vita da social

Comunicare bene in rete, le regole (che tutti dovrebbero seguire) per una internet migliore

Consigli e pratiche utili per parlare di noi stessi, di ciò che accade e con gli altri in rete nella maniera più corretta a seconda del contesto in cui ci si trova. Evitando di cadere in fake news (e alimentarle), dare un’immagine sbagliata di sé e contribuire all’inquinamento di parole e relazioni online

Pubblicato il 29 Gen 2019

Vera Gheno

sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall'ungherese. Docente a contratto presso l'Università di Firenze, collaboratrice Zanichelli

Bruno Mastroianni

Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze

hatespeechis

Il passaggio da una rete di élite all’internet di tutti è avvenuto in maniera precipitosa nel giro di un tempo relativamente breve. E non è stato affatto indolore. Forse particolarmente nel 2018 è emersa, in tutta la sua forza, l’evidente immaturità di (parte di) noi utenti – come neopatentati alla guida di una Ferrari – di fronte a uno strumento così potente.

Hate speech, cyberbullismo, fake news, trappole, pericoli e insidie della rete sembrano predominare rispetto ad altri aspetti del tutto benefici della rete.

Il fatto che la comunicazione in rete sia, insomma, problematica, pare essere stato recepito un po’ da tutti: internet non è sicuramente un gioco, e va usata con cautela.

In molti utenti, come reazione, sorge il desiderio di disintossicarsi, fuggire dal web e dai social come da un luogo di appestati. Ma è davvero questa la soluzione, o si può anche provare a trovare una via per una vita digitale il più possibile sana e soddisfacente dal punto di vista delle relazioni sociali?

Vivere felici e connessi, ma come?

Se da una parte la voglia di spegnere, vietare e sanzionare è una reazione comprensibile di fronte a qualcosa che si percepisce come potenzialmente pericoloso, se sapere che i propri figli, almeno a scuola, sono al sicuro dalle insidie della rete è un pensiero consolante, se a casa chiedere ai familiari di poggiare i propri telefonini e “stare insieme” pare la cosa giusta da fare, quasi la via per il ritorno a una socialità sana e vera, ognuna di queste manovre non fornisce una reale soluzione al problema che tutti, chi prima chi dopo, si troveranno davanti: come fare, una volta acceso il proprio strumento elettronico, a usarlo in maniera intelligente, costruttiva e utile? In altre parole, come fare per vivere felici e connessi?

Pensare di avere una risposta a questa domanda è già di per sé una specie di atto di hybris, ossia di tracotanza: il panorama è già ricchissimo di opere di ogni genere e formato che danno ottimi consigli più o meno tecnici, più o meno luddisti, su come gestire la rete e gestirsi in rete. Ciononostante, incoraggiati dalla nostra esperienza di abitanti di lungo corso delle piattaforme di socializzazione elettronica e dal confronto (non sempre pacifico) con centinaia di persone di ogni genere incontrate nel corso degli ultimi due anni in scuole, associazioni, aziende, festival, presentazioni ed eventi, abbiamo deciso di unire le forze per scrivere un piccolo manuale che illustri la nostra particolare via per la conquista della serenità in rete: Tienilo acceso, appunto.

Un cambiamento alla portata di tutti

Il cuore della questione è l’idea che i problemi che si incontrano abitando internet e i social siano di tutti, e che alla portata di tutti sia anche la possibile soluzione a essi. Se si resiste alla tentazione di pensare che non è colpa nostra, che siano questioni distanti da noi (come se, per dirne una, gli hater fossero sempre gli altri) o troppo grandi per essere alla nostra portata, delegando quindi l’intero onere della soluzione a governi o multinazionali (“Scriverò a Facebook protestando per il fatto che fanno girare notizie false. Come facciamo noi che non abbiamo strumenti a distinguerle dalle vere?”), rimane una strada sicuramente onerosa e tutt’altro che immediata, ma alla portata di tutti: occuparsi personalmente della qualità della propria vita in rete.

Con alcune attenzioni, ogni persona può contribuire alla nascita di un circolo virtuoso, piccolo o grande che sia, ma che può ingenerare un cambiamento, un’increspatura nella rete come la conosciamo.

Ripartire dalla parola

È un cammino che sicuramente comporta uno sforzo costante e prolungato – e questo lo rende già di per sé meno appetibile delle “cinque regole per avere successo in rete” o dei “dieci passi per rinunciare ai propri profili social” –, ma che parte da una competenza che abbiamo tutti noi, esseri umani, semplicemente in quanto tali, e che spesso diamo per scontata: la parola. In situazioni normali, impariamo a parlare molto precocemente; per questo motivo, il fatto stesso di possedere uno strumento potente e avanzato per la comunicazione e la trasmissione del sapere quale il linguaggio viene considerato “naturale”, e raramente si riflette sulla capacità della parola di costruire o distruggere mondi.

