Il Dirigente del Liceo Malpighi di Bologna, Marco Ferrari è salito alla ribalta della cronaca nei giorni dell’apertura della scuola prendendo la decisione di vietare agli alunni di portare lo smartphone in classe. La motivazione è la seguente: “Il ragazzo si accorge che senza cellulare vive meglio e segue e studia di più magari anche nel tempo libero. Se tutto questo non lo impara a scuola, dove lo impara? I ragazzi scopriranno un’esperienza altra della vita. Il cellulare ti porta invece da un’altra parte, ti porta cioè dove vogliono i potentati economici. Perché Steve Jobs e Bill Gates hanno vietato le tecnologie ai loro bambini? Noi vogliamo fare il nostro mestiere e con il cellulare sul banco è impossibile”.
Lo smartphone, ovviamente, non è stato vietato solo agli studenti: anche i docenti devono lasciare i loro apparati intelligenti nella sala professori. Marco Ferrari ha 42 anni, e spiega il divieto per i professori con un ragionamento che punta sull’esempio che gli adulti, che sanno in cosa consista uno spazio di relazione senza smartphone, devono dare ai ragazzi che, viceversa, non lo sanno. I docenti lo dovranno tenere in sala professori, sulla cattedra o in borsa, ma sempre spento. E la reazione delle famiglie? “Le famiglie per ora sono entusiaste”, dice Ferrari. “Ci sono state solo due lamentele, ma sul metodo: non avremmo seguito un percorso di confronto democratico con gli studenti. In generale è giusto. Ma in alcuni casi gli adulti devono fare gli adulti. Devono cioè avere il coraggio di sfidare la libertà dei ragazzi con una proposta chiara e con uno scopo condiviso”.
Cellulare a scuola: un divieto che esiste da tempo
Va sottolineato che la decisione di Ferrari è frutto di una scelta collegiale in quanto deliberata dal collegio dei docenti, e non è la prima e non è l’unica. Il divieto dell’utilizzo del cellulare esiste da tempo: secondo la Direttiva Ministeriale 104 del 30 novembre 2007 il cellulare a scuola si può portare, a patto che venga tenuto spento durante le lezioni e che non venga utilizzato per scattare foto, fare filmati o violare la privacy dei presenti. Così la direttiva: “Dall’elenco dei doveri generali enunciati dall’articolo 3 del D.P.R. n. 249/1998 si evince la sussistenza di un dovere specifico, per ciascuno studente, di non utilizzare il telefono cellulare, o altri dispositivi elettronici, durante lo svolgimento delle attività didattiche, considerato che il discente ha il dovere: – di assolvere assiduamente agli impegni di studio anche durante gli orari di lezione (comma 1); – di tenere comportamenti rispettosi degli altri (comma 2), nonché corretti e coerenti con i principi di cui all’art. 1 (comma 3); – di osservare le disposizioni organizzative dettate dai regolamenti di istituto (comma 4). La violazione di tale dovere comporta, quindi, l’irrogazione delle sanzioni disciplinari appositamente individuate da ciascuna istituzione scolastica, nell’ambito della sua autonomia, in sede di regolamentazione di istituto”.
Divieto assoluto di smartphone: le scelte delle scuole
Da allora certamente la realtà è mutata, e di molto. Lo smartphone consente una miriade di attività che erano fuori dalla portata del telefono cellulare, come veniva ancora definito nella direttiva. La sua diffusione capillare ha fatto il resto. Fatto sta che nelle maglie dell’autonomia scolastica si sono potute inserire scelte di ogni genere, e non quella drastica che oggi appare l’unica praticabile. Un’indagine di Studenti.it su 700 studenti ha accertato che lo smartphone viene trattenuto all’entrata e restituito all’uscita nel 26% delle scuole. La realtà è comunque variegata.
In Emilia-Romagna, ad esempio, molte scuole hanno introdotto da tempo un regolamento che mette al bando gli smartphone, ma viene lasciato agli studenti l’onere di rispettare le norme. Una scuola che ha adottato da sei anni un criterio rigido è l’istituto tecnico Oriani di Faenza, dove il divieto non riguarda solo la didattica, perché gli smartphone restano custoditi fuori dalla portata degli studenti anche durante la ricreazione.
