L’Europa è chiamata a un passaggio decisivo: il Digital Network Act. La nuova cornice normativa punta a superare frammentazione, ritardi e squilibri competitivi nelle telecomunicazioni, per rilanciare investimenti e garantire sovranità digitale nel confronto con USA e Cina.
Indice degli argomenti
I nodi ciritici delle tlc europee
I nodi critici sono stati messi in evidenza più volte e stanno ormai conducendo a un irreversibile indebolimento del settore dovuto:
- alla concorrenza asimmetrica delle Big Tech sui servizi digitali,
- alla eccessiva frammentazione del mercato degli Operatori di Telecomunicazioni e dunque di concorrenza tra soggetti struttura e dimensione estremamente variegata,
- alla politica regolatoria che ha costantemente, negli ultimi 25 anni, orientato la propria azione alla polverizzazione delle barriere concorrenziali, una volta a favore degli incumbent, per far nascere e fiorire una comunità molto numerosa di operatori alternativi, a esclusivo beneficio dei consumatori, con poca lungimiranza sugli impatti industriali.
Noi ci presentiamo nel mondo, quindi, con un’industria delle reti digitali, nella ricerca e sviluppo, nell’implementazione, nell’adozione dei servizi innovativi e nelle operations, in crisi.
Ciò avviene proprio in un momento di grande trasformazione basato su 5 elementi chiave:
1) la convergenza tra reti e computing,
2) il completamento della trasformazione tecnologica della connettività verso le Very High Capacity Networks (VHCN) sostanzialmente basate su FTTH e 5G,
3) la trasformazione delle reti di telecomunicazioni in Computer Networks con una nuova generazione di POP basati sulle tecnologie Edge e Central Cloud,
4) il notevole salto di qualità che devono fare i Backbone terrestri e sottomarini (e satellitari) in termini di capacità e, soprattutto, di resilienza e infine
5) il cambio di paradigma necessario per la sicurezza delle grandi reti ove l’uso delle tecnologie quantistiche diventa mandatorio.
Da tutto ciò segue che dobbiamo prendere urgenti provvedimenti, sviluppare azioni di sviluppo delle infrastrutture e altrettante azioni di correzione di rotta nelle normative vigenti.
Il contesto e gli obiettivi del Digital Network Act
In questa direzione deve essere inquadrato il Digital Network Act (nel seguito anche DNA) con la consultazione pubblica lanciata dalla Commissione Europea basata principalmente su due documenti chiave. Il primo è il White Paper intitolato “How to master Europe’s digital infrastructure needs?”, pubblicato il 21 febbraio 2024, documento che propone la base teorica e strategica della consultazione, delineando le criticità del quadro regolatorio attuale e proponendo un’architettura di policy centrata sui tre pilastri — investimenti, mercato unico e resilienza delle infrastrutture digitali — da cui dovrà scaturire il DNA. Molti soggetti del settore hanno commentato il White Paper anche con alcuni contributi di grande rilievo.
Il secondo documento è il questionario ufficiale della consultazione — definito come “call for evidence” o “public consultation” — che, aperta dal 6 giugno all’11 luglio 2025, ha invitato stakeholder di vario tipo (aziende, autorità, associazioni, ONG, cittadini) a fornire opinioni e dati sui temi specifici sulla base dei seguenti quesiti:
- la semplificazione del quadro normativo delle Telecomunicazioni Europee, con l’obiettivo di ridurre gli obblighi di rendicontazione e potenzialmente accorpare strumenti come il Codice delle comunicazioni elettroniche, il regolamento BEREC, la normativa Open Internet e il Programma per le politiche sulle radiofrequenze;
- la riforma della gestione dello spettro radio, includendo in modo uniforme procedure di assegnazione, durata delle licenze, meccanismi di condivisione e condizioni per la futura allocazione 6G, senza dimenticare il ruolo dei servizi satellitari;
- la ridefinizione del rapporto regolativo tra provider di rete e altri attori, come le piattaforme cloud o i fornitori di contenuti, con possibili strumenti di risoluzione delle controversie e chiarimenti sulle regole Open Internet (net neutrality);
- l’evoluzione delle regole di accesso (access regulation), con riflessione sull’opportunità di un regime basato solo su interventi ex post o su metriche di mercato, l’introduzione di access remedies armonizzati a livello UE, e misure per accelerare lo switch-off del rame;
- il rafforzamento della governance europea, chiedendo feedback sull’opportunità di attribuire a BEREC, RSPG o ad altri organi un ruolo più decisionale e non solo consultivo;
- il dibattuto “fair share”: se e come i grandi contenuti e piattaforme debbano contribuire ai costi delle reti; questo tema è stato affrontato con domande sul “network fees” e sulle possibili modifiche all’articolo 26 del Codice, ove c’è, da tempo, un rilevante elemento di politica industriale: gli operatori di telecomunicazioni chiedono contributi da parte di Big Tech – come Google, Meta, Netflix – perché generano la maggior parte del traffico in rete ma non contribuiscono alla copertura dei costi infrastrutturali[1].
Il piano di lavoro prevede la pubblicazione di un “pacchetto digitale” entro dicembre 2025, composto da un disegno di legge sul DNA e da una revisione del Recommendation sui mercati rilevanti.
Il DNA mira a sostituire l’EECC e a creare un quadro più semplice e moderno: riduzione degli oneri normativi, armonizzazione delle regole sull’autorizzazione (comuni in tutta l’Unione e semplificate), protezione rafforzata degli utenti, una maggiore libertà operativa transfrontaliera per gli operatori, e spazio a convergenze tra soggetti del settore. Non mancano ambiti innovativi come l’armonizzazione dell’uso delle frequenze: doppia peer‑review tra Stati, licenze nazionali più lunghe e flessibili, predisposizione allo 6G, e apertura a modelli condivisi come lo spectrum sharing; si considerano anche condizioni eque per l’accesso dei satelliti ai mercati europei.
Emerge, lo ripetiamo ancora una volta, uno scenario che richiede urgenza e determinazione per consentire al nostro continente di continuare a competere nel digitale, a beneficio dell’economia e della società.
L’importanza di reti sicure e sostenibili per l’economia e la società
Le reti sicure e sostenibili sono uno dei pilastri del programma “Digital Decade 2030” dell’Unione Europea e rispondono a un forte interesse dei cittadini, che ne hanno sottolineato l’importanza anche nella Conferenza sul Futuro dell’Europa. Senza infrastrutture avanzate, le applicazioni digitali non riuscirebbero a migliorare la vita delle persone, né a offrire i benefici promessi da tecnologie come la telemedicina, i droni per l’agricoltura di precisione, le infrastrutture smart per la mobilità e l’energia, i sensori per il monitoraggio in tempo reale della catena alimentare e molto altro ancora.
Le imprese di tutti i settori necessitano di connettività e capacità di calcolo avanzate, vicine ai loro processi e ai clienti, per poter utilizzare o offrire servizi innovativi. Questo è particolarmente cruciale per applicazioni che richiedono elaborazione in tempo reale, come l’Internet delle Cose, i veicoli autonomi, le reti elettriche intelligenti e le soluzioni di manutenzione predittiva o automazione. Infrastrutture di rete e servizi evoluti sono abilitatori chiave per tecnologie trasformative come l’Intelligenza Artificiale, i mondi virtuali e il Web 4.0, ma anche per affrontare sfide sociali nei settori dell’energia, dei trasporti e della sanità, oltre a sostenere la creatività e l’industria culturale.
La competitività futura dell’economia europea dipende in larga parte da queste infrastrutture, che costituiscono la base per una crescita del PIL globale stimata tra 1 e 2 trilioni di euro, favorendo al contempo la transizione digitale e verde. Numerosi studi dimostrano il legame diretto tra la diffusione di banda ultra larga fissa e mobile e lo sviluppo economico, così come tra velocità di connessione ed elaborativa e aumento del PIL. Anche infrastrutture di dorsale (i backbone) resilienti, come i cavi sottomarini sicuri, contribuiscono a far crescere l’economia. In un contesto demografico sfidante, le tecnologie che aumentano la produttività diventano ancora più strategiche.
Il settore delle reti digitali sta vivendo una convergenza tra infrastrutture di connettività e di computing (cloud ed edge computing). Questa trasformazione richiede che le telecomunicazioni si espandano oltre il mercato consumer tradizionale, entrando più profondamente in ambiti business e industriali con paradigmi di cloud computing sempre più distribuito, in logica Edge, e l’Industrial Internet Of Things. Parallelamente, l’industria delle apparecchiature affronta un passaggio verso reti basate su software e architetture aperte. Questa convergenza può ridurre i costi e stimolare l’innovazione, ma comporta anche rischi di nuove dipendenze in settori strategici come il cloud e i semiconduttori. In questo scenario geopolitico, l’Europa deve valorizzare la propria forza nel mercato mondiale delle apparecchiature di rete, dove due dei tre fornitori globali sono europei.
Dal punto di vista sociale, la disponibilità di connettività di alta qualità, affidabile e sicura per tutti, anche nelle aree rurali e remote, è irrinunciabile. Gli investimenti necessari sono ancora ingenti, nonostante moltissimo sia stato fatto, e occorre un quadro normativo moderno che incentivi il passaggio dalle reti in rame alla fibra, lo sviluppo del 5G stand alone e delle infrastrutture cloud, la crescita degli operatori nel mercato unico e l’integrazione di tecnologie emergenti come le comunicazioni quantistiche. Senza questo, l’UE rischia di non raggiungere gli obiettivi digitali del 2030 e di perdere terreno rispetto ad altre regioni leader.

Figura 1: I report di Draghi e Letta precursori del DNA
Infine, le recenti tensioni geopolitiche hanno messo in luce la necessità di infrastrutture sicure e resilienti, capaci di resistere a minacce sia umane che naturali. È fondamentale una strategia europea coordinata che garantisca continuità di servizio in ogni circostanza, sfruttando in modo complementare soluzioni terrestri, satellitari e sottomarine.
Lo stato delle reti nell’Ue
Le infrastrutture di connettività dell’Unione Europea non sono ancora pronte a soddisfare le esigenze attuali e future di una società ed economia basate sui dati. Sul fronte dell’offerta, la copertura in fibra raggiunge il 63% delle abitazioni, come indicato nella figura 2 (41% nelle aree rurali) e il dispiegamento delle reti 5G stand-alone è in forte ritardo. Le proiezioni indicano che sarà difficile superare l’80% di copertura in fibra entro il 2028, mettendo a rischio l’obiettivo del 100% fissato per il 2030. In confronto, Giappone e Corea del Sud hanno già raggiunto il 99,7% di copertura grazie a strategie chiare e mirate.
Per quanto riguarda il 5G, la copertura di base della popolazione nell’UE è all’81% come indicato nella figura 3 (51% nelle aree rurali), ma quella che garantisce prestazioni avanzate tramite reti stand-alone riguarda meno del 20% delle aree popolate. Questa tecnologia è ancora limitata a poche aree urbane e a un numero ristretto di Stati membri, con una copertura nella banda intermedia di 3,6 GHz – necessaria per velocità e capacità elevate – ferma al 41% della popolazione. Paesi come Corea del Sud e Cina sono molto più avanti nella densità delle stazioni base 5G rispetto all’UE.

