Antitrust

Mannoni: “Italia indifferente allo strapotere dei big del web, così scivola nell’irrilevanza”

L’adeguamento delle dottrine antitrust e dei sistemi regolatori alla nuova economia basata sullo sfruttamento a oltranza dei dati degli utenti da parte di una manciata di colossi hi-tech è un tema sempre più pressante. Ma il dibattito in Italia non esiste. Vediamo perché e cosa si rischia

Pubblicato il 04 Lug 2019

Stefano Mannoni

giurista, professore di Storia del Diritto Medievale e Moderno e di diritto della comunicazione all'Università degli Studi di Firenze, ex commissario Agcom

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Lo strapotere dei colossi del web e i loro continui abusi di potere di mercato – sui quali persino l’antitrust Usa ha deciso di accendere i riflettori – richiede uno sforzo significativo di rimodulazione della dottrina antitrust e degli strumenti regolatori. Ma in Italia si registra una evidente ritrosia ad affrontare questi temi.

Testimonianza ne sono sia la vistosa riluttanza con la quale il tema della concorrenza nelle e tra le piattaforme digitali è entrato – ammesso che lo sia veramente – nell’agenda del dibattito nazionale, sia il sempre più evidente scarto tra la pubblicistica italiana e quella internazionale.

Sorprende in effetti la freddezza con la quale sono state accolte le istruttorie su Google, Amazon et altri intraprese dalla Commissaria europea Vestager. Una freddezza che stride in tutto e per tutto con l’entusiasmo che connotò a suo tempo la celebre vicenda Microsoft, suscettibile di scaldare i cuori con un’intensità che oggi sarebbe impensabile. Diverse ragioni possono essere addotte per spiegare questa freddezza.

La prima e più ovvia e l’intensa attività di lobbying condotta presso il mondo accademico, con successo, dalle principali piattaforme digitali. La seconda è invece riconducibile a un latente tecno-ottimismo che condiziona la percezione di un fenomeno monopolistico tutto sommato giudicato in una luce positiva.

Lo scarto tra la pubblicistica italiana e internazionale

Sta di fatto che lo scarto tra la pubblicistica italiana e quella internazionale è divenuto su questo terreno assai significativo. Per convincersene basta confrontare i documenti prodotti sul tema antitrust-regolazione-piattaforme tecnologiche da diverse istituzioni europee e non e la letteratura disponibile in Italia. Ebbene si è colpiti dalla distanza siderale tra lo sforzo, certo non facile, intrapreso dai primi, e la pigrizia e riluttanza della seconda. Il nocciolo della questione è quello, essenzialmente, di come rimodulare la dottrina antitrust e gli strumenti regolatori per fare fronte alle sfide della nuova economia.

L’applicazione meccanica della concezione economica del diritto della concorrenza, incentrata sul prezzo e sulla definizione dei mercati rilevanti, non porta molto lontano. Quando imprese strategiche della nuova economia offrono i loro servizi a prezzo nullo, come attestarsi su questa variabile per censurare i comportamenti anticoncorrenziali? E ancora: se è vero che i big data non sono oggetto di transazioni, per lo più, come definire un mercato rilevante se latitano domanda e offerta?

Intercettare le nuove forme di dominanza

Orbene lo sforzo condotto a livello internazionale consiste appunto nel provare ad emanciparsi da questi legami della dottrina classica per intercettare le nuove forme della dominanza. Un tentativo di questo tenore è stato intrapreso, tra l’altro, non solo a livello di riflessione bensì anche di pratica istituzionale dal Bundeskartellamt (l’Antitrust tedesco) che nella sua decisione sul caso Facebook ha sostenuto che la violazione delle regola sulla privacy possa essere assunta quale sintomo di abuso di potere di mercato. Una decisione questa per niente in linea con le concezioni mainstream che hanno corso in Italia dove le due discipline – antitrust e privacy – sono mantenute rigidamente separate.

Vi è anzi una certa tendenza a ritenere che l’avvento del GDPR abbia in larga misura minimizzato la necessità di mobilitare il diritto antitrust allorché strumenti come la portabilità dei dati consentirebbero già di per sé di fluidificare il mercato abbattendo le barriere. Plausibile? Non proprio. Il giusto riconoscimento per le importanti novità introdotte dal GDPR non deve servire da argomento (o da alibi) per sottrarsi all’impegno corale, che da ultimo ha lambito anche gli USA, per mettere a fuoco un diritto della concorrenza e della regolazione adeguato ai tempi.

Se è vero che pure l’antritrust americano, seppure tra molte titubanze e ambiguità, ha deciso di accendere i riflettori su una realtà che aveva finora ostinatamente deciso di ignorare, parrebbe davvero curioso che l’Italia, parte di una Unione Europea che ha con decisione rotto per prima gli indugi, restasse ancorata al perentorio mantra “no, non si può fare!”.

L’era del capitalismo di sorveglianza

Ecco perché è importante trarre ispirazione e guardare ai giusti paradigmi. Uno di questi è stato messo a punto in un monumentale volume di Shoshana Zuboff dal titolo significativo “The age of surveillance capitalism”. (Profile Books 2019). La tesi del libro è suggestiva. Il capitalismo della sorveglianza reclama unilateralmente l’esperienza umana come materia prima per la sua traduzione in dati comportamentali.

Ancorché alcuni di questi dati siano indirizzati al miglioramento dei prodotti e servizi, gli altri sono dichiarati proprietà di un surplus comportamentale utilizzato nei processi di produzione della “machine intelligence”. La quale a sua volta si traduce nella elaborazione di prodotti predittivi che anticipano il comportamento degli utenti, i quali vengono rivenduti in un mercato dei behavioral future markets. Un processo di sfruttamento ed estrazione questo che avviene nella totale inconsapevolezza degli utenti, sfruttati come forza lavoro per la creazione del plusvalore alla stregua di un moderno proletariato industriale. Ebbene l’importanza di questa analisi risiede nello sforzo teorico di ricondurre a una matrice comune la fenomenologia delle piattaforme digitali e nel fornire il sostrato filosofico per aggredirle con appropriati strumenti antitrust e regolatori, nella speranza almeno di controbilanciare questo ferreo processo di creazione del profitto.

Beninteso non tutti anche nel mondo anglosassone sarebbero disposti a sottoscrivere un’analisi così impietosa e cruda. Un brillante studioso britannico, Paul Bernal, ad esempio, in “The internet warts and all” (Cambridge University Press) invita a non drammatizzare: il mondo digitale è assai imperfetto, è vero, ma è anche molto plastico e mutevole, caratteri che fanno parte della sua natura.

Perfino allora in campi sensibili come quello della privacy e delle fake news non è opportuno gridare al lupo vista la volatilità degli assetti, sempre altamente provvisori. “ Il disordine di internet – la sua natura sregolata – è qualcosa che dovremmo abbracciare piuttosto che cercare di liquidarla. Tentare di conseguire più certezza e chiarezza può spesso produrre l’esatto opposto”.

Riflessioni giudiziose, certo. Ma che non dispensano affatto dall’applicare una massima che dalla fine del Settecento ispira i nostri ordinamenti giuridici: il potere frena il potere. Perché di questo si tratta: opporre un freno, per quanto inadeguato e provvisorio, a una versione del capitalismo non meno temibile di quelle che la hanno preceduto solo perché apparentemente meno arcigna.

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