Ancora precedente è il caso di cui ho scritto in un libro pubblicato nel 2015, intitolato Internetmania. Il preside di una scuola alto atesina, Stefan Keim, ha cominciato ad applicare una direttiva dell’Intendenza scolastica della provincia di Bolzano che dormiva placida da diversi anni, iniziando a proibire l’utilizzo dei cellulari durante l’orario scolastico. Dopo un primo periodo in cui gli apparati venivano consegnati all’ingresso e risposti in appositi armadietti, gli studenti hanno cominciato addirittura a lasciarli a casa, anche perché il solerte Stefan ha fatto ricorso ad un congegno che rileva la presenza di onde ad alta frequenza e quindi di cellulari accesi. La parte sanzionatoria prevedeva note sul registro quando si era beccati col telefono acceso le prime due volte, mentre alla terza scattava l’espulsione dalla scuola. Ecco come il preside descriveva i suoi ragazzi prima della stretta anticellulari: “A scuola ho trovato la generazione dei sempre connessi. Risposte ai test copiate durante le verifiche, soluzione dei problemi, invio di foto e di messaggi…Insomma, alunni a testa bassa a scrutare il display invece di seguire le lezioni” perché “devi essere sempre connesso, sempre in rete, sempre pronto a rispondere immediatamente a qualsiasi messaggio, anche se è solo un ciao. Soltanto così sei accettato nel gruppo virtuale e non ti senti escluso”. E dopo? Ragazzi più attenti, che addirittura sorvegliano i professori che trasgrediscono. Rendimento nettamente più alto, voti migliori, rapporti con i genitori migliorati. E un senso di libertà mai assaporato prima.
Divieto o educazione? I pareri
Giovanni Boccia Artieri, docente dell’Università di Urbino, intervistato dall’associazione Parole O_Stili esprime una posizione equilibrata e condivisibile: “Non dobbiamo concentrarci né sulla demonizzazione del cellulare né sul suo utilizzo, piuttosto dobbiamo educarci all’uso degli smartphone nei diversi contesti. In questo caso il contesto è la classe, quindi è importante come prima cosa insegnare a regolare il tempo dell’apprendimento con smartphone da quello senza smartphone. Un esempio: se l’insegnante spiega Catullo e i ragazzi guardano i telefoni non c’è educazione all’utilizzo, tutt’altra esperienza invece viene fatta se con il cellulare si fa una ricerca attiva proprio su Catullo, portando dei contenuti aggiuntivi alla lezione”.
Lo psichiatra Paolo Crepet è d’accordo con le soluzioni drastiche, che comportino il divieto assoluto non di utilizzare, ma proprio di portare lo smartphone in classe: “Vietare i telefonini comporta un netto calo dell’aggressività, un aumento netto di capacità cognitive, memoria e attenzione e, soprattutto, un aumento netto delle relazioni sociali ed emotive”.
Smartphone a scuola: un tema al centro del dibattito non solo in Italia
Ma il tema dell’uso nelle scuole degli smartphone è da tempo al centro del dibattito pubblico, in Italia e nel mondo.
Nel Regno Unito, un sondaggio ha certificato che poco meno della metà dei genitori pensa che la scuola dei propri figli dovrebbe vietare i telefoni cellulari.
Il loro utilizzo è generalmente lasciato alle decisioni delle singole scuole, e la percentuale di esse che vieta l’uso di smartphone è cresciuta dal 50 al 90% dal 2007 al 2012. Studi della London School of Economics attestano che dove si è applicato il divieto si è recuperato il tempo equivalente a una settimana di lezioni.
Negli Stati Uniti sono diffuse normative fortemente restrittive. I benefici derivanti dalle limitazioni all’uso dei telefoni cellulari e degli altri dispositivi elettronici sono stati in molti casi salutati con favore dagli stessi studenti.
In Svezia il 57% degli studenti interessati dal divieto (operante nella fascia di età 10-15 anni) ha giudicato in modo positivo la misura, contro il 14% che vorrebbe più elasticità.
Dopo il crollo nel ranking PISA (programma dell’OCSE per la valutazione internazionale degli studenti. PISA misura la capacità dei quindicenni di utilizzare le loro conoscenze e abilità di lettura, matematica e scienze per affrontare le sfide della vita reale) del 2008, l’Australia ha investito somme ingentissime per l’acquisto di portatili da per le scuole. Dal 2016 si è invertita la rotta: gli studenti coi portatili avevano fatto di tutto, tranne che studiare.
In Cina è vietato l’uso del telefono a scuola, ciò, secondo il governo, per proteggere la vista dei giovani, migliorare la loro concentrazione e prevenire la dipendenza da Internet; gli studenti possono portarlo solo previo consenso scritto dei genitori. Secondo il China Internet Network Information Center (ente governativo) il 74% dei minori di 18 anni accede a Internet tramite il proprio smartphone.
Alcuni rimedi adottati sono in linea con la postura del regime: talvolta i telefoni sono stati distrutti davanti a studenti che avevano infranto le regole.
In Francia, dal 2018 è proibito l’uso dei telefoni nelle scuole primarie e medie. I bambini sotto i 15 anni devono tenere i loro telefoni cellulari fuori dalla vista.