Figura 2: Confronto internazionale tra le coperture di rete gigabit capable (VHCN)
Il satellite può contribuire a portare la banda larga in aree rurali e remote, con velocità fino a 100 Mbps e un ruolo importante nelle comunicazioni di emergenza, ma non può ancora sostituire le prestazioni delle reti terrestri. Globalmente, l’UE ha una copertura fissa e mobile simile a quella degli Stati Uniti, ma resta indietro su fibra e 5G stand-alone, soprattutto se si considera ciò che resta da coprire per raggiungere gli obiettivi del 2030.
Sul fronte della domanda, l’adozione di servizi a 1 Gbps è molto bassa (14% a livello UE nel 2022) e solo il 55% delle famiglie utilizza connessioni di almeno 100 Mbps, valori inferiori rispetto a Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone. Sebbene la penetrazione della banda larga mobile standard sia alta (87%), la diffusione di servizi fissi ad alta velocità resta insufficiente, limitando la capacità del settore di investire.
Questi ritardi creano una vulnerabilità critica per l’economia europea, poiché lo sviluppo di servizi avanzati basati sui dati e di applicazioni di intelligenza artificiale dipende direttamente da reti performanti. Lo stesso vale per le infrastrutture di edge computing, fondamentali per applicazioni a bassa latenza e ad alta intensità di dati, che in Europa sono ancora agli inizi. L’UE si è posta l’obiettivo di realizzare entro il 2030 diecimila nodi edge climaticamente neutri e altamente sicuri, ma le tendenze attuali indicano che senza nuovi investimenti e incentivi difficilmente il traguardo sarà raggiunto.
Il mancato conseguimento degli obiettivi della Digital Decade avrebbe conseguenze ben oltre il settore delle telecomunicazioni, con ricadute negative su innovazioni strategiche come la guida autonoma, la manifattura intelligente e la sanità personalizzata, riducendo le opportunità di trasformazione digitale per l’intero continente.

Figura 3: Confronto internazionale tra le coperture di rete 5G stand alone e non stand alone
Le sfide tecnologiche
Lo scenario tecnologico delle reti digitali europee, in realtà in tutto il mondo, è caratterizzato da una profonda trasformazione dovuta all’esplosione dell’economia delle piattaforme e app, alla crescita di uso e di varietà dei dati dell’Internet of Things, dell’analisi avanzata dei dati, dell’intelligenza artificiale e della distribuzione di contenuti streaming video con qualità sempre più alta, ormai alle soglie dell’8K.
Queste tendenze impongono una crescita esponenziale e continua della capacità di elaborazione, archiviazione e trasmissione delle informazioni e richiedono l’evoluzione delle reti di telecomunicazioni dalla connettività pura alla elaborazione distribuita ad alte prestazioni. Le centrali diventano POP con elaborazione distribuita ad alte prestazioni in grado di supportare applicazioni e servizi per i clienti e la virtualizzazione, ossia softwarizzazione, di tutte le funzioni di rete.
Il nuovo paradigma di erogazione dei servizi coinvolge un ecosistema complesso, che unisce fornitori di reti e apparecchiature tradizionali a operatori cloud, edge, di contenuti, software e componentistica. I confini tra questi attori si stanno dissolvendo, creando un continuum di calcolo che parte dai chip ad alte prestazioni nei dispositivi, passa per l’edge computing e si integra con i servizi cloud centralizzati, coordinato da applicazioni di intelligenza artificiale. L’orchestrazione di tutte queste risorse diventa cruciale per garantire agli utenti un’esperienza senza interruzioni, ovunque si trovino e qualunque dispositivo utilizzino.
La complessità crescente delle reti, ora sommariamente descritta e sulla quale si tornerà più avanti, spinge verso nuovi modelli di business, basati su:
- sulla integrazione tra tecnologie di connettività e di computing,
- sulla separazione tra infrastruttura e servizi, tra i control plane e gli user plane,
- sulla trasformazione di tutte le funzioni di rete in moduli software abilitando un elevatissimo grado di automazione,
- sulla condivisione delle reti, soprattutto nelle aree rurali,
- sull’interconnessione delle reti terrestri e satellitari
- sulla creazione di piattaforme innovative come il Network as a Service (NAAS).
Questo approccio richiede una forte collaborazione tra operatori, sviluppatori, grandi fornitori cloud e applicazioni di contenuti, e apre il mercato anche a soggetti non tradizionali, come gli hyperscaler, che possono proporre servizi di livello enterprise.
L’Europa ha un ruolo di rilievo nello sviluppo delle applicazioni industriali del 5G, con progetti in settori verticali come manifattura, logistica e trasporti, e con iniziative di reti private in stabilimenti, porti e miniere, nonché corridoi 5G lungo le principali infrastrutture di trasporto. Questi sviluppi sono la base per l’evoluzione verso il 6G e per un futuro “Telco Edge Cloud” europeo, capace di ospitare funzioni di rete virtualizzate e di supportare servizi critici in settori come la mobilità intelligente, la robotica industriale e l’assistenza sanitaria remota.
La concentrazione di dati e servizi in ambienti urbani connessi permetterebbe di elaborare le informazioni localmente, ottimizzando risorse di rete e servizi in tempo reale, e di gestire applicazioni di intelligenza artificiale complesse. Tuttavia, l’apertura delle reti a terze parti comporta rischi di dipendenza da fornitori non europei, con possibili conseguenze sulla sicurezza economica dell’UE. È quindi essenziale che l’industria europea sviluppi capacità e scala sufficienti per competere come fornitore di piattaforme di servizi.
Sul fronte della sicurezza, la crescente potenza di calcolo e l’avvento del quantum computing minacciano i sistemi di crittografia esistenti, rendendo vulnerabili le comunicazioni e i dati sensibili. L’UE sta quindi investendo in tecnologie di distribuzione quantistica delle chiavi e in un’infrastruttura di comunicazione quantistica sicura (EuroQCI), che sarà integrata con il sistema satellitare IRIS2 e con altre tecnologie non terrestri.
Il settore europeo delle reti e dei servizi di comunicazione si trova di fronte a un bivio: cogliere l’opportunità della trasformazione tecnologica per consolidare la leadership o lasciare spazio a nuovi attori globali, con il rischio di compromettere la propria sicurezza economica e tecnologica.
Gli investimenti e la capacità finanziaria del settore
Il raggiungimento degli obiettivi europei per la connettività gigabit, per la trasformazione delle reti in logica computing e per un 5G stand alone pienamente operativo, richiede un volume di investimenti molto rilevante, stimato in oltre 200 miliardi di euro considerando sia le reti fisse che quelle mobili, inclusi i backbone e la creazione dei nuovi POP del Telco Cloud e inclusa la copertura completa dei corridoi di trasporto terrestri e marittimi.
La densificazione delle reti sarà un elemento chiave, soprattutto in vista dell’arrivo di tecnologie come il 6G che in aree ad alta domanda potrebbero richiedere almeno il triplo dei siti attuali. A queste esigenze si aggiunge l’integrazione di servizi satellitari avanzati, indispensabili per coprire le zone più remote o garantire continuità di servizio in situazioni di crisi, e lo sviluppo di soluzioni cloud e software per il modello Network as a Service, ambito nel quale in Europa è già stato identificato un gap di investimenti di circa 80 miliardi di euro entro il 2027.
La sfida più grave riguarda però la capacità effettiva del settore europeo delle telecomunicazioni di sostenere questi investimenti. Oggi, come più volta abbiamo messo in evidenza, i ricavi medi per utente sono inferiori rispetto a Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, con un ritorno sul capitale impiegato in netto calo. Negli ultimi dieci anni, le performance in borsa delle aziende del settore sono state deboli, e le valutazioni di mercato riflettono scarsa fiducia nella crescita sostenibile dei ricavi. Questo si traduce in un indebitamento crescente rispetto all’EBITDA e in un accesso al credito più difficile, aggravato dall’aumento dei tassi di interesse e dall’incertezza macroeconomica.
Gli investitori privati evidenziano che senza un chiaro percorso verso la redditività e margini più elevati, sarà difficile mobilitare capitali su larga scala. La domanda di servizi ad alta capacità è determinante per creare un business case convincente, ma in Europa la penetrazione delle connessioni più performanti resta bassa. Per stimolare la domanda, sono cruciali politiche che favoriscano l’adozione di tecnologie digitali nelle imprese e nelle famiglie, in particolare nelle PMI, e la creazione di ecosistemi locali connessi a filiere europee più ampie, così da incentivare applicazioni ad alto consumo di risorse come l’intelligenza artificiale generativa, l’edge computing e il supercalcolo. Inoltre, per settori innovativi o tecnologie emergenti, il capitale privato resta difficile da attrarre senza una quota di sostegno pubblico, sia tramite fondi europei sia attraverso forme di partenariato pubblico-privato che riducano il rischio percepito.
Infine, la frammentazione ormai cronica del mercato europeo rappresenta un ostacolo strutturale alla capacità di attrarre grandi investitori istituzionali, che tendono a privilegiare progetti di dimensioni tali da garantire economie di scala e migliori condizioni di finanziamento. L’integrazione dei mercati nazionali e l’aumento della scala dei progetti potrebbero migliorare il profilo di rendimento degli investimenti, aumentandone l’attrattività e favorendo condizioni economiche più favorevoli per sostenere la trasformazione del settore.
È importante rilavare che la frammentazione dei mercati Europei nasce dall’impostazione della regolamentazione continentale e di quella dei singoli Paesi che ha posto le basi alla totale assenza di prerequisiti per le licenze per l’esercizio dei servizi e infrastrutture di telecomunicazioni portando di fatto a un’eccessiva proliferazione degli stessi con una conseguenza sui prezzi al dettaglio caratterizzati da marginalità risibili.
Impostare un nuovo approccio regolamentare esclusivamente Europeo, basato sul Digital Market Europeo, e non Nazionale, è il punto di partenza:
1) il mercato è quello Europeo,
2) gli Operatori licenziati sono Pan Europei,
3) l’attribuzione delle frequenze e i relativi obblighi di copertura sono Europei (è interessante che tale principio cominci a essere applicato pe le frequenze 6G).
L’Unione non dispone oggi di un sistema integrato per le reti e i servizi di comunicazione elettronica, ma di ventisette mercati nazionali separati, ciascuno con le proprie condizioni di domanda e offerta, con architetture di rete differenti, livelli di copertura molto variabili, procedure e criteri eterogenei per l’assegnazione delle frequenze e con approcci regolatori solo parzialmente armonizzati. La frammentazione non riguarda soltanto l’offerta, ma anche il lato della domanda, perché gli utenti finali si trovano ad operare in contesti con condizioni, vincoli e regole molto diversi da Stato a Stato.
