L’introduzione sempre più pervasiva dei sistemi di intelligenza artificiale sta inducendo una trasformazione profonda del nostro stile di vita, dei nostri standard lavorativi, delle nostre prospettive strategiche.
Indice degli argomenti
L’intelligenza artificiale come nuova grammatica del lavoro
Tuttavia, al di là di qualche forma di accelerazione, tutto sembra aver conservato tratti familiari. Uffici ibridi, meeting online, strumenti digitali non sono altro che la smaterializzazione – tendenzialmente parziale – di processi e comportamenti che caratterizzavano l’ordinarietà del lavoro quotidiano.
Sotto la superficie, però, c’è una trasformazione in atto che ricombina in maniera profonda modalità organizzative, gestionali e strategiche. Tra i tanti dibattiti, che spesso generano più rumore che chiarezza, e le tante polemiche che alimentano la polarizzazione, dobbiamo riconoscere l’evidenza di condizioni che cambiano in maniera sostanziale. L’intelligenza artificiale non è semplicemente uno strumento, ma una nuova grammatica del potere cognitivo.
Come era già avvenuto per l’elettricità nell’Ottocento, o per la diffusione di Internet negli anni ’90 del Novecento, l’IA non si limita ad estendere le nostre capacità, né ad accelerare le nostre attività, ma riformula in modo radicale il nostro stesso modo di concepire le nostre possibilità.
Sta trasformando il lavoro e il modo in cui lo possiamo svolgere, certo, ma sta anche rivoluzionando il modo in cui lo definiamo, lo riconosciamo o lo valorizziamo. La questione, com’è ormai evidente, non è più soltanto se l’IA ci sostituirà, anche semplicemente in parte.
Le domande urgenti, strutturali, imprescindibili, dovrebbero essere altre: chi sta guidando questa trasformazione? Secondo quali logiche? Con quale idea di umanità? Con quale idea di competitività? Con quale idea di futuro?
La necessità strategica di interrogarsi sui futuri possibili del lavoro
Si rischia sempre di fraintendere queste domande come una sorta di eccesso di filosofia, quando invece dovrebbero essere percepite nella loro rilevanza marcatamente strategica. Interrogarsi sui futuri possibili non significa indugiare in meri esercizi di simulazione, ma riconoscere la necessità di interrogarsi su rischi e potenzialità di un presente che ci mette di fronte a variabili e possibilità fino ad oggi difficilmente immaginabili (certamente, di rado immaginate).
La posta in gioco è ben più ampia e profonda della semplice necessità di riorganizzazione di modalità operative o gestionali, di ridefinizione delle competenze o di ripensamento delle strategie di management. Il lavoro non sta scomparendo, ma sta cambiando natura, visione, orizzonti. In questa metamorfosi, che non può essere fermata, siamo chiamati a scegliere quale ruolo vogliamo assumere. Dobbiamo decidere se essere architetti consapevoli, o spettatori passivi.
Intelligenza artificiale come tecnologia abilitante per amplificare le capacità umane
Nel dibattito odierno sull’intelligenza artificiale e sul suo impatto, le narrazioni predominanti oscillano tra l’entusiasmo utopico e la distopia apocalittica. Tuttavia, al di là di queste polarizzazioni, emerge una prospettiva più concreta e promettente: l’IA come tecnologia abilitante, capace di amplificare le capacità umane anziché sostituirle.
Secondo il Rapporto sullo Sviluppo Umano 2025 del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), il valore vero dell’IA potrebbe risiedere nella sua capacità di integrarsi, in maniera complementare, con l’intelligenza umana. Se le macchine possono elaborare, classificare o simulare in maniera esponenzialmente più rapida e accurata, spetta a noi interpretare, prendere decisioni e stabilire una direzione. È in questo equilibrio fluido, ancora scarsamente analizzato, che si gioca la co-evoluzione necessaria tra umano e tecnologia.
Evidenze pratiche dell’impatto positivo dell’intelligenza artificiale nel lavoro
L’evidenza dell’impatto positivo, tuttavia, non è sufficiente, per determinare una strategia di adattamento realmente proficua e sufficientemente adattiva.
