistente virtuale. Dopo alcuni mesi, però, la qualità percepita del servizio era peggiorata, specie nei casi più complessi. Il CEO Sebastian Siemiatkowski ha ammesso pubblicamente che la scelta di ridurre i costi ha compromesso l’esperienza del cliente. Klarna ha dovuto reintegrare personale umano, dimostrando che la relazione resta un asset strategico.
- Un’indagine condotta da IBM ha evidenziato che tre progetti su quattro legati all’intelligenza artificiale non riescono a offrire il ritorno sull’investimento promesso.
- Uno studio del National Bureau of Economic Research, focalizzato sui lavoratori impiegati nei settori più esposti all’AI, ha riscontrato che l’introduzione della tecnologia ha avuto un impatto trascurabile sia sui salari che sulle ore lavorate.
- Secondo S&P Global, fornitore di dati e analisi, la quota di aziende che stanno abbandonando la maggior parte dei progetti pilota di intelligenza artificiale generativa è aumentata fino al 42%, rispetto al 17% registrato l’anno precedente.
- Secondo le stime di McKinsey, l’intelligenza artificiale generativa potrebbe contribuire a una crescita della produttività del lavoro compresa tra lo 0,1% e lo 0,6% annuo entro il 2040, in base al grado di adozione e alla riorganizzazione delle attività lavorative.
Non tutti i numeri dicono “crisi”
A dispetto della narrazione catastrofista secondo cui l’intelligenza artificiale starebbe distruggendo i posti di lavoro, i dati macroeconomici raccontano una storia diversa. Negli Stati Uniti, il tasso di disoccupazione si attesta su livelli storicamente bassi (4,2%), mentre nei paesi OCSE l’occupazione ha raggiunto un livello record. Non solo: nel 2024, il white-collar work, ovvero il lavoro impiegatizio e amministrativo, ha mostrato una leggera crescita, secondo un calcolo dell’Economist. Questo suggerisce che, almeno per ora, molte aziende stiano implementando tecnologie AI non per sostituire ma per potenziare la produttività dei dipendenti esistenti. È possibile che l’adozione dell’AI non sia ancora abbastanza estesa da generare effetti su scala oppure che venga usata in modo complementare anziché sostitutivo.
Il punto, però, è che il cambiamento non è uniforme, se i lavori entry-level mostrano segni di erosione, i professionisti con due-cinque anni di esperienza risultano sempre più richiesti, con un +27% di assunzioni nelle Big Tech e +14% nelle startup. Le attività basilari, una volta affidate ai neolaureati, vengono oggi automatizzate, ma la domanda di competenze avanzate e trasversali continua a crescere. In questo senso, più che un crollo dell’occupazione, si tratta di una riconfigurazione profonda dei ruoli e delle traiettorie di carriera. La polarizzazione tra chi è facilmente sostituibile e chi invece possiede skill difficilmente replicabili da un algoritmo è destinata ad accentuarsi. Non è un destino ineluttabile, ma una traiettoria che può essere orientata con le giuste strategie, sia da parte delle istituzioni formative sia da parte delle imprese.
Nuovi lavori, nuove geografie nell’era AI
L’impatto dell’intelligenza artificiale sul mercato del lavoro non si limita alla sostituzione o riduzione dei ruoli esistenti ma sta anche generando nuove figure professionali e riconfigurando la geografia del talento. Tra i ruoli emergenti si fanno strada posizioni come AI governance lead, specialisti in etica e privacy dell’AI, agentic AI engineers e prompt designer.
Si tratta di professioni che richiedono una combinazione di competenze tecniche, capacità relazionali e consapevolezza delle implicazioni regolatorie e sociali delle nuove tecnologie. Questa trasformazione si riflette anche nella distribuzione geografica del lavoro tech. Mentre San Francisco, New York e Seattle continuano a concentrare oltre il 65% degli ingegneri AI, città come Miami e San Diego stanno vivendo una crescita rapida grazie alla combinazione di lifestyle attrattivo, costi contenuti e presenza di investimenti significativi. Miami ha visto un aumento del 12% nei ruoli legati all’AI, mentre San Diego ha attratto 5,7 miliardi di dollari di venture capital nel 2024, diventando un hub emergente nonostante la perdita di forza lavoro nelle startup locali. Al contrario, centri come Austin e Houston stanno perdendo slancio: le startup VC-backed hanno registrato un calo del 6% e del 10,9% rispettivamente. In parallelo, cambia anche il modello organizzativo: molte aziende stanno passando da logiche full remote a formule ibride più flessibili, favorendo l’assunzione in presenza o in prossimità dei grandi hub. La nuova normalità si basa sulla “prossimità strategica”, più che sulla presenza quotidiana, con un’attenzione crescente all’equilibrio tra efficienza e qualità della vita
Il caso Anthropic, chi trattiene il talento, vince
Nel pieno della guerra globale per il talento in ambito AI, il laboratorio statunitense Anthropic si distingue per una capacità di fidelizzazione fuori dal comune. Secondo i dati SignalFire, l’80% dei suoi dipendenti assunti da almeno due anni è ancora in azienda, contro il 67% di OpenAI. Questo dato, che misura la retention interna, è ancor più significativo se si considera il contesto altamente competitivo in cui si muovono i principali player dell’intelligenza artificiale. Anthropic è riuscita a strappare talenti a OpenAI e DeepMind con un rapporto di 8:1 e 11:1 rispettivamente, segnalando non solo un efficace processo di recruiting ma anche una capacità di attrazione e trattenimento del talento basata su fattori distintivi.