Questa situazione è stata sottolineata anche durante le consultazioni pubbliche, dove la maggioranza dei partecipanti ha richiamato la necessità di eliminare gli ostacoli più gravosi, in particolare quelli derivanti da regolazioni frammentate, per consentire la nascita di un vero Mercato Unico Digitale e incentivare la crescita di operatori transnazionali. Tra le barriere più rilevanti è emersa la gestione dello spettro radio, che oggi è una competenza condivisa tra UE e Stati membri. Le differenze tra regole e tempistiche nazionali hanno comportato autorizzazioni lente e disomogenee: la vicenda del 5G, avviata in alcuni Stati già dal 2015 ma ancora incompleta nel 2024, e quella delle bande 4G, per le quali furono necessari anni per completare le autorizzazioni, mostrano chiaramente i danni causati dalla mancata coordinazione. In molti casi le aste sono state progettate in modo da creare scarsità artificiale, innalzando i prezzi e riducendo la capacità degli operatori di investire nelle reti. Ne hanno sofferto gli utenti, che si sono trovati con servizi meno avanzati e di qualità inferiore, e l’economia europea, che ha visto rallentare la competitività.
Alla frammentazione regolatoria si sommano ulteriori vincoli nazionali che rendono complessa l’operatività transfrontaliera, come le norme su intercettazioni legali, conservazione dei dati o localizzazione dei centri di sicurezza. La mancanza di regole uniformi e di mutuo riconoscimento in questi ambiti impedisce alle aziende di sfruttare economie di scala e di adottare modelli organizzativi unificati a livello europeo. Anche la struttura del mercato riflette questa divisione: l’Unione conta una cinquantina di operatori mobili e oltre cento operatori di rete fissa, ma soltanto pochi gruppi hanno una presenza in più Paesi e, comunque, operano come soggetti separati senza una reale integrazione delle offerte e dei sistemi, proprio a causa della persistenza di quadri normativi nazionali differenti.
Il risultato è che l’Europa resta un mosaico di mercati frammentati. In media, i consumatori beneficiano di prezzi più bassi rispetto agli Stati Uniti e di una copertura in fibra superiore, ma al tempo stesso l’Unione non è riuscita a garantire la diffusione massiva di infrastrutture avanzate come il 5G stand-alone o di servizi digitali industriali basati sull’Internet delle Cose. La mancanza di un mercato unico limita la possibilità degli operatori di raggiungere la scala necessaria per affrontare gli investimenti futuri, soprattutto per i servizi transfrontalieri e per lo sviluppo di un’infrastruttura digitale europea realmente competitiva e integrata.
Convergenza e campo da gioco unico
Sino a ora abbiamo sottolineato con forza che Il settore delle telecomunicazioni e dei servizi digitali sta vivendo una trasformazione profonda, in cui i confini tradizionali tra operatori di rete e fornitori di servizi cloud o digitali si stanno progressivamente dissolvendo. La convergenza riguarda sia l’infrastruttura, sia il livello dei servizi: la fornitura di connettività e la gestione delle applicazioni tendono a fondersi in un unico ecosistema integrato, in cui la domanda degli utenti finali, siano essi cittadini o imprese, diventa anch’essa convergente. In questo nuovo scenario, la storica distinzione tra operatori di comunicazioni elettroniche e fornitori di servizi cloud rischia di diventare irrilevante.
Questa evoluzione solleva un tema cruciale di equità regolatoria. Oggi le regole europee applicabili alle telecomunicazioni non si estendono in maniera simmetrica ai grandi fornitori di servizi digitali e cloud. L’attuale Codice delle Comunicazioni Elettroniche Europee (EECC) disciplina le reti pubbliche e i servizi di accesso, imponendo obblighi stringenti agli operatori tradizionali, ma lascia sostanzialmente fuori dal perimetro le infrastrutture cloud e i backbone privati costruiti e gestiti dai grandi attori globali. Di fatto, una quota molto rilevante del traffico internazionale – oltre il sessanta per cento – viaggia su cavi sottomarini e dorsali private (figura 4) che non rientrano nelle definizioni regolatorie, mentre i grandi fornitori cloud possono trasferire i dati direttamente dentro le reti degli operatori pubblici, aggirando in parte gli obblighi che questi ultimi devono rispettare.

Figura 4: Uso della capacità dei cavi sottomarini tra Content & Application Provider (CAP) e Telco (Fonte TeleGeography 2023).
Questa asimmetria si riflette anche nei servizi: i fornitori di accesso a internet e i servizi di comunicazione interpersonale basati su numerazione sono sottoposti a regole severe, mentre i servizi di comunicazione indipendenti dal numero, come le piattaforme di messaggistica, hanno obblighi molto ridotti e non contribuiscono al finanziamento del servizio universale o della regolazione settoriale. Allo stesso modo, i servizi cloud sono esclusi da questo quadro e rientrano solo parzialmente in normative orizzontali come il Digital Markets Act, che riguarda i gatekeeper e non l’intero ecosistema.
La conseguenza è che operatori tradizionali e nuovi attori digitali competono in un contesto di forte squilibrio regolatorio. I primi devono rispettare vincoli stringenti e sostenere i costi della regolazione e del servizio universale, mentre i secondi possono sviluppare le proprie infrastrutture private e offrire servizi su larga scala senza essere sottoposti agli stessi oneri. Questa situazione alimenta il dibattito su un vero level playing field, cioè sulla necessità di regole equivalenti per tutti i soggetti che operano nella catena del valore digitale, così da garantire condizioni competitive eque e diritti uniformi per i consumatori.
In prospettiva, la convergenza tra reti e cloud non è soltanto una questione tecnica, ma diventa un banco di prova politico e regolatorio per l’Unione Europea. La capacità di costruire un quadro normativo armonizzato e simmetrico determinerà se l’Europa riuscirà a sostenere la crescita di un ecosistema digitale competitivo e sicuro, o se lascerà spazio a squilibri strutturali che potrebbero indebolire sia gli operatori di rete sia la sovranità tecnologica complessiva del continente.
La strategia di intervento: i tre pillar
Queste, analizzate sino a ora, sono le premesse, molto complesse e articolate, per gli interventi del Digital Network Act. A parere di chi scrive la Commissione, dopo tutte le lezioni impartite dal passato, si sta muovendo o meglio si sta indirizzando, nella giusta direzione.
Nei prossimi paragrafi discuteremo nel dettaglio tali linee guida per poi sottolineare le direzioni da intraprendere con decisione nelle conclusioni. Il tempo è scaduto.
Le linee di azione, ovvero i “Pillar”, sono tre:
- Connected, Collaborative, Computing networks (3C Networks), dove sono progettate le azioni per lo sviluppo di reti convergenti (networking & computing) pan europee, dove le funzioni di accesso sono ovviamente locali e nazionali e le funzioni core travalicano i confini nazionali, e dove è evidenziata la focalizzazione necessaria nei programmi di ricerca e sviluppo;
- Single Digital Market, veramente unico, ove per operarvi non sono necessari procedure e adempimenti propri dei 27 paesi ma procedure e adempimenti solo Europei. Oltre a ciò, si incoraggiano, adottando le necessarie semplificazioni regolamentari, le concentrazioni, la nascita di operatori Pan Europei con la necessaria capacità investitoria e di attrazione del capitale privato grazie ad adeguati tassi di ritorno sul capitale investito;
- Secure and Resilient Digital Infrastructure in Europe, ove si indicano con decisione le necessità irrinunciabili di tecnologie e funzioni di sicurezza e le caratteristiche architetturali anch’esse irrinunciabili per la assoluta resilienza dei backbone sottomarini e terrestri, con attenzione al ruolo crescente delle costellazioni satellitari, diventate oggi un elemento importante nello scenario delle telecomunicazioni del futuro.
Approfondiamo molto, nei prossimi paragrafi, questi tre pillar e operiamo, nelle possibilità di ciascuno di noi, per renderli realtà.
Pillar 1: connected, collaborative, computing (3c) networks
Il concetto centrale del Pillar I è il “3C Network” (Connected, Collaborative & Computing Network), ossia che la rete del futuro non sarà fatta solo di fibre e antenne, ma anche di potenza di calcolo distribuita nei dispositivi, all’edge e nel central cloud, in grado di supportare applicazioni ad alta intensità di dati come intelligenza artificiale generativa e agentica, auto connesse e smart roads, sanità digitale, logistica avanzata, oltre che supportare le funzioni di rete appartenenti al control a management plan (ad esempio il 5G core mobile, le funzioni Open & Cloud RAN e il futuro 6G).
Questo significa che le reti dei grandi Operatori Europei devono evolvere secondo questa nuova architettura, che più volte abbiamo illustrato negli articoli di questa collana, e che è indicata in figura 5.
Per realizzare tutto questo, In primo luogo, occorre rafforzare la capacità industriale digitale europea nelle tecnologie di rete e nel calcolo distribuito, sfruttando il vantaggio competitivo che l’Europa ha ancora negli apparati di rete mobile e negli apparati ottici, con i leader Ericsson e Nokia, e estendendolo agli altri sistemi di rete, come routing e switching, e soprattutto ai sistemi server e storage in ambito Edge e Central Cloud e ai semiconduttori. Occorre, inoltre, sfruttare la capacità di sviluppo e operations delle grandi reti con i soggetti oggi esistenti in Europa. Non ha senso farlo con centinaia di soggetti ma su alcuni di essi, poggiando le basi sui grandi operatori oggi esistenti.
Questo punto relativo ai grandi Operatori Europei è evidentemente critico e delicato in quanto per 25 anni abbiamo, nella nostra Europa, indebolito e reso finanziariamente fragile il settore, consegnando tutto il vantaggio del dividendo regolatorio e della nascita della concorrenza ai consumatori finali a totale discapito della robustezza industriale delle Telecomunicazioni. Oggi, piaccia o no, tale impostazione, rivelatasi controproducente, deve essere radicalmente cambiata facendo sparire quelle concezioni assolutamente teoriche e prive di fondamento industriale relative ai modelli wholesale only, in quanto in controtendenza con il consolidamento auspicato nel settore.
Oltre alla capacità di deployment industriale si sistemi e reti occorre rafforzare e focalizzare molto la Ricerca e Innovazione (R&I) facendo perno sugli strumenti già avviati, come il Chips Act, gli IPCEI su microelettronica e cloud, e il partenariato Smart Networks and Services (SNS JU), che finanzia ricerca e sperimentazioni sul 6G, facendo crescere significativamente la loro scala, sia in termini di budget sia in termini di coordinamento, per non rimanere schiacciati dagli investimenti colossali dei grandi cloud provider extraeuropei.
I fondi stanziati oggi sono piccoli rispetto alla scala degli investimenti necessari:
- il SNS JU ha 900 milioni di budget fino al 2027, che è nulla se confrontato con i miliardi investiti ogni anno da Google, Meta, Amazon o Microsoft nel cloud.
- l’IPCEI su cloud e microelettronica, pur importante, si ferma a qualche miliardo, mentre i concorrenti extraeuropei ragionano in centinaia di miliardi.
Un secondo elemento riguarda la creazione di grandi progetti pilota europei con infrastrutture integrate end-to-end, capaci di mettere in rete tecnologie e attori diversi. I primi piloti potrebbero concentrarsi su ambiti applicativi molto concreti: corridoi 5G per la mobilità autonoma, sanità digitale avanzata, comunità intelligenti urbane e rurali. Questi piloti sarebbero finanziati con fondi europei (Horizon Europe, CEF Digital, Digital Europe Programme) e avrebbero la funzione di accelerare il passaggio dalla ricerca all’adozione industriale.

