Nel lento ma inesorabile processo di erosione della riservatezza digitale, Meta Platforms, la società madre di WhatsApp, ha recentemente annunciato l’intenzione di introdurre, anche in Europa, forme di pubblicità personalizzata all’interno dell’applicazione, finora considerata – almeno nella percezione collettiva – come uno spazio neutro, dedicato esclusivamente alla messaggistica privata.
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Anche Whatsapp diventa luogo di sorveglianza commerciale: i problemi
Questo passaggio sembra rappresentare un paradosso dei nostri tempi: quanto più una tecnologia si presenta come “neutra” e “invisibile”, tanto più penetra nei gangli profondi della vita quotidiana: WhatsApp, figlio di un’epoca che ha fatto della comunicazione istantanea la cifra del legame umano, si è da sempre proposto come strumento di servizio, niente pubblicità, niente filtri, solo messaggi. Insomma, un’estensione naturale del linguaggio. Oggi, però, sembra nascere una transizione che non è soltanto commerciale, ma giuridica, sociale, antropologica.
Il principio su cui si fonda l’ecosistema digitale contemporaneo è chiaramente quello dell’economia dell’attenzione, le piattaforme non vendono servizi, ma vendono tempo, tracciamenti, profili comportamentali e in questo senso, la monetizzazione di WhatsApp attraverso l’inserimento di messaggi pubblicitari – seppur limitati inizialmente alla sezione “Stato” – rappresenta l’ennesima trasfigurazione di un ambiente nato come spazio personale in luogo di sorveglianza commerciale e in cui la domanda fondamentale diventa: può un ambiente destinato a ospitare comunicazioni private, intime, persino familiari, essere colonizzato da logiche di profilazione pubblicitaria senza violare princìpi giuridici ed etici?
La risposta, come spesso accade nel diritto europeo, si colloca nel territorio dell’equilibrio tra innovazione e tutela.
Quale equilibrio tra innovazione e tutela: i paletti delle regole UE
Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) pone dei paletti chiari: il trattamento dei dati personali deve avvenire nel rispetto di principi di trasparenza, minimizzazione, limitazione delle finalità, ma la vera questione non (solo) è la liceità del trattamento, bensì la sua legittimità culturale e democratica. Possiamo davvero considerare “libero e informato” il consenso che gli utenti forniscono in un contesto di monopolio de facto? Possiamo considerare legittima una pratica commerciale che si alimenta dell’ambiguità semantica tra “servizio” e “sorveglianza”?
Qui entra poi in gioco la riflessione offerta dal Digital Markets Act (DMA) e dal Digital Services Act (DSA) che tracciano una linea di demarcazione tra piattaforme “gatekeeper” e diritti fondamentali degli utenti.
È bene innanzitutto specificare che Meta ha dichiarato che gli annunci pubblicitari su WhatsApp verranno mostrati esclusivamente nella sezione “Aggiornamenti” e che non verranno in alcun modo analizzate né utilizzate le conversazioni private, le chiamate, né i numeri di telefono degli utenti per fini di profilazione.
Gli unici dati impiegati saranno la lingua del dispositivo, l’area geografica approssimativa, i canali seguiti e le interazioni nella sezione stessa, si tratta, dunque, di una forma di pubblicità circoscritta e apparentemente rispettosa della privacy, almeno nella struttura formale.
Tuttavia, l’utilizzo combinato di dati provenienti da diverse fonti interne alla piattaforma – come ad esempio la posizione approssimativa o l’adesione a canali – solleva interrogativi sotto il profilo dell’art. 5 del DMA, che impone al gatekeeper l’obbligo di ottenere un consenso libero, esplicito e informato per la combinazione di dati raccolti tramite servizi distinti, pertanto, anche se non si tratta, formalmente, di una profilazione avanzata cross-service (come tra Facebook, Instagram e WhatsApp), è evidente come il confine tra “contesto della piattaforma” e “ecosistema Meta” resti fluido e suscettibile di amplificazione nel tempo.
La lenta erosione della distinzione tra dati “sensibili” e dati “innocui”
La questione, più che giuridica in senso stretto, diventa quindi sistemica e culturale: il diritto è chiamato a misurarsi non soltanto con ciò che è, ma con ciò che potenzialmente può essere. La strategia di Meta può essere letta come una progressiva normalizzazione della monetizzazione anche degli spazi comunicativi tradizionalmente ritenuti privati e in questo contesto, il rischio non è (ancora) la violazione puntuale del GDPR o del DMA, ma la lenta erosione della distinzione tra dati “sensibili” e dati “innocui”, tra ambiente “sociale” e ambiente “intimo”.
Infatti, se il diritto si limita a rincorrere le strategie dei giganti tecnologici con regolamenti ex post, il pericolo è che potrebbe diventare uno strumento di mitigazione, non di trasformazione.
I danni di un capitalismo basato sull’estrazione algoritmica del sé.
Occorre allora una riflessione più radicale: il vero problema non è solo nella pubblicità, ma nella forma di capitalismo che la rende possibile, un capitalismo basato sull’estrazione algoritmica del sé.
Ogni like, ogni messaggio, ogni visualizzazione diventa dato e ogni dato diventa merce.
L’utopia originaria del web – accesso libero, comunicazione autentica, disintermediazione – è stata sostituita da una struttura piramidale, in cui pochi attori regolano lo spazio digitale globale, determinando i limiti del consentito, del visibile, del possibile. Quindi non basta più proteggere i dati: occorre proteggere le condizioni stesse della soggettività digitale. Un nuovo costituzionalismo delle piattaforme deve nascere, in grado di affermare diritti non solo alla privacy, ma alla non-profilazione, alla disconnessione, all’opacità.
Diritto a non essere ridotti a pattern, a cluster, a predizione. Diritto a rimanere umani in un mondo che vuole quantificare tutto.
L’allarme: ogni interstizio della nostra vita online è potenzialmente monetizzabile
La pubblicità su WhatsApp non sarà la fine del mondo, né forse cambierà drasticamente le abitudini degli utenti, ma rappresenta indubbiamente un segnale inequivocabile: ogni interstizio della vita online è potenzialmente monetizzabile.
La soglia tra pubblico e privato, tra informazione e manipolazione, si fa sempre più sottile e in questo scenario, il diritto non può accontentarsi di fare da notaio: deve tornare a essere architettura, progetto, resistenza. Chi controlla la comunicazione, controlla il potere e chi controlla i dati della comunicazione, oggi, ha nelle mani le chiavi non solo del mercato, ma della libertà.
Tocca a noi decidere se accettare tutto questo come un destino o interrogarlo come una scelta.