In ambito medico, l’IA sta rivoluzionando la capacità diagnostica, sia a livello di accuratezza, sia a livello di velocità e precocità.
Nel settore della logistica, l’IA permette di ottimizzare le rotte globali e di anticipare i colli di bottiglia, migliorando l’efficienza operativa e riducendo gli sprechi, in tutta la filiera di produzione e distribuzione.
Nella ricerca scientifica, l’IA permette di elaborare ipotesi sperimentali, che i ricercatori sono chiamati a valutare, rielaborare e validare, potenzialmente accelerando il progresso della conoscenza.
Tuttavia, la co-evoluzione tra umano e IA non è automatica, ma richiede una progettazione consapevole, minuziosa e di lungo periodo. Come evidenziato dal rapporto UNDP, ogni strumento, se adottato senza un preciso criterio d’uso, rischia di trasformarsi da alleato potenziale in vincolo indiretto, alimentando meccanismi di dipendenza strategica o di irrilevanza competitiva. Pertanto, la vera domanda che siamo chiamati a porci oggi non è cosa possa fare l’IA, ma cosa noi potremo – e dovremmo – scegliere di farle fare.
Potenzialità e rischi della co-evoluzione tra umano e intelligenza artificiale
In definitiva, l’IA può rappresentare una straordinaria opportunità, per amplificare le capacità umane e affrontare con maggiore adattabilità, lungimiranza ed accuratezza le vecchie e le nuove sfide globali. Tuttavia, per realizzare pienamente questo potenziale, è fondamentale adottare un approccio realmente centrato sull’umano, che permetta di valorizzare la complementarietà tra intelligenza artificiale e intelligenza umana, al di là di ogni retorica banalizzante e di ogni ingannevole narrazione di rassicurazione.
L’IA genererà effetti profondi, cambierà la filiera del valore, stravolgerà la natura di molte funzioni e di molti ruoli. In questa disruption, dobbiamo capire come gestire la capacità di adattamento e come definire vere strategie di armonizzazione delle potenzialità e dei rischi.
I rischi sistemici: quando il lavoro si frantuma
L’intelligenza artificiale, tecnologia ad alta capacità adattiva e diffusiva, non si limita tuttavia ad introdurre nuove opportunità o rischi inediti: come abbiamo visto, ristruttura in profondità le condizioni materiali e le implicazioni simboliche del lavoro. Più che un semplice agente di cambiamento, come spesso viene definito, l’IA agisce come potenziale amplificatore delle tensioni e delle fratture già esistenti – economiche, sociali e cognitive – riconfigurando i rapporti tra competenza, valore individuale e legittimità di ruolo e di funzione, all’interno di sistemi produttivi che rischiano di risultare sempre più opachi. Le sue implicazioni non si esauriscono quindi nella mera sostituzione delle mansioni, come spesso ci si ritrova a dichiarare, ma si estendono alla ridefinizione del ruolo sociale delle professioni e dei criteri stessi di inclusione economica.
Uno dei fenomeni emergenti, spesso sottovalutato, è quello della cosiddetta “sostituzione selettiva”: non l’eliminazione di interi mestieri, o di interi segmenti delle filiere organizzative, ma l’automazione di specifici compiti all’interno di esse. Secondo un’analisi dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), le professioni di carattere impiegatizio sono particolarmente esposte, con differenziazione evidente nei diversi scenari socio-economici. Questo processo di frammentazione del lavoro, com’è evidente, può portare rapidamente a configurazioni occupazionali più precarie, più facilmente sostituibili e per questo meno tutelate.
Disuguaglianze amplificate dall’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro
L’impatto dell’IA, tuttavia, non è uniforme, ma replica, amplificandone l’impatto, le asimmetrie e le discriminazioni strutturali che già caratterizzano il mondo del lavoro: colpisce infatti in modo sproporzionato donne, giovani e lavoratori dei Paesi a basso reddito. Il rapporto dell’ILO evidenzia che le donne sono tre volte più esposte, rispetto agli uomini, al rischio di perdere il lavoro a causa dell’automazione guidata dall’IA, soprattutto per ruoli amministrativi e di gestione basica, storicamente (e statisticamente) attribuiti più spesso a profili femminili. Inoltre, nei Paesi a basso reddito, per quanto l’esposizione all’automazione sia limitata (0,4% dell’occupazione totale), l’adozione dell’IA potrebbe accentuare rapidamente il divario di produttività, rispetto ai Paesi ad alto reddito.