Figura 5: Il modello 3C Network: Connectivity, Collaboration, Computing.
Il terzo tassello è la governance e l’incremento dei finanziamenti. La Commissione riconosce che oggi gli strumenti sono troppi, dispersi e non sinergici. Si propone quindi di riorganizzarli attorno a una strategia unica, con la possibilità di istituire un nuovo IPCEI specifico per le infrastrutture integrate di connettività e calcolo, e di far svolgere al partenariato SNS JU un ruolo più coordinante, in collaborazione con alleanze industriali già esistenti come la European Alliance for Industrial Data, Edge and Cloud (figura 6). In altre parole, serve una Delivery Unit unica a Bruxelles con mandato chiaro su connettività, cloud ed edge, che coordini fondi esistenti e imponga milestone vincolanti ai progetti. Non un ennesimo gruppo di lavoro, ma una struttura esecutiva con potere di riallocare risorse tra CEF Digital, Digital Europe, Horizon, STEP, IPCEI e fondi nazionali, pubblicando ogni trimestre avanzamento, slittamenti e azioni correttive. L’obiettivo pratico è passare dalla somma di bandi scollegati a un portafoglio unico con priorità, scadenze, responsabili e criteri di uscita. L’idea è creare un “punto unico” europeo per finanziare l’intero continuum tecnologico, dai chip al cloud, in modo da stimolare investimenti privati e pubblici più consistenti.
Il 3C non parte senza un veicolo dedicato da almeno 25–35 miliardi, costruito con garanzie BEI, cofinanziamento STEP/IPCEI e contributi nazionali, che sottoscriva capex in tre categorie:
- accelerazione e densificazione 5G stand-alone,
- siti EDGE, backbone/fibra per i siti edge e piattaforme telco-cloud interoperabili.
Il capitale potrebbe arrivare come debt garantito e junior equity pubblico per sbloccare investimenti privati; in cambio, si richiedono API aperte, livelli minimi di sicurezza, reportistica sui costi e impegni di servizio per dieci anni. Si completa con super-ammortamenti temporanei per apparati 5G SA/edge e credito d’imposta per retrofitting dei siti a basso impatto energetico.

Figura 6: Soggetti rilevanti per la strategia 3C Networks EU
È utile innescare la domanda con acquisti pubblici che facciano da ancora. Ospedali, scuole, giustizia, trasporti, energia e difesa devono includere, nei capitolati, requisiti di rete a bassa latenza, edge locale e interfacce NAAS standard, in modo che il settore privato trovi reti e piattaforme già pronte. Per le PMI si attiva un voucher di adozione che copra per dodici mesi il consumo iniziale di servizi edge/AI europei; per le startup si offrono crediti d’uso su telco-cloud certificati in cambio di metriche di traffico e disponibilità.
I progetti faro devono essere pochi e immediati, con consegne in 12–18 mesi e criteri di accettazione chiari. Un corridoio TEN-T pilota che comprenda 5G SA continuo, nodi edge ogni 50–80 chilometri e orchestrazione di flotta e logistica in tempo reale. Una rete clinica distribuita che colleghi grandi ospedali e spoke territoriali, con telemetria medica, imaging e inferenza AI all’edge per abbattere latenza e costo del dato. Un cluster di porti e interporti con digital twin operativo e instradamento automatico dei mezzi. La consegna non è un “demo”, ma un esercizio in produzione con SLA obbligatori su latenza end-to-end, disponibilità, potenza di calcolo locale e percentuale di traffico gestito on-device/edge.
La sicurezza e la sovranità tecnica sono parte del design, non allegato finale. Le piattaforme 3C devono supportare cifratura end-to-end, segmentazione zero-trust e, dove necessario, ancoraggio a EuroQCI per casi d’uso critici, come indicato nel Pillar 3 più avanti. Si chiede diversificazione dei fornitori lungo la catena di fornitura e piani di continuità operativa che includano rotta alternativa via cavi sottomarini europei e collegamenti non terrestri.
I colli di bottiglia autorizzativi si sciolgono con uno sportello unico digitale e silenzio-assenso a 60 giorni per siti 5G SA ed edge indoor/outdoor su infrastrutture esistenti, con obbligo di co-scavo e riuso canalizzazioni. Si pubblica un modello di convenzione tipo per siti pubblici, canoni standard e tempi certi, così da evitare 27 negoziazioni diverse per lo stesso armadio.
Il programma si misura con pochi indicatori pubblici e non negoziabili: chilometri di corridoio con 5G SA e edge attivo, numero di edge node operativi certificati e potenza di calcolo disponibile, percentuale di traffico servito da edge rispetto al core, latenza mediana per applicazioni critiche, numero di applicazioni che usano le API NAAS standard, quota di spesa pubblica digitale che richiede tali interfacce, tempo medio di autorizzazione per sito, costo medio per nodo deployato. Le erogazioni di fondi si legano al raggiungimento di queste soglie, non alla spesa sostenuta.
Questa strategia è realizzabile perché sposta il baricentro su tre elementi concreti: titoli abilitativi uniformi e licenze utilizzabili oltreconfine, finanza dedicata che riduce il costo del capitale dove oggi è più alto, progetti pilota in produzione con utenti reali e SLA firmati. Il rischio principale resta politico e di coordinamento: se non si centralizzano le decisioni e non si accetta di armonizzare davvero spettro, permessi e criteri di finanziamento, torniamo alla frammentazione. Se invece queste leve vengono attivate insieme, in dodici-diciotto mesi puoi vedere corridoi funzionanti, reparti ospedalieri con inferenza locale e prime piattaforme NaaS europee usate da imprese vere. E questo, più di qualunque white paper, fa cambiare marcia al settore.
Pillar 2: single digital market
Il Codice delle Comunicazioni Elettroniche Europeo, nato per promuovere investimenti in reti ad altissima capacità e stimolare la concorrenza, non ha raggiunto i risultati sperati. Le misure introdotte, come le procedure comuni per l’assegnazione dello spettro o i modelli di co-investimento, sono rimaste in gran parte lettera morta, sia per la lentezza degli Stati membri nella trasposizione, sia per la complessità delle regole stesse.
È significativo che l’Europa riconosca questo mancato obiettivo e che, accanto alla tutela della concorrenza e dei consumatori che, come detto, è stato di fatto l’unico obiettivo realmente perseguito, oggi si proponga di integrare obiettivi più ampi come competitività industriale, sviluppo economico e sostenibilità. È un cambio di passo importante: il mercato non basta più da solo a garantire investimenti e crescita, serve una cornice regolatoria che tenga conto della dimensione geopolitica e industriale. Viene mantenuta, come è giusto che sia, l’enfasi sull’utente finale, che deve beneficiare di reti avanzate e diritti digitali coerenti con la Dichiarazione sui diritti digitali del 2022.
Ma verso quali direzioni deve evolvere il framework regolatorio per assicurare sviluppo delle infrastrutture digitali 3C Network e la disponibilità degli investimenti per finanziarlo?
Oggi un pacchetto di dati può attraversare cavi sottomarini, backbone internazionali, reti locali e data center in private o public cloud, ognuno dei quali è soggetto a regole diverse. Questa frammentazione appare ormai ingiustificata, soprattutto in un contesto di convergenza tra telco e cloud. Un esempio evidente è la cloudification del 5G, che permetterebbe di centralizzare funzioni core di più reti nazionali in infrastrutture comuni, con vantaggi in termini di efficienza e scala. Ma qui subentrano ostacoli legali e autorizzativi che variano da Stato a Stato e bloccano l’integrazione. Lo stesso vale per i nuovi servizi basati su 5G standalone, slicing e NaaS (Network As A Services): il business case è europeo, ma la regolazione rimane nazionale.
Finora, la cooperazione tra ISP e CAP (Content & Application Providers) tramite accordi di peering e caching ha funzionato, senza grandi interventi regolatori. Tuttavia, il documento ammette che il crescente peso delle Big Tech e la trasformazione delle architetture di rete potrebbero generare conflitti futuri, e ipotizza l’introduzione di meccanismi di risoluzione delle controversie più rapidi, gestiti BEREC in caso di dimensione transfrontaliera.
Le principali evoluzioni necessarie per la creazione davvero di un Single Digital Market Europeo
Passiamo in rassegna le principali evoluzioni necessarie per la creazione davvero di un Single Digital Market Europeo nei contesti:
- Autorizzazioni;
- Centralizzazione del Core Network;
- Assegnazione e gestione dello spettro radio;
- Switch Off delle reti in rame;
- Nuova regolamentazione dell’accesso in un contest full fiber;
Autorizzazioni
Il quadro autorizzativo europeo nasce nel 2002 per semplificare: niente più licenze individuali paese per paese, ma un’autorizzazione generale con condizioni predefinite per chi fornisce reti e servizi di comunicazione elettronica. Questa impostazione, però, è rimasta ancorata a una realtà in cui le reti sono fisiche e locali e in cui lo spettro radio è considerato una risorsa nazionale. Il risultato è che le condizioni operative vengono comunque fissate dalle autorità dei singoli Stati membri e l’attuazione è nazionale. Nel frattempo, il settore è cambiato: funzioni di rete virtualizzate, core 5G in cloud, edge distribuito e satelliti che coprono aree transfrontaliere rendono la “località” molto meno rilevante per una parte crescente dell’infrastruttura. In questo contesto, mantenere regimi nazionali molto differenziati può essere inefficiente, specialmente per servizi satellitari e per le componenti di rete che per natura operano oltre i confini.
L’idea di fondo è estendere al core network delle telecomunicazioni ciò che ha reso scalabili i servizi digitali in Europa: il principio del paese d’origine. Come per i servizi della società dell’informazione, un fornitore di “core network” e di “core network services” potrebbe operare in tutta l’UE rispettando un unico set di regole e un’unica autorità di riferimento nel paese di ingresso, senza doversi conformare a ventisette quadri differenti per le stesse funzioni centrali. Questo renderebbe possibile centralizzare in cloud funzioni core di reti oggi separate, sfruttare economie di scala simili a quelle dei cloud provider e costruire veri operatori paneuropei di core, con minori costi di investimento e di esercizio e una maggiore attrattività per i capitali privati. In più, un perimetro regolatorio omogeneo consentirebbe di razionalizzare obblighi e rendicontazioni oggi duplicati su più giurisdizioni.
L’accesso di rete locale e i servizi retail continuerebbero a ricadere sotto la legislazione e le autorità del paese in cui il servizio è offerto all’utente finale. È una distinzione funzionale: le funzioni core, per loro natura, possono essere accentrate e operate cross-border; le funzioni di accesso e la relazione con l’utente richiedono regole e tutele calibrate sul mercato locale. In questo modo si bilancia la ricerca di scala industriale con la protezione degli utenti e con rimedi di accesso adeguati alle specificità nazionali.