La Corea del Sud è al primo posto per possesso di smartphone con il 96%. Inoltre, sempre più scolari ne stanno diventando dipendenti. Più del 99% di tutti gli adolescenti sudcoreani ha utilizzato uno smartphone nel 2021. Un’indagine del Ministero sudcoreano della Scienza e delle TLC ha svelato che 1,3 milioni di studenti iscritti alla quarta elementare e ai primi anni delle scuole medie e superiori lo usano, e che il 25% è fortemente dipendente da esso e da Internet, mentre i bambini coreani hanno accesso agli smartphone già all’età di tre anni. Dei test mostrano che i bambini in Corea che trascorrono in media 3 ore al giorno su smartphone e tablet ottengono punteggi inferiori nei test di lingua.
La diffusione degli smartphone trova una formidabile collaborazione nelle startup coreane di Edtech, le quali agiscono nel campo dell’istruzione realizzando app per apparati mobili o computer. Una di queste, SmartStudy ha sviluppato un marchio, ” PinkFong “, diventato un successo globale. SmartStudy crea contenuti educativi di intrattenimento per i bambini su Youtube e si sta attrezzando per creare programmi televisivi animati, musical e persino lungometraggi.
In Corea del Sud già da alcuni anni esiste una legge che limita e regolamenta l’uso dello smartphone da parte dei minori di 19 anni: si tratta del primo provvedimento di questo genere. Per attuare il provvedimento viene utilizzato un software che blocca l’accesso alla pornografia e alla violenza, registra la durata delle sessioni e avvisa i genitori quando determinate parole («suicidio «gravidanza», «bullismo») vengono digitate sullo smartphone. I genitori vengono allertati anche quando l’uso quotidiano dello smartphone (che per la fascia della popolazione indicata si aggira in media sulle 5,4 ore) supera una determinata soglia prestabilita.
Anche in Sri Lanka niente telefoni cellulari nelle scuole già dal 2009, come rimedio a una serie di incidenti che hanno portato anche alla morte di qualche studente.
Un’indagine conoscitiva sull’uso dello smartphone: i risultati sono “agghiaccianti”
E in Italia? Dopo la decisione del 2007, della quale abbiamo riferito, nel 2016 era stata paventata una svolta a 360 gradi, quando l’allora sottosegretario all’Istruzione si era impegnato a revocare il divieto del 2007, definendolo addirittura “un’idiozia” e motivando nel modo che segue il suo intento: “Il governo sta investendo molto per digitalizzare le nostre scuole, quindi vietare l’uso di telefoni e tablet in classe è un po’ una contraddizione”.
Per fortuna, alle parole non seguirono i fatti.
Nel giugno del 2021 la Commissione Istruzione del Senato, dopo 2 anni di lavoro, ha ultimato un’indagine conoscitiva che è stata consegnata al Parlamento e al Governo. Il suo presidente, il senatore Andrea Cangini, ha presentato una proposta di legge (decaduta ora causa fine legislatura), che prevedeva il divieto di portare gli smartphone in classe, una volta per tutte e superando l’autonomia decisionale delle singole istituzioni scolastiche. Essa, secondo il suo estensore, metteva l’accento “sui fenomeni patologici conseguenti all’esplosione dell’utilizzo anche fra i più giovani di smartphone e tablet: non solo sexting, cyberbullismo o abusi ben noti alla cronaca” e neppure soltanto “per la necessità di preservare in classe un clima di attenzione”. L’obiettivo era più ambizioso: salvaguardare “la dimensione «relazionale» della scuola, come laboratorio d’incontro, confronto e condivisione fra i ragazzi, come persone fisiche che vivono nella vita reale, e non solo in quella virtuale. In poche parole, la vita in classe deve essere un’esperienza materiale, umana, non una mera compresenza fisica”.
Paventando un provvedimento ancora più drastico per vietare l’uso e la vendita di smartphone ai minori di 14 anni, il presidente della Commissione dichiarava che “Quasi un terzo del tempo che i ragazzi passano in aula a scuola, lo passano smanettando sui propri smartphone mentre il professore spiega o interroga un compagno. Fatto sta che così facendo, un terzo della lezione è persa”, aggiungendo indicativamente, come ha fatto di recente il dirigente della scuola di Bologna, che “i capi delle aziende della Silicon Valley hanno vietato ai loro figli più piccoli gli smartphone, l’uso dei social e hanno scelto scuole non digitalizzate”.
Tutto ciò a valle di un’indagine conoscitiva molto approfondita, alla quale hanno dato il loro contributo psicologi, neurologi, psicoterapeuti, pedagogisti e sociologi sul rapporto tra la tecnologia digitale e gli studenti. Le risultanze vengono definiti agghiaccianti: “I lockdown hanno aumentato la dipendenza e non possiamo continuare a far finta che il fenomeno non esista, perché parliamo di minorenni. Servono regole più stringenti per il web e c’è la necessità di far rispettare quelle che già ci sono, come il divieto di usare i telefonini in classe”. Il senatore Cangini ha raccolto le testimonianze fornite in sede di Commissione in un volume dal titolo emblematico: “Coca web. Una generazione da salvare”.