Nel corso degli anni scolastici, si lavora alacremente alla descrizione e comprensione del sistema linguistico e delle norme che lo regolano; tuttavia, concentrandosi soprattutto sulla parte normativa, spesso viene tralasciata la dimensione metalinguistica: cosa possiamo davvero fare con le parole? A cosa ci servono? Che cosa dicono di noi e del mondo in cui viviamo?

Una questione metalinguistica

Ritenendo necessario un approfondimento della riflessione sulla lingua, la prima parte di Tienilo acceso è intitolata “Parole al centro”: in essa si riflette sulla centralità della competenza linguistica, partendo dal fatto che la cosiddetta comunicazione deragliata non è frutto della rete e dei social network di per sé, ma è un prodotto completamente umano, sovente provocato proprio da una scarsa attenzione rispetto a quello che si sceglie di dire o non dire.

In altre parole, quasi ogni incidente comunicativo al quale si assiste o del quale ci si ritrova parte in rete non è solo il prodotto volontario della cattiveria umana quanto piuttosto la conseguenza della scarsità di riflessione metalinguistica. Per fare un esempio, spesso i famosi hater altro non sono che adulti tra i cinquanta e i sessant’anni che appaiono avere poca consapevolezza del fatto che l’insulto scritto nero su bianco e firmato nome e cognome sul profilo social di un noto personaggio politico è pubblico e infinitamente longevo; che chi leggerà quel commento si farà, inevitabilmente, una certa idea di chi l’ha postato, idea non mitigata dalla conoscenza personale, ma veicolata solo da quelle specifiche parole; che il fatto di essere dietro a uno schermo non rende realmente anonimi, perfino quando si sceglie di usare uno pseudonimo; che quell’atto così veloce, apparentemente innocente, potrebbe portare a pesanti ripercussioni mediatiche e in qualche caso anche legali.

Peraltro, l’età dei perpetratori di questo genere di azioni sfata il mito che la scarsa educazione e la superficialità siano caratteristiche prettamente giovanili; questo non toglie che anche i cosiddetti nativi digitali spesso dimostrino di non essere affatto alfabetizzati digitali.

I problemi, dunque, possono realmente sembrare troppo complicati per essere risolti da noi “comuni mortali”. Al contrario, noi riteniamo che sia possibile (ri)partire dalle parole per arrivare a competenze comunicative più evolute e tali da rendere ogni persona non solo maggiormente padrona delle proprie parole, ma anche più potente. È una questione di forma e sostanza: non basta avere idee buone, ma occorre anche saperle comunicare nella maniera più corretta a seconda del contesto in cui ci si trova; e da questo passaggio dalle idee alla loro “messa in parola”, che è meno scontato di quanto si possa essere portati a pensare, dipende buona parte delle nostre possibilità di successo comunicativo.

Le massime di Grice: quattro consigli

Un modo tutto sommato semplice di iniziare a riflettere sulla questione viene fornito dalle quattro massime conversazionali individuate negli anni Settanta da Paul Grice; chi ha compiuto studi nell’ambito della comunicazione le conoscerà sicuramente e anzi, magari le considererà quasi banali rispetto a quanto studiato successivamente; tuttavia, nella loro semplicità, sono quattro consigli di puro buon senso comunicativo che possono davvero porsi alla base della comunicazione di ogni persona alle prese con i problemi di una società ipercomplessa e iperconnessa.