Dal punto di vista attuativo, questa impostazione richiede tre elementi di precisione. Anzitutto definire in modo chiaro cosa rientra in “core network” e “core network services” per evitare zone grigie tra livello centrale e accesso. Poi allineare gli aspetti di sicurezza, intercettazione legale, conservazione dei dati e vigilanza, così che il principio del paese d’origine non crei arbitraggi regolatori su temi sensibili. Infine, predisporre meccanismi di cooperazione tra autorità nazionali e un punto di coordinamento europeo per le funzioni core, in grado di intervenire rapidamente su controversie o rischi sistemici.
Centralizzazione del core network
Oggi un operatore che volesse gestire un core network paneuropeo si trova davanti a una giungla di regole differenti da paese a paese: incident reporting, data retention, requisiti di localizzazione dei dati o dei Security Operation Centre, procedure di security vetting per il personale, fino alle capacità di intercettazione legale. Sono tutti ambiti che riflettono sensibilità nazionali legate alla sicurezza e alla sovranità, ma che rendono di fatto impossibile gestire un’infrastruttura core unica a livello europeo.
La Commissione, pur riconoscendo la competenza primaria degli Stati membri in materia di sicurezza, propone di aprire un cantiere di armonizzazione “soft” e graduale. L’idea è consentire almeno forme di coordinamento che diano certezza agli operatori: per esempio, laddove un core network si estende su più paesi, le autorità competenti dovrebbero concordare un set uniforme di requisiti e controlli da applicare in maniera coerente lungo tutta la rete. Questo ridurrebbe la duplicazione di obblighi e garantirebbe maggiore prevedibilità operativa. In alternativa o in aggiunta, l’UE potrebbe emanare linee guida vincolanti o semi-vincolanti (raccomandazioni, guidance) per definire standard minimi comuni di sicurezza e compliance.
Per quanto riguarda gli obblighi di law enforcement, ogni operatore core dovrebbe mantenere un punto di contatto locale in ciascun paese in cui opera, così da garantire alle autorità nazionali un’interfaccia chiara per richieste di intercettazione o collaborazione investigativa. In questo modo si rispettano le prerogative sovrane senza bloccare la possibilità di accentramento tecnico delle funzioni core.
Lo spettro radio
La gestione dello spettro in Europa è stata inefficiente, frammentata e in ritardo rispetto a USA e Asia. Molto spesso gli stati membri hanno difeso la propria sovranità sulle frequenze, con il risultato che i bandi d’asta sono arrivati tardi, a costi spesso artificialmente gonfiati, generando ritardi nel roll-out e minor qualità delle reti. Questo ha reso l’Europa follower, non leader, nelle tecnologie mobili e soprattutto nel 5G.
La Commissione riprende proposte già avanzate e respinte negli ultimi 10 anni: maggiore armonizzazione nell’assegnazione e nella gestione delle licenze, coordinamento dei tempi delle aste, durata uniforme delle concessioni. Ora si torna a considerare queste misure come inevitabili per non replicare il fallimento visto col 5G e per preparare bene il 6G. È fortemente auspicabile un “EU spectrum roadmap per il 6G” vincolante per tutti gli stati membri, che garantisca rilascio coordinato e simultaneo delle bande.
Oltre a quantità e tempi, conta la qualità di gestione: il documento introduce concetti come “use it or lose it” (se non usi lo spettro lo perdi) per evitare sprechi e speculazioni, e promuove modelli innovativi di condivisione dinamica (licenze flessibili, database geolocalizzati, AI per l’allocazione), fondamentali per servizi IoT, reti locali e integrazione satellitare.
Si evidenzia l’assurdità di una nuova generazione mobile (6G) con processi di autorizzazione scaglionati nell’arco di dieci anni tra vari paesi. La soluzione prospettata è un rafforzamento della governance europea dello spettro, con strumenti più vincolanti rispetto all’attuale peer review volontaria, fino a immaginare meccanismi comuni di selezione/autorizzazione a livello UE (ad esempio per satelliti e servizi cross-border), pur lasciando i proventi delle aste agli stati membri.
Occorre inoltre dire con estrema chiarezza che i 26 miliardi raccolti dalle aste 5G (oltre ai costi di gestione) hanno rallentato gli investimenti reali in infrastrutture. Per il futuro propone di orientare i processi di gara non alla massimizzazione delle entrate fiscali, ma a vincoli pro-investimento e pro-rollout, così da liberare capitali per le reti.
Lo spettro non è solo una risorsa tecnica, ma un asset geopolitico. L’UE vuole rafforzare il coordinamento interno per presentarsi compatta ai negoziati globali (ITU, WRC) e non farsi condizionare da attori extra-UE. Si propone di ridimensionare il ruolo della CEPT (dove siedono anche paesi non UE) e creare un meccanismo decisionale ad hoc con soli Stati membri, a tutela della sovranità e della sicurezza europea.
Questo delle frequenze è il punto più concreto e critico del Pillar II. Qui l’UE non si limita a parlare di ecosistemi e soft law: mette sul tavolo misure dure come roadmap vincolanti, principi “use it or lose it”, governance centralizzata e orientamento degli incentivi dalle entrate fiscali agli investimenti industriali. Tuttavia, resta l’incognita politica: gli stati membri sono disposti a cedere pezzi della loro sovranità sullo spettro? La storia dice di no, ma senza un cambio di passo la frammentazione continuerà a zavorrare l’Europa.
Mettere a confronto Europa, Stati Uniti e Cina sulla gestione dello spettro aiuta a capire perché l’UE sia in ritardo sul 5G e come questo influenzerà il 6G. Negli Stati Uniti l’autorità federale (FCC) ha potuto concentrare rapidamente risorse sul “mid-band”: l’asta C-Band ha riallocato 280 MHz fra 3,7 e 3,98 GHz, chiudendosi con 81 miliardi di dollari e spingendo gli operatori a un rollout accelerato, nonostante il contenzioso con l’aviazione che ha richiesto cautele operative vicino agli aeroporti. Subito dopo è arrivata l’asta 3,45–3,55 GHz da altri 22,5 miliardi. È un modello centralizzato, con una pipeline chiara e poteri regolatori forti: quando si decide di liberare banda, la si libera davvero e in tempi brevi. Il rovescio della medaglia è che prezzi così elevati drenano capex, ma l’orizzonte regolatorio resta univoco e prevedibile, e questo ha consentito di mettere in campo reti mid-band su scala nazionale in pochi anni.
La Cina ha puntato su un’allocazione amministrativa e coordinata dallo Stato, assegnando mid-band agli operatori fin dall’inizio e combinandola con bande più basse, come 700 MHz in collaborazione fra operatori, per la copertura profonda. Il risultato è una densità di siti senza paragoni e un passaggio rapido al 5G stand-alone e al 5G-Advanced: a giugno 2025 sono operativi circa 4,5 milioni di siti 5G, con 5G-A già attivo in centinaia di città. La scala e la regia centrale permettono di allineare spettro, apparati e investimenti, con tempi di autorizzazione ridotti al minimo e una chiara priorità alle reti come infrastruttura abilitante per l’industria.
L’Europa è il fanalino di coda non per mancanza di tecnologia, ma per frammentazione. Le “pioneer bands” avrebbero dovuto essere autorizzate in tutti gli Stati membri entro fine 2020; a metà 2025 la banda 26 GHz è stata autorizzata solo in una minoranza di Paesi e la diffusione del 5G stand-alone rimane limitata e poco trasparente. Le aste sono arrivate a scaglioni, con condizioni e durate disomogenee e, in vari casi, con esiti che hanno privilegiato l’incasso fiscale più che la velocità di copertura e la qualità del servizio. Questo mosaico rallenta i rollout, impedisce economie di scala e indebolisce la bancabilità dei piani d’investimento degli operatori.
Guardando al 6G, la fotografia è simile ma non scritta nella pietra. La Conferenza mondiale WRC-23 ha identificato nell’area 6,425–7,125 GHz una nuova fascia mid-band cruciale per i servizi mobili di prossima generazione in Europa. Se l’UE tradurrà rapidamente questa decisione in una roadmap vincolante, con rilascio coordinato delle frequenze e regole omogenee, potrà presentarsi al 6G con uno “zoccolo duro” di spettro armonizzato. Se invece ogni Stato continuerà a muoversi per conto proprio, rivedremo lo stesso film del 5G, con adozione a macchia di leopardo e perdita di competitività industriale.
In termini di governance, gli Stati Uniti mostrano cosa significa una catena di decisione corta: quando la FCC decide, la pipeline di spettro procede, e gli attriti inter-agenzia (come il caso FAA) si risolvono con piani di mitigazione e scadenze chiare. La Cina dimostra l’effetto della regia statale integrata su spettro, apparati e siti. L’Europa, al contrario, paga la sovrapposizione tra competenze nazionali e obiettivi comuni: non ha mancato di investimenti o di vendor forti, ma di una politica dello spettro che imponga tempi, durate, condizioni d’uso e criteri pro-investimento uniformi. Le stesse fonti ufficiali europee riconoscono che l’autorizzazione delle bande 5G non è stata completata nei tempi e che il 5G stand-alone resta indietro.
La lezione per il 6G è quindi operativa. Servono tre decisioni europee non negoziabili: un calendario unico e legale per liberare ed effettuare il refarming le bande prioritarie, un modello d’asta e di rinnovo che premi copertura, latenze e qualità più del gettito, e una governance dello spettro in cui il livello UE coordini e, quando serve, decida. WRC-23 ha messo sul tavolo la materia prima, e i programmi europei sul 6G sono vivi; ma senza una politica dello spettro davvero comune, anche il 6G rischia di partire in ordine sparso
Lo switch off delle reti in rame
Lo switch-off del rame è certamente una leva strutturale per completare la transizione verso la fibra e centrare sia gli obiettivi gigabit sia quelli ambientali. La sostituzione dell’infrastruttura legacy riduce l’OPEX e il consumo energetico delle reti, rende più semplice la gestione, e soprattutto sposta la domanda verso servizi ad alta capacità, migliorando il ritorno sugli investimenti FTTH. Tale passaggio non è automatico: richiede regole prevedibili, una regia forte dei regolatori nazionali e salvaguardie concorrenziali per evitare che la migrazione faccia arretrare le condizioni di mercato costruite negli ultimi anni.
In molti paesi Europei, tra cui l’Italia, è stato definito il processo per la cessazione del servizio telefonico tradizionale a commutazione di circuito, POTS e ISDN, il conseguente Decommissioning dei sistemi di commutazione e trasmissione tradizionali e la cessazione della rete primaria in rame. Il Decommissioning non è lo Switch Off del rame, in quanto è realizzabile anche grazie alle piattaforme FTTC (Fiber To The Cab), implementate massivamente, che usano fibra nella rete primaria e rame nella rete secondaria, quella peraltro più diffusa (nei 400.000 km di tracciati della rete di accesso in Italia il 75% circa sono della rete secondaria).
Lo Switch Off di tutta la rete in rame è di più. I servizi di rete fissa di accesso con lo Switch Off devono migrare su FTTH o su FWA (come noto oggi molto irrobustito dalle tecnologie 5G). Il punto delicato è l’equilibrio tra spinta alla migrazione e tutela della concorrenza. In alcuni contesti l’operatore dominante potrebbe essere tentato di usare lo switch-off per fidelizzare in modo forzoso la clientela. Come è noto, oggi in Italia esistono due operatori wholesale only (un unicum a livello mondiale, Fibercop e Open fiber) e dunque particolari forzature da parte degli Operatori (retail) non sono fattibili.