Necessità di politiche inclusive per governare l’intelligenza artificiale nel lavoro
Anche il report “Mind the AI Divide“, co-prodotto da Nazioni Unite ed ILO e pubblicato nel 2024, sottolinea come la rivoluzione dell’IA rischi di amplificare le disuguaglianze strutturali già esistenti, a livello di filiere locali e di value chain globale. Chi ha accesso a dati, infrastrutture e competenze potrà guidare la trasformazione, riducendo il valore di mercato e la capacità negoziale di tutti gli anelli secondari della filiera.
In sintesi, l’IA rappresenta oggi, per il futuro del lavoro, una sfida complessa, difficilmente riconducibile ad interpretazioni lineari, che richiede un approccio proattivo, strategicamente lungimirante, operativamente inclusivo. È fondamentale, oggi più che mai, elaborare politiche capaci di promuovere una nuova concezione di equità, garantendo che l’adozione dell’IA non esacerbi le disuguaglianze esistenti, contribuendo, invece, a un futuro del lavoro più giusto e sostenibile.
Framework istituzionali per monitorare l’impatto dell’intelligenza artificiale
La riflessione istituzionale sull’intelligenza artificiale sta rapidamente evolvendo da una semplice regolamentazione tecnica – con una prospettiva di mera compliance – a una visione più ampia e strutturata, capace di considerare l’impatto sociale, economico e culturale della sua introduzione, sempre più massiva, e delle sue implicazioni.
Come abbiamo visto, l’ILO ha scelto recentemente di aggiornare i framework di monitoraggio sull’esposizione all’IA e di analisi del suo impatto, introducendo gradienti di rischio più raffinati e dati disaggregati per genere e regione, per permettere una più accurata interpretazione delle informazioni a disposizione. Lo studio propone un’analisi a livello globale dell’impatto potenziale dell’IA generativa, in particolare dei modelli GPT, su diverse occupazioni e compiti lavorativi. I risultati mostrano che, ad oggi, solo il lavoro gestionale e ripetitivo è altamente esposto (24% dei compiti ad alta esposizione, 58% a media), mentre per gli altri settori l’esposizione sembra, ad oggi, molto più bassa. L’effetto principale dell’IA sarà l’aumento delle mansioni (cioè l’automazione parziale di alcuni compiti, con la frammentazione dei profili di competenza), anziché la sostituzione completa dei lavori.
L’impatto, ovviamente, varia in modo rilevante tra Paesi: solo lo 0,4% dei posti di lavoro nei Paesi a basso reddito sembra attualmente esposto ad automazione, contro il 5,5% nei Paesi più ricchi. L’effetto più diffuso sembra essere l’aumento del lavoro (fino al 13,4%, nei Paesi ad alto reddito), ma le disuguaglianze infrastrutturali potrebbero ampliare i divari di produttività e generare nuove tensioni ecosistemiche. Lo studio invita tuttavia a considerare i dati con prudenza, come indicatori di tendenze, anziché come precise analisi quantitative, per supportare l’implementazione di politiche lungimiranti e partecipate, capaci di gestire la transizione in modo equo.
Governance europea dell’intelligenza artificiale e coinvolgimento dei lavoratori
A livello europeo, come noto, la Commissione ha adottato l’AI Act, il primo quadro giuridico completo sull’impatto e i rischi dell’IA a livello mondiale. Tra le disposizioni, l’articolo 4 impone al mercato – sia fornitori, sia utilizzatori – la responsabilità di garantire un adeguato livello di alfabetizzazione all’IA per il personale coinvolto. Ciò, inevitabilmente, implica la comprensione delle opportunità e dei rischi associati all’IA, nonché la consapevolezza dei potenziali danni – diretti o indiretti – che ne possono derivare. Questa misura mira, in maniera capillare, a promuovere un’adozione informata e responsabile dell’IA nei luoghi di lavoro.
