intelligenza artificiale

Perché l’IA ha bisogno della cultura umanistica: il modello Olivetti



Indirizzo copiato

Dal modello umanistico di Adriano Olivetti alla sfida dell’IA generativa: il digitale, sempre più pervasivo e opaco, impone nuove competenze critiche e retoriche per non diventare sudditi degli algoritmi e recuperare una leadership radicata nelle arti liberali

Pubblicato il 3 dic 2025

Andrea Granelli

Fondatore di Kanso, società di consulenza nell'innovazione e il change management



olivetti e ai (1)

La cultura olivettiana mette l’uomo al centro e attinge alla sapienza mediterranea e alle humanities per tenere a bada le derive derivanti dall’(ab)uso di dati e algoritmi. Questa formula è ancora più importante oggi per contenere e orientare lo strapotere dei dati e dell’IA generativa.

Il luminoso universo digitale si sta rabbuiando

Malgrado la sua enorme capacità di calcolo,
il computer è stupido nella misura in cui
gli manca la capacità di indugiare
(Byung-Chul Han, La società della stanchezza)

Il dilagare del digitale in ogni ambito della nostra vita – e, più recentemente, il suo potere trasformativo anche nel modo di condurre le guerre – richiede competenze e abilità che vanno oltre le mere capacità tecniche. Le grandi promesse del digitale, il cammino trionfante della nuova economia hanno lasciato il posto a un futuro sempre più distopico: criptomonete al servizio del crimine organizzato, attacchi massicci e devastanti degli hacker, fake news e uso spregiudicato dei social media in grado di ribaltare gli esiti elettorali, instupidimento e depotenziamento cognitivo legato all’uso compulsivo dell’IA generativa… fino alla cancellazione della classe media con la relativa esplosione incontrollata delle disuguaglianze economiche.

Questi lati oscuri nascosti dietro il funzionamento normale delle applicazioni digitali creano problemi soprattutto al neofita, aumentando il suo già naturale disorientamento verso qualcosa che è nuovo, potente e in continua trasformazione. Non ha infatti elementi per capire se ciò che sta facendo è utile (come atteso) oppure dannoso; se il funzionamento non previsto dipende da lui o da “qualcos’altro”; se l’anomalia evidente è causata da una rottura oppure è il prodotto di un’azione maligna

Adriano Olivetti innovazione e ombre del digitale

Un solo studio è davvero liberale e fa veramente l’uomo libero:
lo studio della saggezza, che è sublime, forte, generoso;
gli altri sono sciocchezze. (Seneca, Lettere a Lucilio)

Le arti liberali – e più in generale le humanities – hanno affascinato molti tecnologi illuminati. Adriano Olivetti, ad esempio, notava che la presenza di intellettuali, psicologi e letterati era trasversale e necessaria anche in un’industria a elevato contenuto tecnologico, in quanto contribuiva a un progresso equilibrato dell’impresa ed evitava gli eccessi del tecnicismo, ridando senso e bellezza a oggetti tecnici sempre più complessi. Dal canto suo Steve Jobs fu ancora più esplicito. Durante la Apple Worldwide Developers Conference (WWDC) del 2010 affermò: «Il motivo per cui Apple è in grado di creare prodotti come l’iPad è che abbiamo sempre cercato di stare all’intersezione tra tecnologia e arti liberali».

Questa vicinanza delle arti liberali al pensiero manageriale c’è da qualche decennio, anche se l’abbiamo dimenticata e tendiamo a considerarla una conquista recente. Nell’articolo Liberal Arts as Training for Business, pubblicato su «HBR» nel lontano 1955, F. E. Pamp Jr. notava: «Le richieste poste al management sono state storicamente quantitative. Con l’automazione e il computer, queste richieste stanno cambiando. I dirigenti ora hanno bisogno di una maggiore profondità intellettuale che deriva solo da un’istruzione orientata alle arti liberali».

Volendo dare un’ulteriore angolatura alla potenza, spesso inattesa, delle arti liberali e della cultura umanistica, è interessante richiamare un passo dell’Introduzione alla retorica di Olivier Reboul, dove l’autore ricorda che Charles De Gaulle, commentando cosa Aristotele potesse aver “insegnato” – come precettore – ad Alessandro Magno, osservò: «La potenza dello spirito implica una diversità che non si trova nella pratica esclusiva del mestiere. […] La vera scuola del comando è nella cultura generale. Attraverso di essa, il pensiero è messo in grado di esercitarsi con ordine, di distinguere nelle cose l’essenziale dall’accessorio, di cogliere gli effetti e le interferenze, in definitiva di elevarsi al livello in cui gli insiemi si configurano nel loro complesso senza pregiudicare la percezione delle sfumature. Non si diventa un condottiero illustre se non si possiede il gusto e il sentimento del patrimonio dello spirito umano. In fondo alle vittorie di Alessandro, si ritrova sempre Aristotele».