La spinta regolatoria proposta nel DNA si basa sulla definizione della data di Switch Off e sull’aumento temporaneo dei canoni rame durante la fase di spegnimento, previsto come incentivo nella Gigabit Recommendation. La definizione della data di Switch Off è importante per l’obiettivo di migrazione totale a FTTH / FWA entro il 2030, vista la lentezza e criticità di oggi sull’adoption degli accessi FTTH. Più nel dettaglio, la traiettoria temporale, unitaria in tutta l’Unione, introduce una data consigliata che da certezza agli investitori e ai clienti finali. L’asticella indicata è ambiziosa ma pragmatica: arrivare all’80 per cento degli abbonati su fibra entro il 2028 e completare il restante 20 per cento entro il 2030.
La situazione in Europa è, come sempre, molto disomogenea. In blo switch-off del rame è stato completata a maggio 2025, con Telefonica che ha completato la migrazione della sua clientela a metà 2024. In Svezia e Portogallo la transizione è in fase avanzata, con la Svezia che prevede di terminare entro il 2026. Francia e Paesi Bassi hanno fissato il 2030 come orizzonte per l’eliminazione del rame, analogamente nel Regno Unito dove la disattivazione completa è attesa nel 2030, con una prima fase PSTN prevista entro il 2027. In Germania, Grecia e Repubblica Ceca la dipendenza dal rame resta alta e non ci sono piani concreti per il suo superamento. In Belgio, Ungheria, Paesi Bassi e Portogallo esistono piani ma senza una scadenza pubblica. In Irlanda sono in corso negoziati sul tema, mentre in Romania lo switch-off è iniziato ma non è documentato pubblicamente. Infine, secondo BEREC solo otto Stati membri possono realisticamente sperare di raggiungere lo switch-off entro il 2030. Quindi l’obiettivo è tutt’altro che semplice.
La situazione in Italia è che FTTH e FWA totalizzano il 41,5% dei 20,5 milioni di linee di rete fissa. Siamo molto distanti dagli obiettivi della Gigabit Society. In un anno sono migrate su accessi VHCN (FTTH e FWA) circa 1,4 milioni di linee dato che ne mancano 12 milioni, che ancora utilizzano il rame, la traiettoria è di 9 anni, ossia ce la facciamo intorno al 2035.
Lo spread tra i vari Paesi Europei, anche in questo caso, si prospetta di dieci anni cosa che, come già commentato a proposito dello sviluppo completo delle reti 5G, non è accettabile.
Nel caso di indicazione di tempi certi per lo Switch Off del rame la dimensione sociale non deve essere sottovalutata e lo spegnimento deve essere compatibile con le esigenze di utenti vulnerabili e persone con disabilità, che spesso dipendono da dispositivi e servizi legacy collegati al rame. È necessaria da parte degli Operatori una matrice di sostituzioni a parità di prestazioni e senza costi nascosti per la sostituzione degli apparati, garanzie sulla compatibilità di allarmi, telesoccorso e servizi critici, e crediti o voucher dove vi siano oneri di migrazione a carico dell’utente.
Sul piano operativo, la migrazione è un processo industriale e viene trattata con preavvisi vincolanti, finestre tecniche coordinate tra operatori retail e wholesale, eventuali periodi di doppia alimentazione per consentire il passaggio senza interruzioni, KPI pubblici su tempi di provisioning, tasso di fallimenti di migrazione, reclami e indennizzi automatici in caso di disservizio. Quando un’area viene dichiarata “fiber-ready”, l’orizzonte di spegnimento del rame deve essere noto e credibile; quando non lo è, la responsabilità dei ritardi deve essere trasparente, con rimedi e, se necessario, con l’uso di poteri correttivi.
La coerenza economica completa il quadro. L’incentivo di prezzo sul rame ha senso solo se accompagnato da un quadro wholesale FTTH stabile e non punitivo per gli operatori entranti; altrimenti si spinge l’utente finale fuori dal rame ma non si crea concorrenza infrastrutturale né si stabilizza il ritorno dell’investimento sulla fibra. Allo stesso modo, eventuali flessibilità di prezzo sulle VHCN devono essere condizionate a impegni verificabili su copertura, qualità, trasparenza e accesso all’ingrosso, con rimedi efficaci in caso di deviazioni.
In sintesi, lo switch-off del rame è necessario e vantaggioso in combinazione con una data europea di riferimento, incentivi economici mirati e temporanei, tutela della concorrenza, protezione degli utenti e un monitoraggio serrato da parte dei regolatori è la condizione per trasformare un passaggio tecnologico in un salto di competitività.
Regolamentazione dell’accesso in ambito full fiber
Il processo di liberalizzazione delle telecomunicazioni in Europa aveva come obiettivo finale quello di superare la regolazione settoriale e arrivare a un modello concorrenziale puro, basato solo sul diritto antitrust (ex-post). L’intervento ex-ante ha avuto un ruolo chiave nel creare concorrenza sui mercati a partire dal monopolio storico del rame, fino a ridurre i mercati regolati da 18 nel 2003 a soli 2 dal 2020. In diversi Paesi (Olanda, Bulgaria, Romania, Austria) la regolazione ex-ante sul local access è stata abbandonata perché esisteva sufficiente concorrenza infrastrutturale e sufficiente accessibilità delle reti.
Oggi, con il passaggio alla fibra e l’obiettivo Digital Decade (copertura gigabit per tutti entro il 2030), si apre il tema di superare definitivamente la regolazione ex-ante, limitandola a poche aree residuali. La logica è: dove ci sono almeno due reti fisse indipendenti (fibra, cavo, FWA), non c’è più bisogno di SMP remedies (Rimedi per l’Operatore con Significativo Potere di Mercato) perché il mercato regge da solo.
La base giuridica è il Codice europeo delle comunicazioni elettroniche. Il meccanismo parte dall’analisi di mercato e dall’eventuale designazione di un operatore con significativo potere di mercato; solo a quel soggetto possono essere imposti rimedi ex‑ante proporzionati per promuovere concorrenza ed investimenti. Tra i rimedi tipici ci sono gli obblighi di accesso all’ingrosso alle reti e alle infrastrutture (ad esempio unbundling, dark fiber, bitstream), la trasparenza con offerte di riferimento pubbliche, la non discriminazione — spesso declinata come equivalence of inputs, cioè stessi processi, tempi e condizioni per il retail interno e per i concorrenti —, il controllo dei prezzi e la contabilità dei costi, fino alla separazione funzionale come extrema ratio. L’obiettivo dichiarato del Codice e delle raccomandazioni della Commissione è ridurre nel tempo l’ambito dell’ex‑ante man mano che cresce la concorrenza infrastrutturale, preservando però tutela efficace dove persistono colli di bottiglia.
Il principio di replicabilità economica entra qui in modo decisivo. I regolatori applicano test ex‑ante di “economic replicability” per verificare che i pacchetti retail dell’operatore SMP siano replicabili da un concorrente efficiente che acquista gli input all’ingrosso regolati: in sostanza, si controlla che non ci sia uno squeeze di margine tra prezzo retail e costo degli input wholesale più i costi downstream ragionevoli. È una disciplina europea consolidata nelle linee guida BEREC ed è stata aggiornata nella Raccomandazione “Gigabit” della Commissione, che indica parametri e perimetro del test nell’ambiente VHCN/FTTH. Lo scopo è abilitare flessibilità commerciale all’incumbent senza consentire pratiche escludenti che rendano “di fatto” non replicabili le sue offerte.
Accanto al test di replicabilità e alla non discriminazione, l’architettura dei rimedi comprende obblighi di accesso e condizioni tecniche e SLA standardizzati nelle offerte di riferimento, controlli di prezzo quando necessario, e separazione contabile per impedire sussidi incrociati. Negli ultimi anni si sono affermati anche strumenti “simmetrici”, validi per tutti gli operatori, sull’accesso alle infrastrutture civili e sui diritti di posa, per accelerare la fibra e ridurre barriere di costo, a complemento dei rimedi SMP tradizionali. Il quadro viene rifinito con raccomandazioni più recenti orientate al gigabit, che invitano le autorità a calibrare i test di replicabilità e le regole di prezzo per non disincentivare gli investimenti FTTH, mantenendo però una “rete di protezione” concorrenziale nelle aree meno contendibili.
In parallelo, il DNA propone una prospettiva più europea ossia l’introduzione di regole uniche a livello UE per standardizzare alcuni access products (accesso alla fibra, VULA, Birstream, …), facilitare l’emergere di operatori paneuropei e ridurre la frammentazione. Esempi citati sono le regole di roaming o i termination rates, che hanno uniformato il quadro comunitario e ridotto i costi di compliance. Un approccio simile potrebbe valere per l’accesso alle reti FTTH, con regole comuni e simmetriche su infrastrutture civili e wholesale, rafforzate dal Gigabit Infrastructure Act.
Il modello sarebbe quindi ibrido:
- fase di phase-out della regolazione ex-ante, con SMP remedies solo dove persistono fallimenti locali (tramite il “3 criteria test”);
- simmetria europea con regole uniche di accesso a infrastrutture civili e prodotti wholesale minimi (dark fibre,VULA, bitstream);
- protezione dell’investimento FTTH con la possibilità di rifiutare accesso alla rete fisica se esistono prodotti wholesale equivalenti a condizioni eque.
Questo del superamento delle regole “ex-ante” è forse il punto più controverso del progetto di DNA perché mette a confronto due visioni opposte:
- Gli incumbent, che spingono per la fine della regolazione ex-ante e vogliono piena libertà commerciale sulle nuove reti in fibra, con la promessa che gli investimenti saranno più rapidi e intensi se non vincolati da obblighi.
- Gli operatori alternativi (AOA e ISP), che temono che la deregulation anticipata porti a nuove posizioni dominanti, soprattutto in aree dove non hanno ancora completato la copertura o dove non possono replicare la capillarità dell’incumbent.
A parere di chi scrive l’impostazione ex-ante e l’asimmetrie per gli Operatori con significativo potere di mercato hanno esaurito il loro compito. In 25 anni è stato creato un mercato fortemente concorrenziale, quello dei paesi Europei, dove operano centinaia di soggetti. Il mercato Italiano, tra gli altri, è quello caratterizzato da una struttura concorrenziale molto rilevante: c’è competizione sui servizi di rete fissa, sulle infrastrutture con addirittura due Operatori wholesale only, c’è una fortissima competizione sul mobile, ci sono Operatori virtuali (MVNO), sono presenti reseller con licenza di Operatore dei quali ci possiamo fare un’idea scorrendo la lista delle centinaia di Partner che operano sulle infrastrutture di Open Fiber senza la minima infrastruttura propria, ci sono grandi aziende che per hanno la licenza di Operatore anche solo per scopi interni. Dunque, abbiamo un contesto molto competitivo e spesso molti esperti del settore caratterizzano tale situazione come eccesso di concorrenza.
In Italia l’impostazione della regolamentazione ex-ante non ha più senso e auspichiamo un suo rapido superamento. Lo stesso in Europa e incoraggiamo la Commissione a procedere con determinazione su tale strada.