Bambini troppo soli davanti agli smartphone: ecco che cosa può fare la scuola
Emergenza smartphone: il parere del neuropsichiatra
Abbiamo scelto di andare ad approfondire, tra i tanti apporti al lavoro parlamentare, il pensiero di due autorevoli studiosi.
Il primo è Manfred Spitzer, neuropsichiatra tedesco, direttore del Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm. Da anni si occupa di sviluppo cerebrale e di rapporto di questo con l’utilizzo dei media digitali. Spitzer ha pubblicato, tra gli altri, nel 2012 “Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi”, e nel 2019 “Emergenza smartphone. I pericoli per la salute, la crescita e la società”. Abbiamo effettuato un focus sul sesto capitolo di quest’ultima pubblicazione, dedicato specificamente all’istruzione.
Scrive Spitzer che i bambini hanno bisogno di contatti con i loro pari, con adulti comprensivi e affettuosi e con la natura, non di avere a che fare con l’information technology, né nel loro tempo libero né durante il tempo che passano a scuola.
È dimostrato che un uso acritico dell’information technology ne danneggia lo sviluppo fisico, emotivo, mentale e sociale.
L’elenco dei rischi e degli effetti collaterali comprende sedentarietà e danni alla postura, miopia, sovrappeso, pressione alta, controllo metabolico prediabetico, disturbi del sonno (e quindi sonnolenza diurna), aumento dei comportamenti a rischio nei rapporti sessuali e nel traffico stradale. Insieme a questi problemi fisici si sono riscontrati anche disturbi dell’attenzione, ansie, depressione (autolesionismo e propositi suicidi inclusi), stress, dipendenza (da computer, internet, giochi, smartphone), aumento del consumo di alcol e tabacco, diminuzione del successo accademico, abbandono scolastico. L’information technology aumenta inoltre l’aggressività e fa diminuire l’empatia nei confronti di amici e genitori.
Il rapporto fra uso dei media digitali e rendimento scolastico
D’altro canto, non si è riusciti finora a dimostrare nessuno dei presunti effetti positivi delle nuove tecnologie in ambito educativo. Al contrario, una serie di studi ha dimostrato che maggiore è il tempo passato da uno studente sui media digitali peggiore sarà il suo rendimento scolastico. Analizzando dati tratti dagli studi PISA, un gruppo di economisti monacensi ha scoperto che i quindicenni col computer in camera hanno prestazioni scolastiche peggiori dei coetanei che non l’hanno. Contrariamente a quanto spesso si afferma, la loro introduzione a scuola determina un peggioramento dei voti per le seguenti ragioni:
- L’utilizzo dell’information technology durante le lezioni distrae, determinando così un calo dell’apprendimento del 10-15 percento a seconda dello studio. Il multitasking provoca disturbi dell’attenzione. Per avere informazioni, i motori di ricerca sono utili solo quando chi effettua la ricerca sa già molto dell’argomento. Quando invece si sa poco o nulla, è meglio servirsi di strumenti d’apprendimento strutturati come i libri di testo;
Quando i media digitali vengono usati per registrare informazioni, ciò provoca un calo nella capacità di ritenere i dati raccolti in quanto inducono negli utenti un trattamento superficiale delle informazioni registrate (quando invece una rielaborazione mentale approfondita del materiale è essenziale per la sua ritenzione;
- L’uso dei libri di testo elettronici al posto di quelli cartacei fa diminuire il rendimento scolastico. L’85 % degli studenti della Silicon Valley predilige la lettura dei libri stampati;
- La capacità di trattenere in memoria i contenuti di una lezione è più elevata se si prendono appunti scrivendo anziché digitando su di una tastiera: 5 studi sperimentali, realizzati da due ricercatori statunitensi, lo hanno dimostrato.
Gli effetti della presenza dei dispositivi digitali degli studenti durante le lezioni: gli studi
Nel 2016 un gruppo presieduto da Rudolf Kammerl, esperto di scienze della formazione, ha pubblicato i risultati di uno studio sugli effetti della presenza dei dispositivi digitali degli studenti durante le lezioni.
La digitalizzazione delle lezioni è chiamata con l’acronimo BYOD («Bring Your Own Device, Porta il tuo dispositivo»). La percentuale di chi impara a usare i media digitali a scuola è in costante diminuzione. Nel 2003 era del 21% secondo la media OECD e del 10% in Germania; nel 2009 ammontava all’8% e nel 2016 al 4%.
Gli studenti e gli insegnanti durante la lezione usano i loro dispositivi per scopi ben diversi dall’apprendimento (sms, giochi). Se gli studenti ascoltano la lezione mentre sono impegnati in altre attività sullo smartphone, sul tablet o sul portatile, ciò compromette i loro progressi nell’apprendimento. Può essere dimostrato per via empirica che occuparsi frequentemente sul portatile di argomenti non rilevanti per lo studio peggiora l’ apprendimento: gli studenti che non avevano con sé i loro dispositivi digitali erano più attenti.