  • La massima della qualità recita “sii sincero”. In sintesi, se si parla di ciò di cui si è davvero convinti, di ciò in cui si crede, in maniera trasparente e non ingannevole, gli altri se ne renderanno conto. La mancanza di sincerità – per esempio, quando si parla di argomenti che in realtà non conosciamo abbastanza approfonditamente, costringendoci a veri e propri voli pindarici per supplire alla mancanza di competenze – è qualcosa che solo con grande fatica si può tentare di nascondere, sovente in maniera infruttuosa. Di conseguenza, è molto più semplice parlare di ciò che si conosce bene e si condivide.
  • La massima della quantità consiglia “non dire né troppo poco né troppo”. Solitamente, sia chi dice troppo poco sia chi dice troppo commette, dal punto di vista della comunicazione, un errore. L’eccessiva stringatezza può destare il dubbio della reticenza, ovvero che si stiano volontariamente omettendo delle cose; dire e scrivere troppo, invece, rischia da una parte di “soffocare” eventuali interlocutori (si pensi solo a quanto è sgradevole un relatore che non rispetta i tempi prestabiliti a una conferenza), dall’altra di disperdere su particolari secondari l’attenzione di chi sta ascoltando o leggendo. Occorre, invece, sapere quanto dire, nel momento appropriato e rispettando i limiti del proprio spazio, sia che si tratti di un testo scritto sia che ci si misuri con un discorso orale.
  • La massima della relazione è “sii pertinente”. Chi ha esperienza di interrogazioni o esami sa bene che il candidato che tende a procedere in maniera dispersiva, partendo magari dalla notte dei tempi invece che rispondere in maniera diretta alla domanda posta, spesso usa questa tattica perché non è ben preparato e cerca, di conseguenza, di gettare fumo negli occhi dell’esaminatore. In un mondo così intasato di comunicazione, sia in entrata che in uscita, la pertinenza di quanto si deve leggere e ascoltare e anche produrre diventa un parametro essenziale per non sovraccaricarsi e non sovraccaricare gli altri. Tra l’altro, proprio perché l’inconsistenza comunicativa è una strategia estremamente diffusa usata per sviare l’attenzione, è anche piuttosto semplice da riconoscere, e non depone mai a favore di chi la impiega.
  • Ed ecco, infine, la massima del modo: “sii chiaro”. Italo Calvino, in un saggio del 1988 che ancora adesso può venire considerato uno dei testi basilari per la comunicazione, Lezioni americane, nella lezione dedicata all’Esattezza scrive: «Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose: un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese, “icastico”, dal greco “eikastikós”; un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione». Scegliere di parlare in maniera inutilmente complicata o magari orpellosa è qualcosa che di fatto va contro la comunicazione stessa: chi si rifugia nei barocchismi, nell’inglesorum o nel latinorum non vuole, in realtà, comunicare veramente, quanto piuttosto creare una distanza, o magari rimarcarla. Essere chiari, scegliere le parole giuste, implica trasparenza di intenti. Chi non ha secondi fini da nascondere può permettersi il lusso di parlare in maniera semplice ed essere diretto.

La difficoltà della semplicità

Riassumendo, le quattro massime poggiano su un assunto piuttosto semplice, ma potente: se si ha ben chiaro in mente che cosa si pensa e che cosa si vuole dire, sarà anche più facile comunicarlo in maniera chiara, soprattutto se avremo l’accortezza di preservare costantemente la relazione con l’altro, in particolare il più svantaggiato dei nostri interlocutori; chi è davvero bravo a comunicare non si rivolge mai all’interlocutore-modello, ma alla persona che incontrerà (per vari motivi) le maggiori difficoltà a comprendere. E parlare in maniera chiara, trasparente e semplice non corrisponde a banalizzare, ma al suo contrario. Mentre banalizzare è una trappola nella quale chiunque di noi può cadere con facilità, la semplicità, la concisione, la comprensibilità sono doti del testo che si possono ottenere con grande impegno e attenzione rispetto a quello che si dice e si scrive. Non è un caso se Pascal, nella Lettera XVI delle Provinciali, si giustifica per la lunghezza della sua missiva scrivendo «Questa lettera è più lunga delle altre perché non ho avuto agio di farla più breve»; e se lo dice lui, chi siamo noi per pensare che sia più facile scrivere testi brevi?

Dalle massime di Grice si procede, poi, a entrare nello specifico degli usi delle parole, che in sostanza servono a tre scopi principali, ai quali sono dedicate le tre parti successive di Tienilo acceso.

Parlare di noi stessi

Le parole servono, prima di tutto, per parlare di noi stessi, cioè presentarci agli occhi degli altri: operazione che facciamo spesso involontariamente – non avendo piena consapevolezza di come ci dipingano le parole che stiamo usando – ma che può diventare, con uno sforzo tutto sommato contenuto rispetto ai benefici che porta, volontaria e autodiretta.

Il processo di presentazione di sé tramite le parole diventa ancora più rilevante in rete, dove siamo, di fatto, privati dell’aiuto della mimica, della gestualità, della prossemica, del tono della voce, di tutti quegli elementi extralinguistici che aiutano a decodificare correttamente il messaggio che si sta mandando. E per quanto si possano mettere in campo delle strategie compensative (ad esempio emoticon ed emoji), anche tali strategie vanno sapute usare nel modo corretto.

Il compito delle parole di descriverci diventa ancora più rilevante in un mondo in cui, volenti o nolenti, lasciamo una scia pubblica di noi stessi che non ha precedenti nella storia dell’umanità: non occorre più essere VIP per trovarsi in questa situazione, e non serve nemmeno avere degli account social, perché la narrazione di noi stessi dipende oggi anche da quello che immettono in rete di noi i nostri genitori, i nostri amici, i nostri impegni comunitari, mondani o lavorativi, e prosegue con quanto, invece, decidiamo di immettere in rete noi stessi.