Tuttavia, la vera svolta culturale nel settore, ad oggi, sembra essere rappresentata dal parere del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) intitolato “Pro-worker AI“, adottato nel gennaio 2025. Il documento sottolinea l’importanza di coinvolgere attivamente i lavoratori nei processi decisionali legati all’adozione dell’IA. Il CESE propone un modello di “co-governance”, in cui i lavoratori entrano in maniera partecipativa nelle valutazioni etiche, nelle scelte architetturali e nelle attività di analisi e supervisione degli algoritmi, laddove, ovviamente, questo sia possibile. In questa visione, la trasparenza algoritmica non viene descritta come un optional di carattere tecnico, o come una caratteristica accessoria, ma come un diritto fondamentale.
In sintesi, le istituzioni stanno progressivamente riconoscendo che l’IA non deve essere trattata solo come una questione tecnologica, ma come un fenomeno sociale ampio e ramificato, che richiede una governance inclusiva e partecipativa. Per garantire che l’IA contribuisca a un futuro del lavoro equo e sostenibile, è quindi essenziale che le politiche pubbliche promuovano l’alfabetizzazione all’IA, garantiscano condizioni di trasparenza e affidabilità, ma soprattutto che favoriscano modelli di coinvolgimento attivo di tutti gli attori interessati.
Geopolitica dell’intelligenza e valore umano: tre fronti della riflessione sul lavoro che verrà
Mai come oggi, parlare di lavoro significa, inevitabilmente, parlare di intelligenza: la nostra, il modo in cui la educhiamo e la preserviamo, ma anche quella codificata, tecnologica, che in qualche modo cerchiamo di proiettare nelle macchine. L’intelligenza artificiale, come abbiamo visto, non deve essere considerata solo come uno strumento tra gli altri, ma come un nuovo ambiente cognitivo, come una tecnologia capace di ridefinire i confini della competenza, le priorità del valore, le dinamiche del potere. E come ogni altra infrastruttura invisibile, apparentemente intangibile, rischia di trasformare le società prima ancora che ce ne rendiamo conto. Per questo occorre guardare con attenzione a tre snodi critici, tre livelli che si intersecano nello spazio culturale e strategico in cui il futuro sta già prendendo forma: quello della soggettività delle competenze, quello del valore irriducibile dell’umano, e quello della distribuzione globale del potere cognitivo.
Competenze situate e co-evoluzione nell’era dell’intelligenza artificiale
Anzitutto, è fondamentale comprendere che la transizione non è mai puramente tecnologica: è antropologicamente soggettiva. L’introduzione dell’IA in ambito lavorativo non si limita a cambiare ciò che facciamo, ma, mentre lo facciamo, genera cambiamenti profondi in ciò che siamo. Si apre un nuovo regime di competenza, in cui il sapere operativo si interseca con quello riflessivo, e la vera abilità non diventa quindi semplicemente “saper usare” un sistema quanto imparare ad abitare con consapevolezza il nuovo spazio decisionale che potenzialmente può aprire. Imparare a lavorare con – e talvolta contro – l’IA significa sviluppare una forma di intelligenza situata: capace di comprendere i contesti, di riconoscere i limiti dell’automazione, di valorizzare ciò che l’algoritmo omette, di mantenere intatta la tensione tra ciò che è ottimale e ciò che è giusto. Le competenze etiche e relazionali, oggi troppo spesso considerate “soft”, sono in realtà caratteristiche strutturali, necessarie, fondanti: sono l’unica architettura capace di resistere in maniera critica, in un mondo che, attraverso sistemi di raccomandazione e abilitazione cognitiva data-driven, rischia di smaterializzare il giudizio umano.
Le organizzazioni che saranno in grado di sopravvivere, pertanto, non saranno quelle più automatizzate, ma quelle capaci di creare ecosistemi in cui l’intelligenza umana e quella artificiale possano co-evolvere, senza confondersi. Quelle in cui il management saprà operare non solo come funzione di controllo, o di gestione, ma come spazio di custodia del senso.