Gli studenti usano i media digitali con ingenuità imbarazzante: «Quando ci s’imbatte in due informazioni che si contraddicono a vicenda, il più delle volte si cerca di capire quale delle due è vera chiedendo a persone competenti o cercando un’altra fonte. È abbastanza raro che ci si rivolga alla letteratura specialistica. I partecipanti al progetto mostravano con maggior frequenza una significativa propensione a servirsi semplicemente della fonte più comprensibile e a preferire le fonti facilmente accessibili, indipendentemente dalla loro credibilità».
Per quanto riguarda la competenza nell’acquisire e gestire le informazioni, gli studenti maggiormente competenti utilizzavano in misura significativamente minore Wikipedia rispetto alle biblioteche.
Lo studio non ha rilevato nessun rapporto tra utilizzo della information technology e miglioramento della preparazione: «Nei paesi che hanno fortemente investito nelle tecnologie informatiche e della comunicazione, i risultati non mostrano miglioramenti per quanto riguarda le prestazioni degli studenti nella lettura, in matematica o nelle scienze». In riferimento alla matematica è stata persino riscontrata una correlazione evidentemente negativa.
Connessi e isolati
Uno studio pubblicato recentemente da ricercatori dell’Università del Michigan s’intitola “Logged in and zoned out” (Connessi e isolati). Durante una lezione svoltasi col supporto di computer, i ricercatori hanno registrato e valutato il traffico internet complessivo degli 84 partecipanti a un corso. Hanno inoltre intervistato gli studenti (di età compresa tra 17 e I8 anni) sul loro uso dei media digitali nel corso delle lezioni durante le quali potevano connettersi personalmente mediante username e password a un server proxy appositamente predisposto, usando quindi i loro computer come erano soliti fare. Alla fine del corso sono stati intervistati sul loro utilizzo della tecnologia digitale.
Risultato: tra la buona riuscita dell’apprendimento e il tempo passato sul computer a consultare contenuti inerenti al corso non è stata rilevata alcuna correlazione. Si è invece visto che il maggiore interesse degli studenti per il corso si accompagnava a un uso più ridotto del portatile per consultare contenuti non legati ai temi delle lezioni. La quantità del tempo «sprecato» è stata notevole, con una media di 37 minuti (33,6 %) su 110 minuti complessivi di lezione. La maggior parte dei 37 minuti veniva passata sui social; seguivano e-mail, shopping, video, chat, notizie e giochi sul computer.
Malgrado questi risultati, gli studenti ritenevano che il loro apprendimento non fosse stato compromesso dall’uso del computer.
Gli autori dello studio concludono: “Da un lato navigare sui siti che trattano temi inerenti a quelli delle lezioni non produce alcun vantaggio; dall’altro l’uso di internet per usi non accademici è sfavorevolmente associato alla buona riuscita dell’apprendimento”.
Gli argomenti dei “pro-smartphone” smontati uno per uno
Spitzer si addentra poi nel dibattito in corso in Germania: proibire o distribuire gratuitamente gli smartphone nelle scuole?
La presidentessa dell’Associazione bavarese degli insegnanti Simone Fleischmann si è scagliata contro il divieto, utilizzando alcune motivazioni che lo studioso definisce “i soliti argomenti” e che provvede a smontare uno per uno.
Primo argomento: gli smartphone fanno parte della vita dei bambini e dei ragazzi, i quali devono pertanto imparare a usarli il prima possibile.
Spitzer: molti elementi fanno parte della vita di milioni di bambini, ma non per questo sono automaticamente positivi, come respirare aria inquinata sulla strada che porta a scuola.
Secondo: vietando i cellulari non glieli si leva certo dalla testa.
Spitzer: alcune sperimentazioni (riportate in altra parte del volume, n.d.r.) dimostrano che se il dispositivo si trova sulla scrivania, i suoi effetti negativi aumentano rispetto a quando lo si lascia in un’altra stanza. Ciò certifica che le cose stanno esattamente al contrario di quanto affermato.
Terzo: la società del futuro sarà digitale e questa tendenza non può essere in alcun modo modificata.
Spitzer: se si usassero questi argomenti in relazione ad altre tematiche, l’amianto sarebbe ancora e per sempre nelle nostre case.
Quarto: possiamo decidere che le nostre scuole siano zone protette, senza smartphone. Ma quando i ragazzi ne usciranno, si troveranno esposti al confronto internazionale.
Spitzer: i bambini hanno bisogno di zone protette. Per questo non permettiamo loro di andare nei quartieri a luci rosse o in zone a rischio per la criminalità.
Quinto: se non a scuola, in quale altro luogo si deve imparare a fare uso delle nuove tecnologie?