Questo ritorno dell’importanza delle arti liberali è anche un segnale che ci dice che la competenza non è tutto. Il carattere e la sapienza, di cui l’intelligenza emotiva è una componente rilevante ma non l’unica, stanno pian piano riemergendo come elemento centrale dell’arte della guida. Non bastano più la formazione o l’in-formazione: serve la tras-formazione, il cambiamento del mindset, il modo con cui guardiamo, soppesiamo e valutiamo noi stessi e le cose che ci circondano.

Infatti, come ci ricorda Marcel Proust nella sua Recherche, la trasformazione è un cambio di mentalità che agisce non solo sulle competenze ma soprattutto sul carattere, sui valori e sulle attitudini, cambiando anche il nostro sguardo: «L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi».

Arti liberali e pensiero critico nel mondo digitale

Abbiamo portato in tutti i villaggi le nostre armi segrete:
i libri, i corsi, le opere dell’ingegno e dell’arte.
Noi crediamo nella virtù rivoluzionaria della cultura
che dona all’uomo il suo vero potere
(Adriano Olivetti, Il cammino della Comunità)

È proprio il futuro la chiave per comprendere Adriano Olivetti e la sua spinta quasi compulsiva verso una continua esplorazione e innovazione: «È vero che non siamo immortali: ma a me pare sempre di avere davanti un tempo infinito. Forse, perché non penso mai al passato, perché non c’è passato in me; in me non c’è che futuro».

Una curiosità: l’espressione «in me non c’è che futuro» forse non è mai stata pronunciata da Adriano Olivetti, ma ben coglie il suo spirito e ha intitolato un famoso docu–film sulla sua vita realizzato da Michele Fasano.

In un’intervista, Adriano Olivetti spiega: «In fabbrica si tengono continuamente concerti, mostre, dibattiti. La biblioteca ha decine di migliaia di volumi e riviste di tutto il mondo. Alla Olivetti lavorano intellettuali, scrittori, artisti, alcuni con ruoli di vertice. La cultura qui ha molto valore».

L’innovazione mediterranea di Adriano Olivetti

Nel 2008, in occasione delle celebrazioni per il centenario della fondazione della società Olivetti, l’Archivio Storico Olivetti ha elaborato una sintesi del pensiero olivettiano identificando sette valori fondativi. Per la loro completezza li riportiamo integralmente:

I sette valori di innovazione secondo Adriano Olivetti

  1. Visione del futuro: progettare il futuro non subirlo, non ancorarsi all’esistente che oggi può sparire overnight. Non limitarsi all’oggi, ma guardare avanti in modo continuativo, quasi ossessivo, cercando di capire dove vanno i mercati, la domanda, la tecnologia prima di altri. Avere, come Adriano Olivetti, una curiosità insaziabile di capire attraverso i settori, attraverso le tecnologie, attraverso le culture, viaggiando, imparando sempre da quanto avviene intorno, con ottica interdisciplinare.
  2. Intelligenza che innova: avere la capacità di utilizzare le risorse strategiche rappresentate dalla conoscenza, dal know how, dalla creatività delle persone all’interno dell’azienda (competenze e conoscenze spesso ignorate o scarsamente condivise) e nell’ecosistema di partner, fornitori, clienti, filiere. L’innovazione posta al centro dello sviluppo, la conoscenza intelligente e condivisa con tutti che genera creatività e innovazione in modo continuativo. È l’innovazione che crea sviluppo; non basta aumentare la produttività senza innovazione; si crea maggiore efficienza ma non vero sviluppo.
  3. Ricerca e libertà creativa: ricerca aperta, di scambio e di partecipazione (non più intramuros), con laboratori universitari a livello mondiale con l’aiuto delle reti internet. Dare spazio alla libertà di pensare e creare da parte di tutti, divenendo una comunità di pratica all’interno e con tutti gli stakeholders per la condivisione di conoscenze. Nella Società della Conoscenza, la conoscenza condivisa è la materia prima delle organizzazioni, in forma di Open Innovation, Shared Knowledge. Amplificare la capacità di utilizzare le risorse strategiche rappresentate dalla conoscenza, dal know how, dalla creatività delle persone all’interno dell’azienda e nell’ecosistema di partners, fornitori, clienti, filiere.
  4. Cultura del cambiamento: non fermarsi mai ai risultati raggiunti, ma ripartire ogni giorno come fosse il primo. Mai contare sulle posizioni di rendita che uccidono l’innovazione e portano al fallimento. Diffondere la cultura del cambiamento, l’ansia del cambiamento continuo, anticipare e non subire passivamente il cambiamento che comunque il mercato impone. Gestire ogni giorno, ogni minuto il cambiamento che è l’unica certezza in un contesto di incertezza.
  5. Coscienza sociale: l’impresa che pensa ed agisce come monade isolata non ha futuro. L’esperienza di Adriano Olivetti ha dimostrato chiaramente che coniugare strettamente impegno sociale, partecipazione, etica responsabile con la gestione efficiente dell’impresa non è affatto utopia, ma crea produttività, innovazione, forte competitività e produzione di ricchezza. Il raggiungimento del bene individuale non può prescindere dalla ricerca del bene comune. Il vero imprenditore conosce molto bene il valore del bene comune rappresentato dal territorio in cui le imprese operano, un fattore decisivo per il successo aziendale. La partecipazione al bene comune, l’etica comportamentale paga, diviene valore fondamentale dell’ecosistema in cui opera l’impresa.
  6. Forma, bellezza e tecnologia: la bellezza non è un concetto astratto, è legata all’idea di stile, uno stile che ha sempre caratterizzato la Olivetti, dalla progettazione e design dei prodotti, alle fabbriche, alle case dei dipendenti, alla grafica e comunicazione, alla cultura diffusa tra i dipendenti. Uno stile da diffondere all’esterno, nel mercato, con i prodotti, con i servizi, con i negozi, con le fiere. Rendendo la tecnologia una forma da ammirare ed utilizzare con passione ed emozione. Innovazione tecnologica e bellezza delle idee e dei prodotti devono vivere assieme.
  7. Apertura sul mondo: innovazione e internazionalizzazione sono elementi fortemente integrati, sono due facce della stessa medaglia che richiedono di operare in modo congiunto. È una lezione importante che viene dalla storia olivettiana ed è oggi centrale per le imprese italiane. Le imprese, se intendono innovare ed essere competitive, devono puntare senza timore ad una dimensione internazionale, misurandosi continuamente su quanto avviene nei mercati più innovativi e in forte crescita. Non da multinazionali colonizzatrici ma da partner integrati con i valori e le culture locali, con una logica olivettiana del think global and act local.

Camillo e Adriano Olivetti tra lavoro e innovazione sociale

La figura di Adriano Olivetti non può essere pienamente compresa se non si estende lo sguardo a suo padre – e suo educatore – Camillo. Tre riflessioni ci sembrano particolarmente potenti per caratterizzare la sua visione e l’imprinting che ha lasciato a suo figlio Adriano:

• «La macchina per scrivere non deve essere un gingillo da salotto, con ornamenti di gusto discutibile, ma deve avere un aspetto serio ed elegante nello stesso tempo»

• «È necessario che i capi stiano in officina almeno un’ora in più degli operai per studiare il lavoro. La vita di chi si dedica all’industria con un certo grado di idealismo è ingrata e difficile.»

• «Tutta la mia vita e la mia opera testimoniano anche – io lo spero – la fedeltà a un ammonimento severo che mio padre quando incominciai il mio lavoro ebbe a farmi: “ricordati – mi disse – che la disoccupazione è la malattia mortale della società moderna; perciò ti affido una consegna: tu devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbrica non abbiano da subire il tragico peso dell’ozio forzato, della miseria avvilente che si accompagna alla perdita del lavoro”. E il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva e non giovi a un nobile scopo

Intelligenza artificiale e nuove competenze per l’innovazione

Il pericolo del passato era
che gli uomini diventassero schiavi.
Il pericolo del futuro è che gli uomini
possano diventare robot
(Erich Fromm, Psicanalisi della società contemporanea)

Non si può concludere una riflessione su digitale e competenza senza menzionare la sfida dell’IA generativa.

Sulle potenzialità dell’IA si è scritto molto. Può essere utile, allora, sottolineare l’aspetto che rende potenti e stupefacenti le piattaforme IA generative: si tratta della loro capacità combinatoria, e cioè riuscire a generare novità combinando in modo creativo cose conosciute.

Il tema è noto fin dal medioevo; basti pensare alla Ars magna, il metodo inventato dal teologo e filosofo catalano Raimondo Lullo tramite il quale si potevano collegare in una sorta di logica meccanica concetti fondamentali in modo da acquisire verità in ogni campo del sapere.

Italo Calvino, nelle sue Lezioni americane (Molteplicità), osserva: «il miracolo di una poetica, apparentemente artificiosa e meccanica, che tuttavia può dare come risultato una libertà e una ricchezza inventiva inesauribile».

