gli studi

A che serve la cultura umanistica nell’era della tecnologia

La tecnologia vuole diventare cultura e l’uomo appare sempre più “obsoleto”. Si va delineando all’orizzonte una guerra ideologica fra tecno-scienza e umanesimo mentre per contro continuano a crescere gli studiosi convinti che senza cultura umanistica non sia possibile affrontare le sfide della società contemporanea

Pubblicato il 28 Dic 2017

Davide Bennato

professore di Sociologia dei media digitali all’Università di Catania

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Nel suo saggio-pamphlet Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, il grande studioso americano Neil Postman osservava acutamente che gli strumenti tecnologici non sono integrati nella cultura, bensì puntano a diventare la cultura. Per questo motivo elementi come tradizione, costumi, miti, politiche, rituali e religione devono combattere per la loro sopravvivenza. È successo con la stampa di Gutenberg, che ha intaccato la cultura orale, è successo col telescopio galileiano che ha messo in dubbio i fondamenti della religione cristiana.

In queste parole si sente l’eco di un altro grande autore esperto di media come Marshall McLuhan, il quale sosteneva con un fortunato aforisma che “il medium è il messaggio”, ovvero un mezzo di comunicazione non ha bisogno necessariamente di avere un contenuto, perché già da solo è portatore di un significato sociale e culturale. A leggere queste parole nel XXI secolo sembra che la visione critica della tecnologia abbia avuto la meglio: non passa giorno che l’intellettuale di turno tuoni contro gli smartphone, i selfie, i social media e tutto l’ecosistema l’attrezzatura socio-tecnologico a cui ci siamo abituati. Effettivamente sembra che la dimensione umanistica della cultura sia venuta meno, l’uomo non è più al centro del creato – come voleva il neoplatonismo diffuso nel rinascimento – e stanno prendendo forma nella società nuovi soggetti come algoritmi, robot, reti e altri dispositivi tecnologici, tanto che diversi studiosi parlano dell’imporsi di una cultura post-umana, una cultura in cui – per dirla con uno slogan – l’uomo è obsoleto.

La battaglia tra scienza e cultura umanistica

Si va delineando all’orizzonte una guerra ideologica fra tecno-scienza – un sistema in cui scienza e tecnologia sono fuse insieme – e umanesimo – uno spazio in cui l’espressione simbolica umana (filosofia, letteratura, arte) ha un ruolo centrale.

C’è un preciso campo di battaglia di questa versione aggiornata delle due culture come le chiamava Charles Snow, ed è la formazione, scolastica o universitaria che sia. Perché imparare il latino quando è la programmazione il linguaggio dominante del mondo contemporaneo? Perché conoscere la filosofia quando sono gli algoritmi che guidano la società odierna? La risposta è semplice: perché la programmazione senza latino è routine, gli algoritmi senza filosofia sono macchine stupide con effetti inattesi e perciò pericolose. Lungi dall’essere una difesa d’ufficio della discipline umanistiche, questo tema è diventato centrale nel dibattito culturale proprio nel posto dove meno sembrava che questa idea potesse attecchire: Silicon Valley. La Harvard Business Review lo scorso luglio ha pubblicato un articolo dall’eloquente titolo “Liberal Arts in the Data Age”, in cui si poneva la stessa domanda: servono ancora le conoscenze umanistiche in un’epoca di informatica onnipresente? La risposta: non solo servono, ma sono diventate indispensabili.

Perché serve la cultura umanistica nella società contemporanea

Questa idea prende le mosse da una serie di libri di business e management usciti nella prima metà del 2017 che hanno sollevato una serie di tematiche nel mondo dell’imprenditoria americana ed ognuno di essi pone questioni che possono essere affrontate solo con la cultura umanistica. Scott Hartley è un venture capitalist autore del bestseller The Fuzzy and the Techie, il quale sostiene che senza la cultura umanistica non è possibile affrontare le sfide – economiche, ma non solo – della società contemporanea.

Il titolo del libro prende le mosse dai suoi studi di Political Science a Stanford, dove i fuzzy erano le persone con una laurea in discipline umanistiche o scienze sociali, mentre i techie erano persone con un degree in computer science. Hartley usa diversi esempi per sottolineare la centralità della cultura umanistica nell’economia ultra-tecnologica della società contemporanea. Un esempio è quando elenca le lauree di alcuni dei protagonisti dell’economia tecnologica globale: Stuart Butterfield (cofondatore di Flickr e Slack) ha una laurea in filosofia, Jack Ma (il patron di Alibaba) è laureato in Letteratura Inglese, Susan Wojcicki (CEO di YouTube) in Storia e Letteratura, Brian Chesky (co-fondatore di Airbnb) è laureato in Belle arti. Se il libro di Hartley può sembrare un testo frutto dell’infatuazione di Silicon Valley per le SSH (social science and humanities), esistono anche analisi scientifiche. Gary Saul Morson e Morton Schapiro sono i due autori di Cents and Sensibility, che hanno messo insieme le loro diverse competenze – il primo è docente di letteratura slava alla Northwestern University, il secondo è un docente di economia e presidente della stessa Northwestern – per affermare che le scienze umane e sociali offrono agli economisti competenze in grado di produrre previsioni migliori, modelli di analisi realistici e politiche strutturate.

La competenza che le SSH forniscono agli economisti è la narrazione: infatti se gli economisti leggessero i grandi romanzieri riuscirebbero a ottenere la saggezza necessaria per superare le visioni astratte dell’uomo e della società di cui l’economia è spesso intrisa. Su una linea simile, ma molto più vicino alla sensibilità del management è Sensemaking di Cristian Madsbjerg, fondatore della società di consulenza aziendale ReD che si avvale di sociologi, antropologi e filosofi per svolgere le sue analisi. Madsbjerg nel suo libro afferma che nel modo attuale di fare business l’ossessione per i dati potrebbe avere delle conseguenze nefaste per l’umanità, non solo per gli affari, e che questi ultimi necessitano di una profonda conoscenza della cultura piuttosto che dei numeri. Fra i vari esempi cita il caso della Lincoln, il luxury brand della Ford. I manager avevano grosse difficoltà per penetrare in un mercato come quello cinese nonostante i forti investimenti. Dalle analisi socio-culturali fatte, emerse che in Cina l’auto non è solo un mezzo di trasporto, ma è anche uno spazio sociale per intrattenere gli ospiti e i partner di affari.

Questa scoperta portò ad una completa rielaborazione delle strategie comunicative e di marketing con la conseguenza che la Lincoln nel 2016 triplicò le sue vendite in Cina. Questi libri mostrano essenzialmente una cosa, che nel XXI secolo c’è spazio per la cultura umanistica in tutte le sue forme, basta che sappia confrontarsi con la società contemporanea e non sia solo un modo sterile per affrontare il passato, ma una strategia attiva per comprendere il presente. D’altra parte a nulla vale raccogliere enormi quantità di dati se non c’è un orizzonte interpretativo in grado di attribuirne il senso. Se la conoscenza scientifica e tecnologica consente di raccogliere informazioni dettagliate sui processi complessi di oggi, è la conoscenza umanistica in grado di collocare queste informazioni in un quadro più ampio.

Viviamo in tempi complessi, tutte le forme di conoscenza sono chiamate a collaborare se disposte a lasciare la propria confort zone.

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