Infine, riferimento a strumenti Pan Europei è importante e pragmatico: avere prodotti wholesale standardizzati a livello europeo abbassa le barriere all’ingresso per operatori paneuropei, riduce la complessità e aumenta la certezza regolatoria. Questo è un passo avanti verso il completamento del Digital Single Market, ed evita la giungla normativa dei 27.
Pillar 3: secure and resilient digital infrastructure for Europe
Il terzo pilastro del progetto DNA è dedicato alla sicurezza e alla resilienza delle nuove infrastrutture digitali europee, con l’obiettivo di garantire che i massicci investimenti in corso non vengano compromessi da vulnerabilità tecnologiche o geopolitiche. La riflessione si concentra su due fronti principali: la transizione verso comunicazioni sicure, in un’era che sarà dominata dal calcolo quantistico, e la protezione delle infrastrutture fisiche più critiche, in particolare i cavi sottomarini (ovvero il backbone in generale).
L’avanzare del quantum computing rappresenta una minaccia diretta ai sistemi crittografici attuali, che costituiscono la base della sicurezza nelle reti di comunicazione e nelle infrastrutture critiche. Anche se i computer quantistici in grado di violare gli algoritmi oggi utilizzati non sono ancora operativi, la loro maturazione appare sempre più vicina e impone di avviare senza ritardi una transizione verso infrastrutture digitali sicure contro possibili attacchi quantistici. La prima linea di difesa è rappresentata dalla Post-Quantum Cryptography (PQC), una tecnologia di natura software fondata su problemi matematici di difficile soluzione anche per un computer quantistico. Essa consente una migrazione relativamente rapida senza necessità di nuovo hardware, ma richiede un’azione coordinata a livello europeo per evitare frammentazione, standard divergenti e disparità nei tempi di adozione. A ciò si affianca la prospettiva, a più lungo termine, della Quantum Key Distribution (QKD), una tecnologia hardware che sfrutta le proprietà fisiche dei quanti per garantire comunicazioni intrinsecamente resistenti agli attacchi e ai limiti della crittografia classica. In Europa sono già in corso test e sperimentazioni con l’iniziativa EuroQCI e il programma SAGA. La combinazione di crittografia post-quantistica e distribuzione quantistica delle chiavi dovrebbe garantire, entro il prossimo decennio, un ecosistema digitale europeo realmente sicuro end-to-end e pronto ad affrontare il futuro Quantum Internet.
Il secondo ambito, più infrastrutturale, riguarda i cavi sottomarini, infrastrutture attraverso cui passa la gran parte del traffico dati globale e che rappresentano dunque un punto nevralgico per la sovranità digitale europea. La crescente attenzione alle minacce di sabotaggio, alle dipendenze da fornitori extraeuropei e alla scarsa capacità autonoma di manutenzione ha spinto la Commissione a proporre un approccio più organico e strategico. Tra le misure discusse vi è la creazione di progetti di interesse europeo nel settore dei cavi, definiti secondo standard tecnologici avanzati in termini di sicurezza, monitoraggio e sostenibilità, sostenuti da un sistema di etichettatura che ne certifichi la rilevanza strategica. La loro realizzazione richiederà il coordinamento dei fondi europei e nazionali e la messa in campo di strumenti finanziari innovativi che riducano il rischio per gli investitori privati, eventualmente anche attraverso la costituzione di fondi congiunti UE-Stati membri. Un aspetto particolarmente significativo riguarda la possibilità di costruire una capacità europea dedicata alla manutenzione e alla riparazione dei cavi, fino ad arrivare, sul modello del programma RescEU, a flotte finanziate dall’Unione per garantire interventi tempestivi in caso di emergenze.
Parallelamente, si avverte la necessità di armonizzare i requisiti di sicurezza dei cavi sottomarini e dei relativi apparati di rete, promuovendo standard europei riconosciuti anche a livello internazionale attraverso specifici schemi di certificazione. Questo consentirebbe di aumentare la resilienza delle infrastrutture critiche e di ridurre al minimo la dipendenza da fornitori considerati a rischio. Sul piano della governance, l’obiettivo è creare un sistema condiviso tra Commissione e Stati membri che permetta di definire congiuntamente priorità, criteri di sicurezza, programmi di investimento e modalità di finanziamento, aggiornando periodicamente la lista dei progetti strategici, sia intraeuropei sia globali, e rafforzando la capacità di risposta comune di fronte a minacce esterne.
Nel complesso, questo pilastro segna una presa di coscienza importante: la sicurezza delle nuove infrastrutture digitali non può più essere affrontata soltanto a livello nazionale né rimandata a emergenze future, ma deve diventare parte integrante e anticipatoria della strategia europea.
Le posizioni degli operatori
Come era da aspettarsi le posizioni espresse prima sul White Paper e poi sui recenti quesiti in consultazione sono molto diversificate e si concentrano sostanzialmente due punti:
- l’abbandono delle misure ex ante in un mercato di accesso full fiber;
- la definizione di un level playing field sul mercato digitale tra Telco e CAP.
Gli ex incumbent sono tutti allineati con le proposte per il DNA, come dimostrato dalla recente comunicazione dei 20 CEO di Connect Europe alla Commissione, gli operatori alternativi (AOA) e gli ISP sono tutti contrari.
In particolare, queste le sintesi delle posizioni espresse.
L’AIIP, Associazione Italiana Internet Provider, che rappresenta numerosi operatori alternativi in Italia, ha definito il DNA come «la più grande minaccia sistemica al mercato delle telecomunicazioni». Durante il convegno “30 anni di Libertà Digitale” e in un comunicato ufficiale del 12 giugno, AIIP ha affermato che il DNA rischia di cancellare la concorrenza reale e lasciare in piedi soltanto pochi giganti, facendo perdere all’Italia il controllo della filiera digitale.
A livello europeo, l’associazione ECTA (European Competitive Telecommunications Association) ha espresso una forte critica alla riduzione del regime ex ante come previsto (o ipotizzato) nel White Paper. Secondo ECTA, questo strumento, nato con l’obiettivo di contenere costi, rischierebbe invece di consolidare il potere di mercato dei grandi operatori, a scapito di un accesso aperto ed equo per tutti.
Wired Italia evidenzia e approfondisce questa spaccatura tra gli Operatori ripercorrendo le argomentazioni di chi sostiene una forte deregolamentazione nel nome dell’efficienza, dell’innovazione e degli investimenti (rappresentati da Connect Europe) e indicando esplicitamente i nove operatori rilevanti, tra cui Iliad, Fastweb + Vodafone, WindTre, Open Fiber, Bouygues Telecom, Colt, Eurofiber, 1&1, che temono un ritorno del monopolio sulla rete fissa.

Figura 7: Alcune risposte formali al white paper EU “How to master Europe’s digital infrastructures needs?”
La CCIA Europe, un’associazione di settore pro-innovazione digitale, ha avvertito che il DNA non dovrebbe estendere il tradizionale quadro regolatorio delle telecomunicazioni a soggetti come cloud provider e CDNs (i CAP), che rischierebbero di trovarsi sotto un regime eccessivamente restrittivo e sovrapposto ad altre normative come Digital Service Act (DSA), Digital Market Act (DMA) o AI Act.
Connect Europe (già ETNO) ha risposto alla consultazione pubblica sul White Paper “How to master Europe’s digital infrastructure needs”, con una sua posizione è disponibile pubblicamente (figura 7). Nel dettaglio, Connect Europe esprime un apprezzamento generale per l’impostazione e la visione del White Paper, riconoscendo l’importanza di definire una strategia chiara per il futuro delle infrastrutture di connettività in Europa.
Le proposte di policy di Connect Europe
Ma c’è di più, Connect Europe ha inviato il 25 luglio 2025 una lettera firmata da 20 CEO delle principali aziende europee di telecomunicazioni, che rappresenta un documento politico di grande rilievo perché mette la Commissione di fronte a una scelta strategica: o riformare radicalmente il quadro regolatorio delle telecomunicazioni, oppure condannare l’Europa a rimanere indietro rispetto a Stati Uniti e Asia nella corsa globale alle infrastrutture digitali.
I firmatari sottolineano come la connettività contribuisca già oggi per il 4,7% al PIL europeo e sia fattore abilitante per tutti i settori industriali. Ricordano che il comparto investe oltre 50 miliardi l’anno, ma che senza un cambio di paradigma l’Europa non potrà né colmare il gap sugli investimenti necessari, né garantire la propria sovranità tecnologica. Da qui l’appello a un Digital Networks Act ambizioso, capace di superare la frammentazione e l’inefficienza delle regole attuali e di allinearsi alle raccomandazioni Draghi e Letta.
L’allegato alla lettera contiene le proposte di policy più rilevanti. In primo luogo, si chiede un nuovo quadro pro-investimento, che superi la regolazione ex-ante concepita per le reti in rame e che oggi rallenta il deployment della fibra. La visione è di spostare il baricentro verso un controllo ex-post basato sul diritto della concorrenza e sul Gigabit Infrastructure Act, mantenendo obblighi ex-ante solo come rete di sicurezza nei casi di veri colli di bottiglia locali.
Un secondo punto centrale è la creazione di scala industriale. I CEO denunciano che la frammentazione dei mercati nazionali impedisce agli operatori europei di reggere la competizione con i big tecnologici globali, e chiedono quindi una revisione delle regole sulle fusioni che favorisca operatori più forti, in grado di investire in AI, 6G, cloud sovrano e cybersicurezza.
Terzo pilastro è il level-playing field con gli OTT: gli operatori propongono meccanismi vincolanti di arbitrato per riequilibrare i rapporti commerciali nel trasporto dati e il principio “stessi servizi, stesse regole”, così da ridurre le asimmetrie regolatorie a favore delle grandi piattaforme.
Un altro elemento chiave riguarda lo spettro radio, dove si chiede di superare le differenze tra Stati Membri, ridurre i costi eccessivi delle aste e garantire durate più lunghe delle licenze per incentivare davvero gli investimenti in 5G e 6G.
La lettera mette poi l’accento sulla semplificazione normativa, denunciando un eccesso di obblighi e burocrazia (oltre 34 regimi paralleli in UE), che scoraggia gli investimenti e rende il mercato meno competitivo. Infine, viene sollevata la questione della governance: con oltre 270 autorità nazionali che operano sulla connettività, il sistema attuale non ha prodotto armonizzazione reale. Per questo i CEO chiedono un modello di governance europea capace di assicurare regole uniche e una vera realizzazione del mercato unico delle telecomunicazioni.
In sintesi, la lettera e l’allegato rappresentano un’agenda di riforma radicale: deregolazione selettiva per stimolare investimenti, consolidamento del settore, parità di regole con gli OTT, armonizzazione dello spettro, drastica semplificazione delle norme e nuova governance a livello UE. I CEO sottolineano che il tempo è poco e che la posta in gioco è la competitività tecnologica e industriale dell’Europa nei prossimi decenni.