E Carlo Rovelli – in un articolo sul «Corriere della Sera» (L’eremita che immaginò il computer, 9 ottobre 2016) – spiega da cosa nasce questo nostro stupore che si origina dalla potenza disarmante della combinatoria: «la nostra intuizione arretra di fronte agli immensi numeri e alla sterminata varietà generati dalle combinazioni. Ci sembra impossibile che combinando cose semplici possano nascere tante cose e tanto complesse».

Queste potenzialità rese possibili dall’IA generativa dimostrano quanto il digitale non sia una tecnologia “superficiale”, ma qualcosa capace di trasformare il nostro modo di essere, di pensare, di accedere e usare i nostri ricordi; ha quindi un impatto molto rilevante sulla nostra vita. Oltretutto è anche difficile parlare di digitale e valutarlo in modo obiettivo perché – soprattutto con l’Intelligenza Artificiale – viene coinvolto direttamente anche il nostro linguaggio e la produzione e scambio della conoscenza che ci definisce e caratterizza.

Platone, eidola legomena e language model persuasivi

Interessante è richiamare allora quanto Platone, nel Sofista, fa dire allo Straniero di Elea (l’attuale Velia, in provincia di Salerno): «noi dobbiamo pensare che ci sia anche un’altra arte [capace di imitare la realtà, come la pittura], un’arte dei discorsi, per cui sia pure possibile, con i discorsi appunto questa volta, incantare le orecchie dei giovani e di quelli ancora molto lontani dal conoscere la realtà delle cose, mostrando loro immagini parlate [eidola legomena] di tutto e in modo da ingenerare in loro l’opinione che chi parla dice la verità e che su tutto è il più sapiente di tutti?».

Sembrerebbe una riflessione sull’IA – o meglio l’estratto di una riunione interna di una delle aziende che stanno lanciando sul mercato le nuove piattaforme dell’IA generativa. È invece un’intuizione che risale a circa 2.300 anni fa.

Perché la finalità ultima delle piattaforme d’IA generativa non è tanto la produzione di conoscenza, di sistemi esperti, quanto la realizzazione di un linguaggio potentissimo – detto language model – capace di adattarsi ad ogni interlocutore che le interroga e di persuaderlo della correttezza delle loro risposte.

Una sorta di “certificato oracolare” che assicura a queste tecnologie di poter persuadere senza dover dimostrare né la coerenza di ciò che dicono né l’attendibilità delle fonti a cui attingono – che infatti rimangono sempre nascoste.

Il cuore del sistema è dunque il language model e l’obiettivo dell’allenamento è dare in pasto alla piattaforma miliardi di frammenti di conversazione online per allinearsi e diventare familiare con i linguaggi della Rete e con ciò che piace (e genera “like”) e, in ultima istanza, rafforzare il proprio armamentario linguistico in senso persuasivo per arrivare a costruire ciò che Cicerone chiamerebbe captatio benevolentiae digitale.

Competenze critiche per usare l’IA senza subirla

Che competenze dobbiamo allora sviluppare per usare al meglio questi sistemi senza esserne (ab)usati? Non solo e non tanto le competenze tecniche – che sono condizione necessaria ma non sufficiente – quanto il pensiero critico e le abilità retoriche che ci consentono di smascherare le manipolazioni linguistiche, evidenziare i buchi logici o i ragionamenti fallaci, investigare la qualità delle fonti e i livelli di attendibilità delle risposte.

L’intelligenza artificiale, quindi, rimette al centro la cultura umanistica nel senso più autentico, e cioè i saperi attorno all’essere umano, ciò che dobbiamo sapere per conoscerci. L’intuizione di Adriano Olivetti è dunque sempre più valida.

Inoltre, la potenza di queste tecnologie aumenta il rischio che cadano in mani sbagliate. La scena finale de Il dottor Stranamore, in cui il Maggiore T.J. “King” Kong sgancia l’atomica cavalcandola come un cowboy nel rodeo, è sempre nei nostri occhi.

Tre ulteriori aspetti del digitale, infine, sono particolarmente subdoli e potenzialmente perniciosi e andranno pertanto presi in considerazione con particolare attenzione. In conclusione di questo articolo mi limito a citarli:

  1. il depotenziamento cognitivo;
  2. gli utenti “wrongdoer”;
  3. i temi (algor)etici.

Dobbiamo pertanto riflettere maggiormente su un’osservazione formulata nel lontano 1959 da Martin Heidegger: «Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo».

Per chi volesse approfondire questi temi, li può trovare in un libro di recente pubblicazione – Anima mediterranea. Leadership come arte della guida – scritto insieme a Elena Granata (edizioni Luca Sossella).

guest

0 Commenti
Più recenti
Più votati
Inline Feedback
Vedi tutti i commenti

Articoli correlati