A fare la differenza, secondo il report, non sono solo le condizioni economiche, ma soprattutto la cultura organizzativa: flessibilità, senso di impatto concreto, focus sull’etica e sulla sicurezza dell’AI, e un ambiente che consente ai ricercatori di lavorare in autonomia. In un mercato in cui le skill sono scarse e la domanda altissima, la capacità di costruire un contesto in cui le persone decidono di restare è un vantaggio competitivo cruciale. La fedeltà dei talenti, infatti, non è più solo una questione HR ma diventa un elemento strategico nella corsa all’innovazione. In un mondo dove la conoscenza accumulata e il capitale umano qualificato fanno la differenza nella velocità di sviluppo e rilascio dei modelli, chi trattiene il talento può vincere anche senza assumere più di tutti.
AI e lavoro: prospettive e raccomandazioni
Nel contesto attuale, la prospettiva è tutt’altro che univoca: se da un lato le evidenze mostrano una compressione dell’offerta di lavoro per i profili entry-level, dall’altro emerge una crescente domanda di professionalità esperte e in grado di adattarsi rapidamente alle nuove tecnologie. Secondo SignalFire, le Big Tech hanno aumentato del 27% le assunzioni di professionisti con 2-5 anni di esperienza, mentre le startup hanno fatto segnare un +14% nella stessa fascia.
È un segnale chiaro, le aziende premiano chi sa già usare l’AI o è in grado di accelerarne l’adozione. Ma il rischio sistemico non è solo generazionale. Come avverte Aneesh Raman, Chief Economic Opportunity Officer di LinkedIn, ciò che si sta rompendo è il primo gradino della scala professionale. Senza entry-level adeguati e sostenuti, anche le aziende rischiano di trovarsi presto prive di una pipeline di talenti capaci di evolvere in ruoli critici. La sfida allora è duplice, per i giovani, occorre un investimento deciso nello sviluppo di competenze AI avanzate, nel lavoro progettuale e nella costruzione di un profilo ibrido, in grado di combinare capacità tecniche e trasversali; per le imprese, è fondamentale ripensare la formazione on the job, creare percorsi progressivi di inserimento e costruire una cultura aziendale che valorizzi il potenziale anche prima dei risultati.
Oltre le raccomandazioni, si delineano almeno tre scenari possibili. Nel primo, le aziende puntano solo sull’efficienza e riducono progressivamente la base occupazionale, creando una polarizzazione estrema tra pochi super-esperti e una massa esclusa. Nel secondo, si investe in formazione e in modelli collaborativi uomo-macchina, ridisegnando i ruoli e favorendo un’occupazione più qualificata e sostenibile. Il terzo – meno probabile ma non impossibile – è uno stallo in cui l’adozione dell’AI procede a velocità troppo diverse tra settori e territori, aggravando le disuguaglianze e indebolendo la coesione sociale. In ogni caso, come ha affermato Heather Doshay di SignalFire: “L’AI non ti ruba il lavoro, se sei tu il migliore a usarla.”
La sfida per la Gen Z
L’AI non ha ancora cancellato milioni di posti di lavoro, ma sta ristrutturando in modo profondo e silenzioso le dinamiche dell’inserimento lavorativo, creando fratture nei modelli tradizionali di crescita professionale. Mentre i ruoli entry-level si assottigliano, emerge una selezione più netta tra chi è già esperto e può valorizzare le tecnologie emergenti, e chi invece fatica a trovare un punto di accesso. Ma questo divario non è solo una conseguenza tecnologica: si intreccia con un cambiamento generazionale più ampio, che riguarda la visione stessa del lavoro.
La Gen Z porta con sé valori, aspettative e modalità comunicative diverse da quelle delle generazioni precedenti, spesso percepite come distanti o difficili da integrare nei contesti aziendali tradizionali. Questa frizione culturale si somma alla trasformazione digitale, rendendo ancora più complessa la costruzione di percorsi di inserimento efficaci. Il rischio è che una parte significativa della nuova generazione venga esclusa non per mancanza di potenziale, ma per l’incapacità dei sistemi formativi, aziendali e sociali di offrire una reale transizione verso un nuovo paradigma lavorativo.
Ai giovani molti esperti consigliano ancora una carriera Stem (soprattutto in Italia) ma anche coltivare competenze trasversali, tipicamente umani, creatività, adattabilità, spirito critico. Ma non basta.
Il tema non è solo tecnologico né individuale. Ma è anche politico, culturale e strategico: servono politiche attive, investimenti nella formazione continua, nuovi modelli organizzativi da parte delle aziende per valorizzare l’uso dell’AI in chiave di supporto ai lavoratori invece che per la sostituzione.
Soprattutto, serve un progetto condiviso che ridefinisca i percorsi di crescita nel lavoro del futuro. L’alternativa è accettare una società frammentata, dove il talento rischia di restare bloccato alla porta del futuro, mentre l’intelligenza artificiale detta le nuove regole del gioco.