Alla prova del Google CV

Per verificarlo, il punto di partenza che consigliamo è quello di cercarsi con Google: inserire il proprio nome e cognome nel motore di ricerca più potente che esiste oggi e verificare chi siamo agli occhi di chi interroga questo strumento per sapere qualcosa di noi. Siamo ben rappresentati? Ci sono informazioni di cui ci vergogniamo? Spesso, scopriremo che la rete è disseminata di “briciole” che ci riguardano e che non sempre sono state messe in circolo da noi o con il nostro beneplacito. Mentre, però, giocare in difesa è molto difficile – per esempio, anche invocare il diritto all’oblio è un’operazione complessa e che richiede tempo – è in un certo senso molto più semplice adottare una strategia che non sia paranoica (“mi disiscrivo da ovunque”), ma semplicemente lungimirante (“scelgo io cosa mostrare o non mostrare di me”): è molto meglio, insomma, agire preventivamente, piuttosto che doversi ingegnare nella gestione della crisi a posteriori, a danno avvenuto.

Il biglietto da visita virtuale

Se finora può essere sembrato che il fulcro dell’operazione riguardasse le parole che scegliamo di usare, ricordiamo che i nostri primissimi “biglietti da visita” in rete sono solo parzialmente verbali: le immagini che scegliamo come nostre foto profilo sui vari social, assieme alle poche righe di presentazione che normalmente le accompagnano (che alcuni chiamano tagline), sono i primi elementi di noi che gli altri vedono, e in base ai quali possono farsi una prima idea di chi siamo.

Che immagine convoglierà di uno o una giovane la scelta di una foto profilo in costume da bagno, adattissima per riscuotere successo tra i propri coetanei, ma magari meno consona per rappresentarlo o rappresentarla agli occhi dei suoi docenti o di un possibile datore di lavoro? D’altro canto, essendo oggi del tutto normale curare contatti di lavoro tramite i social, anche l’opzione di mettere come propria foto profilo un vaso di fiori o un tramonto in nome della privacy non è probabilmente la scelta migliore: a chi piace interloquire con un oggetto inanimato?

Similmente, con quanta leggerezza ci permettiamo di essere spiritosi o sfrenati nella nostra descrizione (magari specificando che ci siamo laureati presso “L’università della vita”), senza pensare che un qualsiasi “cacciatore di teste” aziendale sicuramente scandaglierà con attenzione i nostri profili, tentando di capire chi siamo veramente, al di là di quanto dichiarato nel curriculum? Il profilo Twitter @EveryDayBio raccoglie interessantissimi esempi di biografie reali prese dal social network, leggendo le quali possiamo verificare la reale portata delle parole che scegliamo per descriverci. Eccone un esempio.

Parlare di ciò che accade

Se parlare di sé stessi online sottopone ogni utente a una sfida impegnativa nel costruire e coltivare la propria immagine, la sfida si allarga ancora di più per quanto riguarda la conoscenza del mondo e di ciò che accade: il sovraccarico informativo a cui la rete sottopone ciascuno richiede di essere affrontato con la giusta prospettiva e le competenze adeguate. Così come il parlare di sé stessi in uno scenario iperconnesso rende sostanzialmente ogni utente un piccolo personaggio pubblico che deve in qualche modo curare la sua immagine e la sua reputazione in ciò che pubblica online, così l’abbondante disponibilità e raggiungibilità delle informazioni impone di avere capacità di discernimento dell’attendibilità dei contenuti e consapevolezza sui meccanismi della conoscenza.

Ciò apre un problema non indifferente per il cosiddetto “cittadino mediamente informato”, che si ritrova tra le mani, per così dire, la possibilità di gestire in quasi-autonomia la sua dieta mediatica e informativa. Allo stesso tempo, per il funzionamento delle piattaforme tramite gli algoritmi e la profilazione, l’utente medio è sottoposto a una continua offerta di contenuti e connessioni che rispondono pienamente alle sue aspettative, ai suoi gusti, alle sue inclinazioni. Da questo punto di vista, il web e i social network possono diventare un luogo “che dà sempre ragione”, in cui trovare costante conferma delle proprie idee e creare cerchie di contatti con persone di opinioni simili che interagiscono rinforzandosi l’un l’altra, con un livello minimo di contraddizioni rispetto alla propria visione del mondo.

Tale comportamento impoverisce molto le potenzialità che la rete offre, essendo la dimensione in cui sarebbe possibile l’incontro con la differenza di prospettive, di idee, di culture, di opinioni, ecc. Il punto è che tale incontro con la differenza deve essere desiderato e non può essere imposto. Non ci può essere l’algoritmo che allarga la visione del mondo: gli algoritmi fanno il loro lavoro cercando di proporci ciò che ci può interessare in base alle preferenze che abbiamo espresso in precedenza. Non ci può essere nemmeno un’autorità esterna che decide cosa è meglio sottoporre all’attenzione: quel ruolo di selezione che un tempo era monopolio dei media, con la rete è impossibile da ripristinare; ora le testate e i giornalisti sono inseriti nel sovraccarico informativo e subiscono la concorrenza dei contenuti che vagano nel web e che intercettano o meno i gusti e le aspettative degli utenti.