Spitzer: solo un bambino su 25 impara a usare le tecnologie digitali a scuola, mentre gli altri 24 ne fanno già uso. Data l’alta frequenza del loro uso fuori dobbiamo adoperarci per la sua riduzione a scuola; anzi, la cosa migliore sarebbe non farne alcun uso a scuola. Gli smartphone, infatti, inducono dipendenza. E come si combatte la dipendenza dal consumo di una certa sostanza, per esempio alcol o droga? Non consumandola.
Sesto: a scuola ci sono già molte regole, dunque basterà introdurne altre per stabilire il corretto uso dello smartphone.
Spitzer: nei giovani il lobo frontale non è ancora pienamente sviluppato. Per questa ragione hanno problemi a seguire persino le regole più elementari. Se non se ne prende atto e li si tratta come dei piccoli adulti, si finisce per pretendere troppo da loro.
Settimo e ultimo argomento: l’educazione ai media va pensata e realizzata in grande stile. Lo stato dovrebbe mettere a disposizione di ogni studente uno smartphone da utilizzare per le lezioni.
Spitzer: la distribuzione gratuita di cellulari si accompagna regolarmente al calo delle prestazioni degli studenti. Il fenomeno è stato studiato nell’ambito di una ricerca in cui agli studenti veniva regalato un iPhone e, trascorso un anno, s’indagava sugli effetti prodotti: gli studenti hanno riferito di un aumento delle distrazioni e del peggioramento sia nelle prestazioni scolastiche sia nei voti.
Alcuni economisti londinesi nel 2015 hanno pubblicato
uno studio sulla proibizione dei cellulari in 90 scuole dell’area metropolitana di Londra tra il 2002 e il 2012.
I ricercatori hanno esaminato i voti di più di 130.000 studenti nel periodo compreso tra i cinque anni di divieto e i cinque anni seguenti. Già un anno dopo l’introduzione del divieto le prestazioni degli studenti erano significativamente migliorate e negli anni seguenti il miglioramento si è ulteriormente accentuato. Particolare interessante: gli studenti le cui prestazioni sono migliorate in modo più accentuato sono stati quelli che avevano i voti peggiori prima del divieto. In altri termini: gli studenti migliori (20 % dei partecipanti) non sono migliorati dopo l’entrata in vigore del divieto, mentre gli studenti peggiori (un altro 20 %) sono migliorati nel modo più evidente.
Riassumendo: quando si distribuiscono gratuitamente smartphone agli studenti, le prestazioni degli studenti peggiorano, mentre quando se ne proibisce l’uso a scuola le loro prestazioni migliorano. Questo risultato è del tutto compatibile con ciò che abbiamo visto a proposito degli effetti dei computer nelle scuole: nessuno migliora, le prestazioni degli studenti più deboli calano ulteriormente.
Gli effetti negativi dell’IT su salute, educazione e empatia
La dipendenza indotta da internet, dai social e dagli smartphone è un problema globale. Sembra perciò poco sensato anticipare il contatto dei bambini con l’information technology, persino sostenendo che si tratti di una misura preventiva a loro tutela. Le capacità critiche e riflessive devono essere sviluppate perché se ne possa fare uso, e negli anni della scuola dell’infanzia queste capacità sono ben lungi dall’essere pienamente formate.
Il contatto precoce dei bambini piccoli con i media digitali non provoca lo sviluppo delle capacità critiche, ma semmai dipendenza, unitamente al rafforzamento di inclinazioni negative (come quella al soddisfacimento rapido dei bisogni). Se si vogliono prevenire i fenomeni di dipendenza nei bambini, la riduzione dell’utilizzo dei media digitali dev’essere allora il provvedimento più importante da prendere. Quanto alla promozione di un loro uso critico, si tratta di una strategia (profilassi contro la dipendenza mediante la promozione delle competenze digitali) che ha senso solo a partite dall’adolescenza, la cui efficacia non è stata peraltro ancora dimostrata con dati empirici.
Altro tema sviscerato da Spitzer nel sesto capitolo di Emergenza smartphone è quello degli effetti negativi dell’information technology sulla salute e l’educazione dei giovani nell’ambito dell’empatia e della formazione della volontà.
Gli esseri umani imparano l’empatia non diversamente dal modo in cui imparano a camminare o a parlare, ossia facendo molte esperienze individuali. Guardando gli schermi, la facoltà di immedesimazione non viene esercitata: è stato dimostrato che i giovani provano meno empatia verso i genitori e gli amici quanto più è elevata la quantità di tempo che passano davanti agli schermi ogni giorno.
