Informatici Senza Frontiere

Formare al digitale nelle scuole: così ragazzi e insegnanti imparano insieme

L’associazione Informatici senza frontiere sta portando avanti dei progetti per aiutare i ragazzi ad avvicinarsi al pensiero computazionale. Vediamo il metodo utilizzato e i risultati (incoraggianti)

Pubblicato il 15 Giu 2021

Dino Maurizio

presidente Informatici Senza Frontiere onlus

DigitalSchool

Sempre più spesso si parla della necessità di includere nell’offerta formativa scolastica dei percorsi di formazione digitale. Come associazione dedita alle tecnologie, da qualche anno Informatici Senza Frontiere sta realizzando progetti con Scuole primarie e secondarie di primo grado per aiutare i ragazzi a formarsi nel cosiddetto “pensiero computazionale”, traduzione letterale del termine “Computational Thinking” coniato all’inizio degli anni 80 da un grande matematico, informatico, pedagogista: Seymour Papert.

Pensiero computazionale che sta a sintetizzare la capacità di pensare in modo analitico, di risolvere problemi in modo sistematico, di saper delegare ad altri, nel nostro caso al computer, l’esecuzione di attività necessarie al raggiungimento del risultato voluto.

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Perché, come afferma una ricerca dell’Università Cà Foscari di Venezia “Serve dare uno spessore culturale alla capacità d’utilizzo dei mezzi digitali, serve acquisire consapevolezza dei meccanismi che sottendono alla tecnologia digitale. Solo così si potrà essere soggetti attivi della trasformazione tecnologica e sociale”.

L’entusiasmo che abbiamo riscontrato nei ragazzi e, aspetto non scontato, negli insegnanti, unitamente a risultati superiori a ogni aspettativa, ci hanno convinto che un percorso educativo simile a quello che stiamo realizzando, possa contribuire a colmare il divario digitale dei giovani così da avvicinarli a livelli di competenza presenti nella media dei paesi europei.

I progetti

Abbiamo iniziato con dei corsi di 10 lezioni da 2 ore fatti, in orario scolastico ed in presenza dei docenti della scuola, direttamente a ragazzi delle prime classi di due Istituti Comprensivi ; successivamente, anche su incoraggiamento degli insegnanti, anziché ai ragazzi, abbiamo fatto le stesse lezioni agli insegnanti stessi (metodo: imparare facendo) e poi abbiamo assistito gli insegnanti stessi nella restituzione dell’insegnamento ai ragazzi (“capacity building”: formare i formatori), con l’obiettivo di poter coinvolgere più facilmente nel tempo un maggior numero di classi.

Il metodo

Abbiamo adottato le linee guida per l’insegnamento creativo, nonché il linguaggio di programmazione Scratch, sviluppati dal MIT di Boston sotto la guida di Mitchell Resnick.

Si tratta di un percorso che si ispira, in termini pedagogici, al Costruzionismo di Jean Piaget ed al Costruttivismo di Seymour Papert , che in estrema sintesi afferma che costruiamo la nostra conoscenza attraverso la sperimentazione.
La programmazione è l’attività che permette di comunicare ad un computer che cosa deve fare, il pensiero computazionale è quello che definisce il ‘cosà dovremmo dire al computer, costringendoci ad articolare correttamente i passi logici che ‘portano ‘ a quel ‘cosà.
Programmare è un esercizio molto simile a quello di “delegare”, impone non solo di ragionare su ogni dettaglio che concorre al quadro d’insieme ma anche di saper comunicare senza ambiguità.
È poi molto raro, quando si programma, che vada tutto bene al primo colpo!

Il concetto di ‘giusto / sbagliato’, che spesso incontriamo nella scuola tradizionale, dove il docente spiega e l’alunno deve imparare ciò che il docente ha spiegato, davanti ad un computer si modifica profondamente – un programma non è mai tutto giusto o tutto sbagliato – e spesso l’errore è fonte di nuova conoscenza

Ne risulta che l’esercizio della programmazione ci costringe a pensare a ‘come pensiamo‘, a ripercorrere i nostri ragionamenti, a modificarli, a correggerli e nel farlo allarga la nostra conoscenza.

I risultati del progetto

Sicuramente l’imparare facendo è un elemento chiave del progetto.

I ragazzi provano a fare, vedono quello che succede, valutano se il risultato è conseguente alle aspettative, pensano ad eventuali cambiamenti, riprovano e toccano con mano il risultato del loro lavoro, ottenendone un’enorme gratificazione quando raggiungono quello che volevano.