Non c’è dubbio che la visione di Connect Europe è molto allineata con i principi indicati nel White Paper indicando le scelte che auspicabilmente andranno fatte. Un solo punto è mancante e riguarda la necessità di focalizzare e finanziare lo sviluppo della 3G Network e la ricerca industriale ad essa correlata. Tale punto deve essere ben presente in quanto segue le già richiamate raccomandazioni di Draghi e Letta e risponde allo scenario internazionale caratterizzato dalle forti accelerazioni di USA e ASIA (in particolare Cina).
L’armonizzazione con le normative Ue già esistenti sul digitale
Il DNA, che auspicabilmente vedrà la luce entro il 2025, deve curare particolarmente l’armonizzazione e la compatibilità con gli altri cinque atti che sono stati approvati in questi anni.
Il primo approfondimento deve essere il rapporto con il Digital Markets Act, che disciplina i Gatekeeper e le Piattaforme dominanti. Qui il punto di attenzione è il level playing field in quanto il DNA deve allineare gli oneri Telco rispetto a quelli dei grandi OTT tenendo in considerazione quanto già prescritto per le grandi Piattaforme.
Il secondo approfondimento riguarda il Digital Services Act, che interviene sulla responsabilità e la gestione dei contenuti online. Il legame con il DNA emerge nella parte infrastrutturale, perché le regole sulle reti devono restare distinte da quelle sui contenuti, evitando sovrapposizioni che confondano ruoli e responsabilità.
Il terzo elemento cruciale è il Data Act, che regola l’accesso e la condivisione dei dati tra imprese e utenti. Il DNA deve coordinarsi con queste disposizioni, soprattutto perché le nuove reti 3C (connectivity, collaboration, computing) saranno anche piattaforme di gestione dei dati, e vanno evitate zone grigie tra obblighi infrastrutturali e regole sui dati.
Infine, il quarto e quinto approfondimento riguardano il Cyber Resilience Act e l’AI Act. Il primo stabilisce requisiti di sicurezza per i prodotti e i servizi ICT, il secondo per i sistemi di intelligenza artificiale. Il DNA, con il suo pilastro su sicurezza e resilienza, deve integrarsi con queste due normative senza generare standard paralleli o conflittuali, assicurando che la sicurezza delle reti sia compatibile con le regole generali sulla cybersicurezza e con quelle sull’uso sicuro dell’intelligenza artificiale.
L’attenzione del nostro Continente alle regole e normative è ben nota e su questo abbiamo uno skill particolare e dunque non vi è dubbio che l’armonizzazione e compatibilità tra i vari Act sarà assicurata.
Nel contesto del DNA parliamo molto di più di innovazione, competitività e terreno fertile per il sostegno dei grandi investimenti necessari per la rapida concezione e realizzazione di 3C Networks Pan Europee. Una volta tanto, pur mantenendo la massima attenzione alle regole, privilegiamo il fare!
I quattro grandi obiettivi del DNA
Il Digital Network Act, atteso a fine 2025, è una pietra miliare per il settore industriale delle Telecomunicazioni o meglio del Digitale in Europa. Non dobbiamo perdere questa occasione storica. Sono anni ormai che prendiamo atto del deterioramento inesorabile dell’industria delle Telecomunicazioni in Europa, un tempo una delle più brillanti nel nostro continente, con ricavi stazionari o in decrescita, margini molto limitati e cash flow che non finanzia gli intensi investimenti necessari per aggiornare e innovare le reti.
La situazione è resa ancora più delicata in quanto vi sono esigenze in forte crescita dovute all’accelerazione dell’AI e in quanto le reti cambiano radicalmente, integrando tecnologie e componenti di telecomunicazioni con tecnologie e componenti di computing (convergenza Network & Computing), e dunque necessitano di un aggiornamento rilevante non solo nell’accesso, con fibra e 5G stand alone, ma anche nel backbone dove si procederà a implementare il Teco Cloud con le centrali che si trasformano in nodi EDGE cloud e CENTRAL cloud (Data Center) e a rafforzare e proteggere le principali direttrici dei portanti ottici a partire da quelli sottomarini.
Gli investimenti necessari a questo obiettivo, alcune centinaia di miliardi, cruciale per l’Europa, non possono essere realizzati con un mercato caratterizzato dalla presenza di centinaia di Operatori, dalla frammentazione di regole che impediscono la nascita di soggetti PAN Europei, dalla irragionevole asimmetria regolatoria che le Telco sperimentano giornalmente nei confronti delle Big Tech / OTT.
Abbiamo da tempo raccomandato la predisposizione di un contesto favorevole al consolidamento in Europa e non c’è più tempo per ritardare tale adempimento.
Il DNA è fondamentale per questo in quanto sottolinea e propone quattro grandi obiettivi sintetizzati di seguito.
- Una nuova architettura di rete cui tendere, la quale è estremamente innovativa e trasformativa rispetto a oggi in quanto, non solo interviene, a completamento della trasformazione dell’accesso, con fibra FTTH e 5G stand alone, ma si estende alla trasformazione del backbone con la creazione dei nuovi POP con le tecnologie innovative di computing, in logica di Edge e Central Cloud, dove vengono allocate le funzioni di rete del control e user plane, oggi solo software, e le applicazioni dei clienti finali soprattutto in logica AI eseguita in ambito Edge. Vi poi è una terza direttrice che riguarda lo sviluppo e la resilienza del backbone con priorità ai cavi sottomarini ma in generale all’aggiornamento, sviluppo e protezione di tutte le principali direttrici dei collegamenti fisici tra le reti. Infine, c’è il tema della sicurezza dove viene indicato il nuovo paradigma Quantum (PQC e QKD) come strada da seguire e implementare.
- Una nuova stratega di gestione delle frequenze, costruita sulle ceneri dell’impostazione frammentata e opportunistica dei singoli stati della EU, che rinunci a fare cassa sull’assegnazione dello spettro per accorgersi anni dopo che nulla è stato fatto di quanto atteso, il caso del 5G, e che quindi si fondi piuttosto sui piani industriali di uso delle frequenze con i necessari obblighi di copertura e attivazione dei nuovi servizi. Tutti i soggetti del settore chiedono e propongono piani Europei di identificazione delle nuove frequenze, in primo luogo per il 6G, procedure di gara coordinate e focalizzate sullo sviluppo industriale delle reti successivo alle assegnazioni e durata delle licenze molto più lunghe di quelle attuali, visti gli investimenti di acquisto e di sviluppo che sono in gioco.
- Una nuova e decisa accelerazione della trasformazione dell’accesso nelle tecnologie VHCN (fibra, cavo, FWA) facilitata dallo switch off del rame. L’Europa, con tutti i suoi Stati Membri, ha stabilito gli obiettivi stringenti della Gigabit Society entro il 2030. Tali obiettivi, con la sola dinamica del mercato, non sono raggiungibili. Occorre velocizzare tecnicamente e politicamente l’abbandono della connettività basata sulla rete primaria e secondaria in rame. Come è noto la Spagna ha già raggiunto questo obiettivo dal 2024. Ora è necessario procedere in tutti gli altri Paesi. In Italia, ad esempio, il 60% delle linee usano la rete in rame pari a 12 milioni di linee. Nel 2024 le linee che hanno aderito a offerte con tecnologie VHCN sono state circa 1,4 milioni. Mantenendo questo ritmo e considerando il rallentamento dovuto alla progressiva prevalenza di linee in aree più remote del Paese, c’è il rischio di arrivare all’obiettivo Europeo in non meno di 10 anni. Quindi deve essere programmato in 5 anni al massimo lo switch off del rame. In questo caso gli Operatori non procederanno in modo spontaneo, procederanno a processi di decommissioning degli apparati di rete tradizionali ma non procederanno al totale superamento della rete in rame.
- Una nuova impostazione regolatoria orientata al ripristino delle condizioni di redditività del settore, ossia il consolidamento già citato, l’adozione delle sole regole ex-post e la rimozione delle principali asimmetrie presenti oggi sul mercato digitale.
Il dibattito è comunque molto acceso e gran parte dei cosiddetti Operatori alternativi si schierano contro alcuni principi del DNA e in particolare della prevista soppressione delle regole di analisi dei mercati ex ante.
Le prospettive che attendono l’Europa a seconda dell’esito del DNA
Ma oggi, come più volte ricordato, la scala è quella planetaria, la competizione è quella globale, la politica internazionale evidenzia scenari preoccupanti che suggeriscono un forte rafforzamento del concetto di EU, la trasformazione e l’innovazione profonda delle nuove reti richiede molti investimenti. Tutto ciò è incompatibile con la frammentazione e le attese delle analisi e decisioni di tutti.
Uno sguardo finale può essere rivolto alle prospettive che attendono l’Europa a seconda dell’esito del Digital Network Act. Lo scenario più favorevole è quello di una rapida approvazione entro il 2025 e di una sua attuazione coerente e ambiziosa. In questo caso l’Europa disporrebbe finalmente di un quadro regolatorio unitario capace di attrarre capitali, ridurre la frammentazione, accelerare lo switch-off del rame e garantire uno sviluppo ordinato delle reti 5G, 6G e delle architetture di calcolo distribuito. Le imprese avrebbero una base più solida per innovare e l’Unione potrebbe recuperare competitività nella corsa globale con Stati Uniti e Cina.
Un secondo scenario, più realistico ma anche più rischioso, è quello di un’approvazione con compromessi significativi. Se il DNA venisse annacquato per effetto delle resistenze nazionali sullo spettro, delle pressioni degli operatori alternativi sul tema ex-ante, o delle cautele eccessive nel rapporto con le Big Tech, si rischierebbe un quadro normativo a metà strada, incapace di correggere fino in fondo le debolezze attuali. In questo caso i miglioramenti ci sarebbero, ma insufficienti per colmare i gap su investimenti e scala industriale. L’Europa resterebbe in posizione difensiva e dipendente da attori extraeuropei per tecnologie e infrastrutture strategiche.
Infine, lo scenario peggiore è quello di uno slittamento o di un fallimento politico del DNA. Se la riforma venisse rinviata o svuotata al punto da non incidere realmente, l’Unione rischierebbe di perdere definitivamente la possibilità di recuperare terreno. La frammentazione regolatoria continuerebbe a frenare gli investimenti, i ritardi nello switch-off e nel deployment delle reti gigabit si accumulerebbero, e il continente resterebbe un mosaico di mercati nazionali debolmente coordinati. In questo contesto la leadership tecnologica e industriale europea verrebbe ulteriormente erosa, con effetti negativi non solo sull’economia digitale, ma anche sulla sovranità politica e sulla sicurezza.
Occorre procedere, il DNA è una pietra miliare, compito di tutti noi è approvarlo e implementarlo prima possibile confermando i quattro punti, le quattro pietre miliari, sintetizzate in questo paragrafo conclusivo. Il Digital Network Act non è soltanto una riforma regolatoria, ma l’atto fondativo di una nuova sovranità digitale europea: approvarlo subito significa decidere se l’Europa sarà protagonista o spettatrice della rivoluzione tecnologica globale.
[1] La Commissione ha però recentemente chiarito che l’imposizione di una “network fee” non è una soluzione percorribile, confermando che il DNA non prevederà costi diretti per l’utilizzo delle reti da parte dei grandi provider di servizi online.