Farsi domande, piuttosto che cercare risposte

Se una soluzione dall’alto è difficilmente praticabile, insomma, ci vuole qualcosa che sia all’altezza della disintermediazione che si è creata: deve maturare in ciascun utente la consapevolezza che per vivere online in modo proficuo occorre attuare alcune strategie per non finire vittime delle proprie convinzioni e della tendenza a vedere il mondo a immagine e somiglianza delle proprie credenze.

Come fare? Se si cercasse di controllare ogni informazione aspettandosi di poterne discernere l’attendibilità in base al contenuto, ovviamente ci si troverebbe di fronte a un’operazione impossibile: occorrerebbe essere già esperti di ogni tema anche solo per informarsi. Per questo, le pratiche del fact-checking, seppur importantissime, non aiutano il cittadino mediamente informato in quella sua quotidiana “lotta” per capire se ciò che gli passa davanti è o non è attendibile.

Una strada percorribile è allora quella di capovolgere la questione: non tanto concentrarsi sul contenuto delle informazioni, che può essere di difficile analisi, ma su ciò che sta attorno a esse e che ne indica la provenienza (le fonti), le circostanze (il contesto), lo stile. Il modo con cui sono presentate e da chi, spesso rivela anche qualcosa della loro attendibilità. In Tienilo acceso abbiamo proposto una strada non tanto tesa a stabilire in modo incontrovertibile l’attendibilità di un contenuto, quanto alla possibilità di scorgerne limiti, lacune, imprecisioni, falle.

A nostro avviso, questo primo sguardo d’insieme sulle informazioni può diventare un’abitudine alla portata della gran parte degli utenti. Invece di tentare lo sforzo titanico di rendere ciascuno uno studioso tuttologo, si può almeno fare in modo di renderlo un utente che si faccia domande prima di prendere per buona un’informazione. Sono domande semplici, ma fondamentali, che possono essere poste in pochi secondi per giudicare i limiti di un certo contenuto a un primo sguardo.

Questa idea del limite per noi è fondamentale: in una situazione di non-competenza (“non sono esperto di una materia”) e di sovraccarico (“ricevo fin troppe informazioni su temi che non sono sicuro siano rilevanti”), la sfida è molto più quella di saper riconoscere i limiti di ciò che incontro più che quella di tenere tutto sotto controllo. In altre parole, se il cittadino immerso nel caos informativo della rete almeno riesce a riconoscere ciò che è da scartare, è già un passo avanti.

Le cinque domande fondamentali da porsi

Le domande sono fondamentalmente cinque, e vengono dalla tradizione del buon giornalismo:

  1. Chi lo dice? Individuare la fonte è il primo passo; se le informazioni sono senza fonte o di fonte incerta o indefinita, vanno prese per poco attendibili.
  2. Quando? La data e le circostanze sono molto importanti. Spesso ci sono bufale che tornano ciclicamente; individuarne la provenienza temporale è sufficiente per smascherarle.
  3. Qualcuno conferma? La verificabilità di un’informazione è fondamentale. La sua verifica può venire dal testo stesso che si legge, se è riportata una qualche fonte che conferma, oppure dall’esterno: si può raggiungere una fonte che possa confermare? Se non c’è nessuna di queste possibilità, di solito ci si trova di fronte a un’informazione poco attendibile.
  4. Chi lo conferma? Se c’è una qualche voce che dà conferma dell’informazione, occorre porsi qualche domanda sulla sua autorevolezza. Uno schema semplice per giudicare l’autorevolezza può essere basato su due parametri: vicinanza al fatto e competenza. La vicinanza fa valutare se la fonte è diretta o indiretta rispetto a ciò che sta raccontando (un testimone o una vittima ad esempio sono fonti dirette). La competenza ci fa valutare se chi sta parlando ha le conoscenze adeguate per giudicare il fenomeno di cui parla. Un esempio per tutti: durante un terremoto una fonte diretta è un terremotato che racconta, ma questo racconto non è detto che sia competente quanto il giudizio di un sismologo che, pur non essendo una fonte diretta, sa meglio giudicare il fenomeno. Fonti dirette e competenti hanno maggiore attendibilità, fonti indirette e incompetenti ne hanno minima.
  5. Qualcun altro ne parla? Il confronto è la strada di fatto più semplice par capire quanto un’informazione sia attendibile. Di solito a portata di pochi click si può cercare un’altra versione. La maggior parte delle volte, nell’abitudine a cercare un confronto, si risolve il non cadere in una bufala. Pensiamo al caso del messaggino ricorrente “di’ a tutta la tua lista di contatti su Messenger che XY è un hacker…”: copiando e incollando il testo su Google praticamente tutti i risultati riportano che è una bufala. Eppure, molte persone continuano a farlo girare, solo per la pigrizia di non spendere qualche secondo in un facilissimo confronto.