Altro aspetto, e buona pratica quando si insegna la programmazione ai ragazzi, è quello di farli lavorare su artefatti sviluppati da altri compagni per farne delle nuove versioni (re-mix), arricchirli di funzioni e contenuti. Questo esercizio costringe innanzitutto a comprendere la logica altrui e svilupparla con idee proprie, di far convivere creatività diverse, in un contesto che deve comunque rispettare una propria logica.

L’apertura mentale e il lavoro di gruppo aiutano a socializzare.

Se il tutto poi vien condito dal divertimento, perché il costruire un’animazione al computer diventa divertimento, il successo è garantito.

Altro elemento importante riguarda le ragazze: il “coding”, infatti, consente loro di toccare con mano che programmare non solo è alla loro portata, ma attraverso lo sviluppo di animazioni, storie, giochi possono riversare la loro creatività, la loro riconosciuta capacità di collaborazione, possono cioè sviluppare la loro identità femminile senza compromessi.

Altro risultato, ottenuto come conseguenza, è stato quello di coinvolgere i ragazzi nelle materie ritenute da qualcuno meno interessanti.

Una docente di lingue ha fatto sviluppare dialoghi in lingua inglese usando la funzione testo-voce, un insegnante di musica un’armonia a più strumenti, un’insegnante di lettere ha sviluppato con i suoi alunni episodi della Divina Commedia. Tutti hanno ottenuto un seguito entusiasta tra gli alunni: statene certi, i ragazzi che hanno costruito una storia animata su un cantico dell’Inferno dantesco si ricorderanno Dante per tutta la vita!

Più in generale lavorare a progetti che abbattano barriere didattiche integrando discipline diverse, tecnologiche piuttosto che umanistiche, arte, ingegneria e progettazione, aiuta i ragazzi a sviluppare capacità che saranno poi utilissime nel mondo del lavoro e della vita sociale, dove tutto avviene in un mix di dimensioni.

Agli insegnanti attraverso questi corsi suggeriamo anche uno sforzo per rivedere il metodo di insegnamento, includendo stimoli per l’autoapprendimento con la messa a disposizione di
video-lezioni, facilitando lo scambio di esperienze tra i ragazzi, invertendo i ruoli ossia con lezioni tenute da alunni. Tutti questi sono aspetti che la programmazione riesce a stimolare attraverso la pratica, abbattendo barriere e pregiudizi culturali.
Se poi pensiamo che in questi ultimi mesi queste “palestre” di formazione al pensiero computazionale le abbiamo realizzate a distanza, con una pandemia che non ha lasciato tempo per una programmazione ordinata, vale la pena sottolineare come un’altra barriera risulti intaccata, ossia quella della separazione tra spazi e tempi diversi tra scuole, famiglie, terzo settore: le attività coinvolgono attori diversi, scuole, famiglie, i nostri centri ISF, e ben evidenziando quanto la stretta collaborazione tra i vari attori sia presupposto di successo ed efficacia.
E che dire infine delle barriere di tempo? Perché non permettere ai bambini di lavorare a progetti basati sui loro interessi per settimane, mesi o anni, travalicando i limiti di un’ora scolastica o di un modulo didattico, occupando i periodi di vacanza?

Conclusioni

Nel​ ​suo​ ​libro​ ​Mindstorm,​ ​ ​Papert, già alla fine degli anni ’70, metteva in risalto come un uso appropriato del personal computer potesse modificare il modo di pensare delle persone e contrapponeva l’uso di ‘istruzione​ ​assistita​ ​dal​ ​computer’, pratica che si stava iniziando a diffondersi nella scuola americana per scrivere dei testi o per fare quiz agli alunni, rischio che vedo presente tuttora nelle nostre scuole, ad un uso attivo: citando le sue stesse parole, Papert stigmatizzava le occasioni in cui ​“il​ ​computer​ ​viene​ ​usato​ ​per​ ​programmare​ ​il bambino”, incoraggiando quelle in cui invece ​ ​“il​ ​bambino​ ​programma​ ​il​ ​computer”.​ ​
È nel processo​ ​di​ ​imparare​ ​a​ ​programmare – ​scrive Seymour Papert -​ ​che un​ ​bambino​ ​“acquisisce​ ​padronanza​ ​sulla più​ ​moderna​ ​e​ ​potente​ ​tecnologia​ ​stabilendo​ ​al​ ​tempo​ ​stesso​ ​un​ ​rapporto​ ​personale​ ​con alcune​ ​delle​ ​idee​ ​più ​profonde​ ​della​ ​scienza,​ ​della​ ​matematica,​ ​e​ ​dell’arte​ ​della costruzione​ ​intellettuale​ ​di​ ​modelli”.

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