Sviluppo e disuguaglianze

Intelligenza artificiale: tante chiacchiere e fantasia, ma si parla poco di lavoro

È acceso il dibattito sul rivoluzionario rapporto tra intelligenza artificiale, automazione e mondo dell’impiego, che potrebbe anche portare alla perdita di posti di lavoro. Di queste implicazioni si parla troppo poco, per lasciare spazio invece a cose che rasentano la fantascienza

Pubblicato il 24 Ago 2022

Pierluigi Casolari

founder di Unconventional Road, autore di Startup 3.0, blog su startup, innovazione e web 3.0

intelligenza artificiale ai act

Quello dell’IA non è un mercato piccolo e dovremmo parlarne molto di più. Ma dovremmo anche e soprattutto parlarne meglio.

Non solo per implicazioni culturali e filosofiche, che ora occupano i media e il dibattito pubblico; ma anche quelle sociali ed economiche.

Per esempio, parlando del rapporto tra IA e lavoro, il grande tema dietro l’angolo è quello del reddito universale (universal basic income). L’IA potrebbe salvare la produttività, ma al prezzo di distruggere posti di lavoro. Chi salverà dunque il consumo? Non ci sono molte alternative dietro l’angolo, se non una grande, aperta e ponderata riflessione sul reddito universale: quali bisogni deve coprire, dove troviamo le risorse finanziarie a copertura e attraverso quali strumenti dovrebbe venire distribuito.

Possiamo immaginare un mondo in cui parte dei profitti delle aziende vengono trasformati in reddito universale per consentire di acquistare i prodotti realizzati dalle stesse aziende? Dovremmo cominciare a pensare a questi scenari, mettendo per un momento tra parentesi il tema di quanto dovremmo essere gentili con i software di IA.

Se fosse vero che c’è una intelligenza artificiale senziente

I numeri di mercato e il cattivo sillogismo del caso Lemoine

Di IA in verità si parla a singhiozzo e in modo poco scientifico. La storia di Blake Lemoine, l’ingegnere di Google messo in congedo retribuito dall’azienda per divergenze ideologiche sulla presunta coscienza di LaMDA, il programma di intelligenza artificiale di Google per le conversazioni online, ha fatto il giro del mondo. Ha alzato il polverone sulla presunta capacità delle intelligenze artificiali di essere senzienti, sensibili e consapevoli. E poi è tornato tutto dentro i laboratori delle grandi aziende, lasciandoci però l’illusoria convinzione di essere anche filosofi in grado di discutere di coscienza e incoscienza dei software.

Secondo un rapporto di Grand View Research, il mercato dell’intelligenza artificiale ha generato volumi d’affari per quasi 100 miliardi di dollari nel 2021 e proietta una crescita del 30% anno su anno fino a superare i 1000 miliardi di transato nel 2030. Stiamo parlando dunque di un mercato che confina per grandezza con quello della pubblicità e di Big Pharma.

Blake Lemoine ha sollevato davvero un grande polverone dicendo che LaMDA ha la sensibilità di un bambino di 6 anni, è consapevole di sé e vuole solo fare del bene all’umanità. Colpisce tuttavia l’ingenuità in queste affermazioni: se questi programmi di IA per le chat vengono realizzati per simulare in tutto e per tutto il comportamento linguistico naturale e umano, come è possibile che poi ci si sorprenda che sembrino umani?

Suona davvero come un cattivo sillogismo. L’IA linguistica viene progettata per superare il test di Turing e poi si grida al miracolo se lo supera? Turing, tanto per intenderci, era uno straordinario matematico inglese che negli anni 40 dello scorso secolo, aveva progettato un test per capire se l’interlocutore di una conversazione fosse umano o un calcolatore elettronico.

Alan Turing ha dato un contributo immenso allo sviluppo dell’informatica e della – a lui – futura intelligenza artificiale. Il test di Turing però, come suggerisce Yuval Harari, è progettato per agenti che intendono ingannare l’interlocutore. Gli ingegneri che sviluppano questi programmi ragionano in termini di dissimulazione dell’identità: come possiamo far credere alle altre persone che il nostro software sembri umano?

Le implicazioni economiche del test di Turing: il caso dei call center

Le potenzialità di questo modello di sviluppo sono immense. E a Google, Amazon, IBM la componente filosofica di queste implicazioni interessa molto poco. Ma le implicazioni economiche interessano eccome. Si pensi ai call center. Io non ricevo più telefonate da venditori di servizi di trading online e criptovalute. Ricevo tuttavia quotidianamente messaggi automatici e gestiti tramite programmi di intelligenza artificiale.