Preservare il valore irriducibile dell’intelligenza umana nel lavoro
Contestualmente, però, dobbiamo imparare a gestire un rischio ancora più profondo e controverso, spesso taciuto perché troppo difficile da gestire a livello culturale e da regolare a livello operativo: quello di ridurre il lavoro umano a un benchmark imperfetto dell’efficienza algoritmica. Se il valore di un’attività viene misurato solo in termini di scalabilità, replicabilità e precisione, inevitabilmente l’intelligenza artificiale è destinata ad imporre i propri standard e ad occupare spazi organizzativi sempre più ampi. Proprio per questo è fondamentale adottare misure di gestione di questa trasformazione organizzativa, antropologica, cognitiva. Perché l’intelligenza umana, nella sua imperfezione, è capace di ciò che nessun sistema probabilistico potrà mai replicare o codificare: l’intuizione del paradosso, il senso dell’eccezione, la creatività che spezza la regola e apre a nuovi possibili impensabili. Il capitale cognitivo umano non è una risorsa che possa essere standardizzata o allocata: è un campo in continua fioritura, in fermento permanente, che deve essere coltivato, non ottimizzato. In questo senso, è importante comprendere che l’IA non ci deve indurre ad essere più veloci o più precisi, replicando meccanismi tipici della macchina. Al contrario, ci sfida a ricordare quali sono i nostri tratti irriproducibili, nei processi e nelle attività che nessuna macchina potrà mai svolgere al posto nostro. Rinunciare all’unicità umana non è semplicemente una perdita funzionale, ma una vera e propria rinuncia ontologica.
Catene di produzione cognitiva e governance dell’intelligenza artificiale
Infine, comprendere pienamente l’impatto dell’intelligenza artificiale significa iniziare a pensare in termini di catene di produzione cognitiva, da intendersi come reti complesse e interdipendenti che trasformano dati grezzi in potere decisionale. Ogni sistema intelligente è il risultato di una filiera globale distribuita: annotatori umani che interpretano ed etichettano miliardi di elementi, infrastrutture computazionali che elaborano terabyte di informazione, architetture algoritmiche progettate da team dispersi tra continenti. Questa filiera non solo non è trasparente, ma sembra essere stata deliberatamente costruita per essere efficiente, ma non leggibile. Tra chi costruisce gli strumenti e chi li utilizza si apre così una distanza strutturale, fatta non solo di geografia, ma di asimmetrie nel livello di consapevolezza, di capacità di intervento, di agency.
Questa disconnessione, evidentemente, ha un costo. Quando la distanza tra progettazione e impatto diventa troppo ampia, perdiamo infatti la possibilità di apprendere in tempo reale dagli effetti delle nostre scelte co-determinate da sistemi algoritmici. Si rompe, per così dire, la continuità del ciclo del feedback. Le organizzazioni, che operano in ambienti sempre più dinamici, adattivi e interconnessi, non possono permettersi questa condizione di cecità sistemica. Governare l’IA non significa semplicemente imporre limiti normativi, o definire perimetri di operatività, ma ricucire queste distanze cognitive e strategiche. Significa progettare filiere intelligenti, tracciabili, modificabili, aperte all’apprendimento continuo.
Perché solo riducendo la distanza tra il codice e le conseguenze che contribuisce a determinare potremo trasformare l’IA da tecnologia reattiva a leva strategica, capace non solo di rispondere al presente, ma di immaginare – e costruire – futuri più giusti, più coerenti, più competenti, più intelligenti.
Serve allora lavorare alla definizione di una nuova etica del progetto. Non basta chiedere trasparenza o inclusività, trattandoli come meri principi astratti. Occorre una pratica concreta di co-governance, in cui i lavoratori, i cittadini, le comunità siano chiamate ad essere parte attiva nella definizione dei fini, dei limiti e delle responsabilità dell’intelligenza artificiale. Non perché l’umano possa garantire migliori condizioni interpretative o gestionali, ma perché, ad oggi, è l’unico attore in grado di cercare di rispondere alla domanda che l’IA, per definizione, non è ancora in grado di porsi: perché facciamo quello che facciamo? E per chi lo facciamo?