Nessuno si illude che queste domande siano sufficienti. In realtà sono come una base minima di partenza. Senza queste è facilissimo cadere nei propri pre-giudizi: non ci vogliono nemmeno notizie false, è sufficiente la propria distorsione cognitiva.

Altre semplici domande che ci si può porre riguardano lo stile e il modo di presentarsi di un contenuto, che rivelano quanto la sua narrazione sia manipolata ad hoc per suscitare una reazione:

  • quando un fatto viene riportato in modo manicheo (bianco/nero, buoni/cattivi, giusto/sbagliato) di solito sta cercando di ottenere la nostra reazione attraverso una cosiddetta formulazione binaria (cfr. Giovanna Cosenza, Semiotica e comunicazione politica, Laterza 2018) che porti a schierarsi assolutamente a favore o contro quel fatto;
  • quando la notizia è funzionale ai propri pregiudizi: giovani maleducati, stranieri violenti, islamici terroristi, populisti ignoranti, progressisti buonisti… solitamente i fatti contenuti in tali notizie sono addomesticati per ottenere tale effetto;
  • quando il contenuto è riportato con stile complottista: “ti stanno nascondendo la verità”, con un “loro” tanto generico quanto indefinito (i poteri forti, le banche, i governi, le lobby);
  • quando eventuali voci contrarie, anche se argomentate, vengono automaticamente azzittite e ritenute inaccettabili, di solito si è in uno di quei casi in cui una bolla di opinioni omogenee sta forzando le informazioni in una precisa direzione.

In tutti questi casi la difesa possibile (e applicabile da tutti) è la stessa: fermarsi, aspettare, resistere all’idea di farsi immediatamente un’opinione. È un metodo se vogliamo “per sottrazione”, che aiuta a perdere l’illusione e anche la fretta psicologica di dover sempre intervenire. Quella che Antonio Pavolini nel suo Oltre il rumore (Informant, 2016), a partire dalla FOMO (la Fear Of Missing Out, la paura di rimanere tagliati fuori) ha rielaborato in FOMI: Fear Of Missing In, l’insopprimibile esigenza di esprimere la propria opinione e sentirsi parte del flusso sul tema su cui stanno tutti intervenendo in base al momento.

Diventare direttori delle proprie timeline

E qui si passa a un ulteriore aspetto della conoscenza del mondo in base alle connessioni in rete. Il funzionamento dei social network si basa praticamente su ogni piattaforma su due criteri:

  • le connessioni che abbiamo stabilito (i follow su Twitter e Instagram, le amicizie su Facebook e così via)
  • gli algoritmi che scelgono cosa mostrarci come più rilevante tra ciò che proviene da quelle connessioni.

Questo significa che, volendo, ogni utente può intervenire su questo meccanismo per renderlo più efficiente e capace di aprire orizzonti, invece che chiudersi in bolle di interessi e opinioni omogenee. In altre parole, la tendenza automatica delle piattaforme può essere in ogni momento “corretta” dall’azione umana, basta volerlo. La questione, così come quella del discernere l’attendibilità delle informazioni, non è tecnica quanto culturale e diremmo motivazionale: se si vuole si può.

Una strada è quella di utilizzare alcune funzioni che le piattaforme mettono a disposizione. Ognuna ha le sue. Qui possiamo fare l’esempio di Facebook che nelle impostazioni della “sezione notizie” ci permette di intervenire su come vediamo i contenuti che provengono dalle nostre connessioni. Possiamo scegliere ad esempio di “vedere per primi” alcuni contatti rispetto ad altri. Così come possiamo scegliere di “non seguire” una persona a cui abbiamo dato l’amicizia, in modo da non vedere più i suoi contenuti nella nostra timeline.

Si può fare la stessa cosa con i post: indicare all’algoritmo che non si vogliono vedere contenuti di un certo tipo oppure attivare notifiche o salvare contenuti di altro genere per affermare che c’è un interesse esplicito. Insomma, esiste tutta una serie di azioni che ci permettono, volendolo, di personalizzare la propria presenza in connessione con altri in modo che non sia del tutto autoriferita e affidata agli automatismi degli algoritmi. In Tienilo acceso abbiamo indicato alcune strade pratiche; alla base della gestione delle proprie connessioni proponiamo tre criteri per riuscire ad avere sempre un po’ di stimolo all’apertura e alla riflessione:

  • Cercare connessioni con persone con prospettive diverse dalla propria (quanto alla visione del mondo e alla sensibilità) e metterle tra i “vedi per primo”.
  • Che queste persone siano rilevanti e competenti, cioè siano persone che sanno ciò che dicono, e che lo dicano mettendoci talvolta in difficoltà: troppo facile connettersi con “diversi” che poi sono scarsi o poco rilevanti, solo per avere il piacere di smentirli facilmente: è sempre una forma di autoreferenzialità.
  • Che siano attendibili: il fatto di non diffondere notizie false o inutili è un criterio fondamentale di selezione all’ingresso.