La formazione della volontà
S’impara anche a formare la propria volontà, s’impara a «fare quello che si vuole», come s’impara a camminare e a parlare, ossia facendo migliaia di esperienze. S’impara a volere volendo qualcosa facendolo. Quando giocano a calcio con gli amici, i bambini hanno prima in mente ciò che vogliono fare, poi agiscono per metterlo in pratica e alla fine sono orgogliosi e soddisfatti di aver fatto qualcosa con le proprie forze. Mentre compiono tali attività, imparano a realizzare piccoli atti di volontà, scoprono di poter avere un’idea e di essere in grado di metterla concretamente in pratica. Lo smartphone sabota questo processo in svariati modi: a causa non c’è tempo per il formarsi idee proprie, dato che lo si guarda più di 200 volte al giorno ed è il dispositivo a dirti come fare le cose. Quando poi si vuole realizzare uno dei propri propositi, lo smartphone distrae in continuazione. Non a caso la parola « Smombie », ossia zombie da smartphone (zombie = persona totalmente priva di volontà), è stata indicata come neologismo dell’anno per il 2015.
Riassumendo: i media digitali, e gli smartphone in particolare, danneggiano la salute e l’istruzione dei giovani, ostacolando lo sviluppo delle capacità empatiche e il processo di formazione della volontà.
La digitalizzazione delle scuole dell’infanzia e delle primarie rischia pertanto di compromettere ambiti che vanno ben oltre lo svolgimento dei programmi scolastici.
L’atteggiamento della lobby dell’information technology
A monte del discorso sull’utilizzo degli smartphone, a scuola e in generale, vi è la necessità di capire l’atteggiamento della lobby dell’information technology. Essa, in effetti, non si comporta diversamente dalla lobby del tabacco o da quella dell’industria alimentare.
E a proposito della spinta all’utilizzo di tali strumenti anche da parte dei bambini, associazioni di pedagogisti e sindacati di educatori chiedono da anni l’introduzione del patentino digitale nelle scuole primarie. Secondo Spitzer questa è una proposta tanto poco sensata quanto lo sarebbe quella di introdurre la patente di guida nelle scuole primarie. Internet e smartphone comportano l’accesso a quello che è insieme il più grande quartiere a luci rosse e la scena del crimine più estesa del mondo. La patente di guida si prende dopo aver compiuto i 17 anni (in Germania), dato che la partecipazione attiva al traffico stradale richiede un minimo di capacità critica, autocontrollo e integrità morale. Le cose non dovrebbero stare diversamente per il patentino digitale.
Conclude Spitzer: è venuto il momento di mettere a tacere il battage in favore della digitalizzazione e di far parlare i fatti, soprattutto perché in gioco ci sono la salute e l’istruzione delle nuove generazioni. Non possiamo voltare la testa dall’altra parte e lasciare che il processo fallimentare in atto continui il suo corso, sacrificando le nuove generazioni agli interessi e ai profitti di società come Apple, Google, Microsoft, Facebook e Amazon. È un comportamento del tutto irresponsabile.
Fuori il digitale dalle scuole: i dati
Andrea Marino, Psicoterapeuta dell’Istituto di Terapia Cognitivo-lnterpersonale di Roma, ha contribuito all’indagine conoscitiva della Commissione Istruzione del Senato italiano con una relazione che già nel titolo esprime una posizione netta sul problema: “Fuori il digitale dalla scuola, lo dicono i dati”.
Secondo Marino, il funzionamento della dipendenza agisce fin dal primo anno di età e influisce anche sull’apprendimento. Tutto quello che facciamo lo facciamo non più scrivendo a mano, ma ormai quasi esclusivamente digitando: questo influisce sulla nostra neuroplasticità. Questo cambiamento interviene in misura maggioritaria proprio in fase di apprendimento e i neuroni e il sistema neurofisiologico sono attivi soprattutto nei primi anni di vita e, in generale, fino alla pubertà.
Gli effetti sulla neuroplasticità
Il fenomeno sta incidendo proprio sulla neuroplasticità, che è lo stato di normalità del nostro sistema nervoso, che ci permette di adattarci a situazioni ambientali e cambiamenti fisiologici. Il sistema nervoso si adatta e muta in base ai condizionamenti. Quando alcuni circuiti del nostro cervello si rafforzano, attraverso la ripetizione di un’attività fisica o mentale, cominciano a trasformare un’attività in abitudine.
La nostra abitudine, oggi, non è più quella di scrivere e attivare i circuiti neurofisiologici della scrittura. Abbiamo cambiato il circuito neurofisiologico con conseguente differenziazione ormonale e morfologica del sistema nervoso. Centinaia di video su YouTube mostrano bambini di un anno ai quali viene data una rivista o un foglio di carta e, piuttosto che sfogliarlo, vi cliccano sopra. Questo sta modificando il sistema neurofisiologico sin dall’età neonatale. Ovviamente tutto ciò incide sull’apprendimento, perché se un bambino arriva a scuola con un sistema neurofisiologico già improntato su questa struttura e in questa direzione, verrà modificata in lui la ricezione di un apprendimento, in questo caso di tipo scolastico. Lo stesso avviene per la lettura.