Strategie azionabili: cosa possiamo fare, adesso
In un sistema adattivo complesso, come quello che oggi definisce il mondo del lavoro, sarà in grado di sopravvivere non chi si adatterà passivamente, ma chi saprà orientare il cambiamento prima che diventi irreversibile. Di fronte all’adozione diffusa dell’intelligenza artificiale, la posta in gioco non sarà quindi più solamente tecnica o economica, ma sistemica. Servirà, pertanto, una strategia capace di operare su più livelli, come una rete multilivello, composta da tre nodi centrali: il nodo dell’impresa, quello dello Stato, quello della conoscenza.
Le imprese dovranno smettere di essere meri implementatori o fruitori tecnologici, per diventare veri e propri laboratori di co-evoluzione, in cui l’IA viene progettata insieme alle persone, come parte di un’ecologia lavorativa in trasformazione, e non come un processo top down.
I governi, dal canto loro, dovranno pensare alla responsabilità dell’alfabetizzazione sociale e della formazione continua non più come un servizio accessorio, ma come un’infrastruttura cognitiva imprescindibile: permanente, accessibile, sistemica.
Le università, infine, avranno l’occasione storica di non formare solo codificatori di sintassi, ma veri cartografi del possibile, persone capaci di muoversi tra le scienze esatte e le scienze umanistiche, tra le raccomandazioni probabilistiche e le ambiguità del reale, tra le reti neurali e i sistemi sociali.
Ogni organizzazione, piccola o grande, dovrà imparare ad affrontare l’innovazione in modo critico, affinando, progressivamente, la complessità delle strategie e delle metodologie operative interne, iniziando semplicemente col porsi tre domande:
- Quale parte del lavoro umano vogliamo deliberatamente proteggere, a prescindere dai parametri di efficienza?
- Chi vogliamo che sieda al tavolo in cui si progetta l’intelligenza dei sistemi e delle organizzazioni, e chi preferiamo che venga escluso?
- Quali capacità – cognitive, relazionali, interpretative, strategiche – vogliamo che siano ancora centrali fra due, cinque, dieci anni?
Per quanto possano sembrare domande di carattere morale, sono marcatamente, deliberatamente strutturali. Mai come oggi, in una condizione di accelerazione permanente dell’innovazione digitale, è importante assicurarsi un contatto diretto con la contingenza, per costruire il futuro – o i futuri possibili – con le scelte quotidiane distribuite su tutta la rete. Una micro-decisione strategica alla volta.
Ciò che l’intelligenza artificiale non può sostituire
Come abbiamo visto, l’intelligenza artificiale non si limita ad accelerare i processi, ma costringe a ridefinire le coordinate stesse con cui valutiamo non solo l’efficacia, ma il senso del lavoro. Non ci chiede – né ci induce a vederci costretti – di diventare più veloci, né di competere su logiche di performance che le macchine sapranno sempre padroneggiare molto meglio di noi. Ci invita invece – in modo apparentemente paradossale – a scegliere ciò che dell’umano vogliamo non automatizzare. Ci sfida, nelle nostre strategie organizzative, a disegnare un futuro in cui il valore non sia nella quantità elaborata, ma nella qualità generata, alimentata e custodita.
Potremo costruire sistemi che non abbiano come unico parametro di misurazione l’efficienza, ma che sappiano comprendere – nel senso di “includere” – la lentezza come possibile parametro variabile. Potremo programmare sistemi che sappiano riservare spazi per la riflessione, per l’ambiguità, per il dissenso. Sarà, tuttavia, sempre un comportamento simulato, codificato e vincolato a parametri rigidi di esecuzione. Forse, oggi, la domanda chiave diventa proprio questa: che cosa vogliamo che resti irriducibilmente umano?
Forse, se la consideriamo da questa prospettiva, l’intelligenza artificiale non dovrebbe più essere percepita come un destino inevitabile. Ma come l’occasione per reimparare a prestare attenzione, per disinnescare i rischi di filiere che dissimulano la perdita di controllo all’ombra dell’efficienza ad ogni costo. Forse, se davvero riuscissimo a rivendicare le caratteristiche irripetibili dell’intelligenza umana, l’intelligenza artificiale rappresenterà l’occasione per ricominciare a scegliere.