Con un giro di connessioni sulle varie piattaforme curato in questo modo, si può ottenere una risposta dalla propria vita connessa molto stimolante in termini di nuove conoscenze, connessioni, idee.

Certo, i social non bastano, anzi una dieta mediatica basata solo su ciò che viene dalle proprie connessioni sarebbe davvero povera. C’è bisogno di costruirsi piuttosto una piccola biblioteca di risorse online per informarsi sui temi di interesse e per andare a fonti autorevoli e attendibili, ma intanto vivere usando questi accorgimenti nei propri spazi di interazione può essere il primo movimento verso una presenza online più costruttiva e soddisfacente.

Parlare con gli altri: la disputa generalizzata

Dopo aver parlato di noi stessi e di ciò che succede, veniamo al tema fondamentale dell’iperconnessione: la questione del parlare con gli altri. Di solito, infatti, quelli che abbiamo trattato finora sono i due aspetti spesso al centro dell’attenzione: quello del sovraccarico informativo, che può portare a distorsioni nella conoscenza del mondo, e quello del sovraccarico di valutazione su sé stessi (l’esposizione pubblica online), che può portare a modalità distorte della formazione della propria identità e immagine di fronte agli altri. Ci si concentra molto su questi due fattori, mentre si trascura un po’ il terzo sovraccarico a cui chiunque sia connesso è sottoposto continuamente: il sovraccarico di discussioni.

Non è un caso che in generale questo terzo aspetto venga sostanzialmente ricollegato a definizioni sintetiche e onnicomprensive a cui abbiamo accennato all’inizio, come quelle del cyberbullismo e dell’odio online, che a volte rischiano di trattare in modo riduzionistico qualcosa di complesso e articolato.

L’interconnessione portata dai social “nelle tasche di tutti” infatti ha prodotto un fenomeno di fondo: quello dell’avvicinamento di differenze. L’incontro con la differenza prima della connessione era molto più sporadico e intenzionale, e investiva momenti e dimensioni specifiche dell’esistenza. Oggi chiunque è presente online, in ogni momento, è esposto alla differenza (di visione del mondo, di linguaggio, di cultura, di valori) di chi gli sta attorno, non importa quanto distante.

Questo dissenso, cioè questo sentire e percepire la realtà in modo diverso, irrompe continuamente nelle timeline di tutti, e produce una mole enorme di discussioni che spesso deragliano in litigi. Non è solo né principalmente odio, non è bullismo: è molto più quotidianamente lotta tra differenti visioni che si affrontano, prodotte da persone che non hanno le capacità di farlo.

Litighiamo tanto perché disputiamo poco

La sensazione è che ci siano tanti litigi online perché ci sono troppe discussioni. In realtà è l’esatto opposto: si litiga tanto perché si ha poca capacità di affrontare divergenze di opinione. Andare allo scontro, infatti, è il modo migliore per porre fine a un confronto: si smette di parlare dell’argomento da cui si era partiti, si va sul personale, ci si insulta e ognuno può tornare a “casa” nelle sue convinzioni senza aver spostato di un millimetro le sue idee.

Il tema non è nato con la rete; lo dimostra il lavoro di alcuni come Adelino Cattani (cfr. ad esempio Botta e risposta. L’arte della replica, Il Mulino, 2001,) che ormai da decine di anni promuovono palestre di dibattito nelle scuole e nelle università, proprio per rispondere alla mancanza di competenze nella discussione. La rete lo ha messo al centro dell’attenzione perché ormai è sotto forma di dibattito praticamente ogni azione di comunicazione quotidiana: dall’intervento in un gruppo WhatsApp ai commenti in un post fino alle discussioni sotto un articolo di giornale. E non solo il cittadino medio, ma anche le istituzioni, gli stessi media, gli intellettuali, i personaggi pubblici, tutti per il fatto di essere inseriti in un sistema di comunicazione globale (caratterizzato da quella che Manuel Castells ha definito “autocomunicazione di massa” [Comunicazione e potere, 2009]), sono sottoposti alla costante pressione di dover discutere su tutto.

È un vero e proprio sovraccarico: le discussioni possono essere troppe, troppo estenuanti, troppo improduttive, creando una condizione di costante scontro che porta alla reazione opposta della rinuncia. Certi fenomeni dello spegnimento e della disiscrizione dai social derivano proprio da questo disagio per il continuo diverbio.