Gli effetti (negativi) sull’istruzione
Passando ai dati relativi all’apprendimento, sono disponibili numerose ricerche che dimostrano come la tecnologia informatica eserciti un effetto negativo sull’istruzione. Confrontando il rendimento di soggetti che studiano, con o senza computer, si evidenzia un effetto negativo sui risultati del gruppo di studio con mezzi informatici.
Nel 2002, due economisti di rilevanza internazionale hanno denunciato, dopo l’introduzione dei computer nelle scuole di Israele, un abbassamento del rendimento in matematica in alunni di quarta elementare e ulteriori effetti negativi in altre materie negli allievi delle classi superiori. Altri ricercatori, pur non avendo rilevato effetti negativi nella lettura coadiuvata da computer, hanno comunque escluso ripercussioni positive. Circa l’utilizzo dei computer a scuola, gli studenti che non utilizzano mai questo strumento ottengono più raramente brutti voti rispetto a quelli che invece lo utilizzano anche solo poche volte l’anno. Anche le capacità di lettura e di calcolo dei soggetti che stanno al computer più volte a settimana sono decisamente peggiori, e lo stesso vale per l’utilizzo di Internet a scuola.
Disturbi dell’attenzione
I dati provenienti da ogni parte del globo dimostrano anche che l’utilizzo dei computer nei primi anni di scuola materna può provocare disturbi dell’attenzione. Da qui l’impennata negli ultimi cinque o dieci anni di patologie ascrivibili ai disturbi dell’attenzione, come l’Attention deficit hyperactivity disorder (Adhd), soprattutto nella scuola materna. In età scolare si registra un incremento dell’isolamento sociale. Più i bambini studiano attraverso una tecno-mediazione, di gruppo o individuale, più sono invitati a stare e ragionare da soli. Alcune valutazioni fatte in Perù e Uruguay hanno evidenziato che i bambini con accesso ai computer portatili a scuola non hanno ottenuto risultati migliori nei test, rispetto a studenti senza computer, e che eseguivano meno volentieri i compiti a casa.
Nella Corea del Sud un’indagine del 2010 ha evidenziato come già il 12% di tutti gli studenti avesse sviluppato dipendenze da Internet. È evidente il legame tra la dipendenza e l’apprendimento sollecitato attraverso la tecno-mediazione. Lo stesso accade con l’uso di Internet a scuola. L’uso di Internet, oltre all’utilizzo della lavagna digitale, incrementa le potenzialità negative del mezzo. Una ricerca condotta nel 2006 presso dieci scuole della California e del Maine ha confermato le conseguenze negative dei computer portatili a scuola. Nel North Carolina, da una ricerca condotta tra i ragazzi di quinta elementare è emerso che l’accesso a un computer portatile e a Internet a casa abbassa il rendimento scolastico in matematica e in letteratura. Lo studio con i media elettronici è più faticoso per chi apre troppi hyperlink in quanto perde facilmente il filo del discorso; questo lo induce a una ristrutturazione cognitiva e ideativa delle immagini, spezzando la narrativa interna.
In generale, la tecnologia, soprattutto quella collegata a Internet, induce alla distrazione e a una iperattivazione. Ciò è indotto, purtroppo, sin dai primi anni di vita in famiglia attraverso la tecno-mediazione nell’apprendimento. Questo è confermato da tutta una serie di studi di neuroimaging. Marino conclude il suo ragionamento rilevando come, paradossalmente, il fatto che
l’infrastruttura in Italia sia qualche anno indietro rispetto a quella di altri Paesi (prendiamo la Corea del Sud) possa costituire un vantaggio: possiamo sapere in anticipo quali sono i rischi di una iper-tecnologizzazione e di un abuso della tecnologia.
Conclusioni
Bisogna ragionare su strumenti, tempi e modi di gestione dei mezzi che, sin da bambini, mediano la relazione tra noi stessi e gli altri. Per ridurre la dipendenza occorre arginare i tempi e i modi dell’oggetto della dipendenza stessa. Essa anni addietro riguardava le sostanze e ora riguarda anche la tecnologia, e il rimedio non può che essere lo stesso: limitarne l’utilizzo, così come per la droga o l’alcol.
In conclusione, e per tornare alla determinazione con la quale il giovane preside di Bologna (non solo lui, invero) ha affrontato il problema nell’ambito scolastico, sembra oramai non più rinviabile una decisione a livello legislativo che ponga termine alle incertezze finora rilevate. Imporre un divieto, di qualsiasi genere, è sempre un atteggiamento da evitare, fin quando ciò è possibile. Fino a quando, cioè, il danno prodotto non divenga intollerabile a livello individuale e collettivo. La meritoria opera della Commissione del Senato della passata legislatura dovrebbe essere ripresa al più presto per adottare provvedimenti non più procrastinabili. Per la salute e l’apprendimento dei ragazzi e per consentire agli operatori della scuola, come ha dichiarato il preside Ferrari, di fare al meglio il loro importantissimo lavoro.