Dall’altra parte della cornetta non ci sono più persone, ma software di IA, integrati a database di clienti, che cercano di vendermi servizi vari. Stanno rivoluzionando il settore. Ma l’esperienza utente è deludente: la voce è finta, i sistemi di conversazioni sono rigidi (rispondi “sì” se vuoi continuare, rispondi “no” se non vuoi ricevere altre telefonate) e la sensazione di pensare che i venditori umani siano molto più bravi è davvero forte.

Immaginiamoci però un futuro prossimo, in cui questi programmi di conversazione vocale abbiano voci suadenti e siano in grado di sostenere conversazioni complesse, rispondendo a domande sul servizio che propongono e sull’azienda “per cui” lavorano. Potrebbe essere una rivoluzione per il settore. Il mondo dei call center potrebbe trasformarsi e sgretolarsi tramite l’evoluzione dell’IA. Ma prima di riflettere sulle implicazioni di questo, e sono tante, proviamo per un attimo a ragionare a 360 gradi sugli scenari che ci si stanno parando davanti agli occhi.

La rivoluzione dell’IA su automazione e produttività

È a livello industriale che le trasformazioni prodotte dalla IA potrebbero essere più rivoluzionarie: dai call center alla logistica, dalle consegne per l’e-commerce alle auto che si guidano da sole, dai programmi di scrittura e traduzione agli algoritmi dei social, che sono a tutti gli effetti programmi di intelligenza artificiale.

È in questi ambiti che Big Tech investe miliardi e trapela un certo nervosismo nel settore. Oltre a Blake Lemoine, sono diversi i manager e direttori di programmi di IA di Google e altre aziende licenziati per divergenze d’opinione. La sensazione è che non siano solo le IA a dissimulare la loro identità, ma anche le grandi aziende non vogliono che si guardi troppo dentro a quello che stanno facendo.

Il problema non è tanto la presunta coscienza dei nuovi programmi di IA e di aziende come Open AI che promettono di realizzare programmi di intelligenza artificiale forte, ovvero in grado di comprendere e realizzare qualunque problema e compito tipicamente umano. Il problema è di tipo socio-economico.

La grande sfida dell’IA non è creare mogli artificiali o sostituire animali di compagnia come nei romanzi di Philip Dick. Mancano gli investimenti per questi programmi di ricerca. La grande rivoluzione è invece quella dell’automazione e della produttività.

Intere industrie, che in questo momento languono alla ricerca del break even, potrebbero trasformarsi definitivamente in conquiste dell’umanità: logistica automatizzata, consegne tramite droni, auto che si guidano da sole. Ma il prezzo da pagare è altissimo.

Come i ragazzi dei call center che hanno i giorni segnati, in attesa che LaMDA vada in produzione, quanti milioni di persone rischiano di perdere il posto di lavoro a causa di questa rivoluzione? E non ci sono facili soluzioni, perché l’economia deve andare avanti e fermarla sarebbe devastante.

Big Tech sta investendo miliardi per trovare soluzioni nel campo della produttività. Con i droni, Deliveroo e Just Eat finalmente raggiungeranno il profitto. Con le voci suadenti digitali, le aziende che vendono servizi digitali finalmente potranno abbattere i costi di vendita e raggiungere il break even point.

La perdita dei posti di lavoro tradizionali

Secondo varie ricerche nel corso dei prossimi 20 anni, in Europa si perderanno almeno 5 milioni di posti di lavoro per l’automazione. Ma si tratta di stime approssimative. L’industria che crescerà di più sarà proprio quella dell’automazione e dell’IA. Un’industria strategica che serve per far funzionare le altre.

Ma ad un prezzo, quello di ridurre sensibilmente il numero di persone necessarie negli altri settori. È questo il grande dibattito su cui dovremmo tutti essere chiamati a riflettere, ragionare e dire la nostra. Il mondo del lavoro sta trasformandosi.

L’industria per andare avanti (e deve farlo) deve automatizzare i processi. L’IA è il settore chiave per rendere possibile questa trasformazione e per progettare una via d’uscita realistica. Ma decine, centinaia di milioni di posti di lavoro potrebbero essere letteralmente appesi al chiodo per tramite di questa automazione.

Che fare? È evidente che il dibattito dovrebbe spostarsi dalla coscienza dell’IA al tema dell’automazione come sostituzione del lavoratore. L’unica coscienza a rischio è quella del lavoratore, potremmo dire con Marx. Ma questo è necessariamente un male? Si, se non si interviene per tempo. No, se cominciamo a pensarci con anni di anticipo.

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