Anche qui, la proposta non può che essere pensata in modo sostenibile e applicabile dal cittadino mediamente informato e connesso, che di certo non può trasformarsi in un disputatore di professione, né può passare la vita a sostenere tutte le discussioni possibili. Ma il tema si pone anche per chi ha un ruolo preminente in società (divulgatori, giornalisti, intellettuali, istituzioni, media, università, aziende), che è chiamato a gestire il sovraccarico di discussioni disintermediate.

Come discutere nel sovraccarico

Quale strada percorrere? Nello scenario altamente differenziato della connessione in rete sarebbe illusorio pretendere di tenere sotto controllo l’accordo preliminare tra i discutenti. Pensare di poter discutere solo con chi ha reali intenzioni di confrontarsi, sebbene opportuno in situazioni controllate, è impossibile da realizzare online, dove l’assenza di selezione all’ingresso è la base su cui si fonda la partecipazione alla discussione. Applicare una “nuova selezione” significherebbe solo chiudere le discussioni in cerchie ristrette, cosa di un certo sollievo per i discutenti impegnati, ma di nessun effetto sul dibattito aperto che continuerebbe con le sue caratteristiche scomposte.

Anche il richiamo ai buoni principi della discussione di per sé non serve a molto: se le persone commentano in modo istintivo, aggressivo e con modalità inopportune, è inutile farglielo notare, perché quelle modalità deragliate sono essé stesse l’espressione di un disagio: se bastasse fare riferimento a principi non si capisce perché dovrebbero esprimersi in tal modo.

Non rimane che percorrere una terza via, anche questa “per sottrazione” come le precedenti: perdere l’illusione di poter controllare le discussioni e invece accettare di affrontarle per quel che si può portare come proprio personale contributo. Anche in questo criterio c’è di fondo il valore del limite: riconoscere ciò che si può realmente fare è di solito riuscire a dare un contributo davvero utile.

La disputa felice

In un precedente testo (Bruno Mastroianni, La disputa felice, Cesati, 2017) è stato delineato un vero e proprio percorso adatto a tutti per riuscire a stare nelle discussioni, qualsiasi discussione, in modo soddisfacente senza perdere tempo e, soprattutto, apportando davvero qualcosa. La strada è quella di lavorare principalmente su sé stessi e i propri limiti:

  • limitarsi a intervenire dove si è realmente competenti e si ha esperienza diretta, secondo la massima di Grice della sincerità;
  • farlo avvicinando le proprie espressioni, i propri argomenti, i propri ragionamenti all’altro che ascolta e al suo mondo di convinzioni, insomma riconoscere “il mondo” dell’altro;
  • rimanere sempre sul tema e tornarci continuamente, chiaramente argomentando, anche quando l’altro offende, provoca, insulta;
  • avere la pazienza di spiegare e rispiegare sempre, e avere anche la creatività di cambiare l’ordine dei propri ragionamenti abituali, sovvertendoli, modificandoli e accettando di metterli alla prova di fronte al dissenso altrui;
  • coltivare l’autoironia e il distacco da sé stessi e dalle proprie convinzioni cercando sinceramente di imparare sempre qualcosa dal dissenso altrui.

Il tutto con un’idea chiara in mente: non ogni discussione riuscirò, ma il fatto di porsi in ciascuna come un disputatore disposto al collaudo delle proprie idee ha sempre un effetto sociale. Anche se l’interlocutore diretto non ne vorrà sapere e rimarrà nell’ostilità delle sue posizioni contrapposte, ognuna di queste interazioni online avverrà sempre in pubblico e di fronte a un pubblico di altri utenti che assiste. Quella moltitudine silenziosa potrà, dal modo con cui si argomenta, farsi una sua idea sui contendenti e sulle loro argomentazioni, recepire informazioni, conoscere nuovi aspetti, ecc.

Il divulgatore non b(l)asta

In Tienilo acceso abbiamo ulteriormente sottolineato come la modalità della disputa felice sia importante per divulgatori e istituzioni: online c’è bisogno che proprio i competenti diano l’esempio, sappiano stare nel dissenso e mettersi alla prova di fronte a esso, soprattutto quando scomposto. In quelle dispute condotte con garbo e ragionamenti, senza blastare (cioè senza umiliare l’altro che mostra un’incompetenza), ma offrendo argomentazioni e prendendo sul serio le istanze che vengono dalle persone, anche quando mal poste, c’è l’occasione di ricostruire relazioni sociali di fiducia nei confronti della ragione e della conoscenza. Quella della disintermediazione e del sovraccarico di discussioni, in fondo, è come un’enorme messa alla prova del sapere: a nostro avviso va accettata, pena lasciare il campo a chi saprà approfittarsi della pancia per trasformarla in consenso.

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