La digitalizzazione dei sistemi economici è ben più che la semplice automazione dei processi produttivi. Intanto, si estende a tutte le dimensioni del vivere sociale, relazioni interpersonali, relazioni con la pubblica amministrazione, fruizione di servizi per il tempo libero, e così via; ma, soprattutto, applicandosi alle attività produttive ne ristruttura profondamente i processi dando luogo ai sistemi ciber-fisici di produzione attraverso l’utilizzo combinato di una estesa famiglia di innovazioni tecnologiche.
Una parte significativa di questo mondo in trasformazione è costituito dal cosiddetto “lavoro in piattaforma”.
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Il lavoro in piattaforma: evoluzione e fattori contingenti
L’interconnessione totale, le macchine che dialogano con le macchine, l’internet of things e la stampa a 3D, la massa di “big data” e la straordinaria capacità di processarli, la realtà aumentata, machine learning e intelligenza artificiale trasformano profondamente processi produttivi, modelli di business, catene di valore, prestazioni lavorative e relazioni di lavoro.
Le prestazioni lavorative fornite attraverso le piattaforme si dividono fondamentalmente in due categorie: quelle che si svolgono in ambiti fisici territorialmente localizzati (per esempio, le consegne a domicilio) e quelle che invece si svolgono e si scambiano interamente sulla rete (per esempio, le traduzioni). All’origine del fenomeno delle prestazioni lavorative svolte mediante accesso a piattaforma si trova l’idea della cosiddetta “sharing economy”, ossia “economia della condivisione”, basata sulla possibilità di scambiare servizi attraverso la rete prevalentemente in forma di “baratto”. Ma questa idea, ispirata anche al riferimento all’economia “circolare” con la congiunta finalità di evitare sprechi e eccessive intermediazioni di operatori di mercato, ha successivamente subito una evoluzione in direzione della nascita di nuovi modelli di business attraverso la nascita di soggetti/piattaforme che accentrando il ruolo di coordinamento delle prestazioni hanno assunto progressivamente la figura di gestori e organizzatori della erogazione dei servizi come punti di snodo essenziali sia per i prestatori-lavoratori sia per i fruitori dei servizi.
All’origine di questa evoluzione sta, certo, un fattore contingente legato al confinamento nelle proprie abitazioni come misura precauzionale durante la pandemia; ma questo fattore ha semplicemente accelerato un processo basato fondamentalmente sul crescente desiderio di compiere azioni o fruire di servizi senza muoversi dal proprio domicilio e sul crescente sviluppo di tecnologie capaci di convogliare grandi varietà e grandi numeri di prestazioni a domicilio con insolita tempestività. Ora praticamente tali piattaforme possono veicolare di tutto, dai pasti alla spesa alimentare, dalla consegna di merci al disbrigo di pratiche, dai servizi di pulizia ai dog-sitters, dalle operazioni di lavanderia fino anche al lavaggio di automobili. Altrettanto variegate e numerose sono le prestazioni che possono svolgersi interamente sulla rete in modalità telematica. La digitalizzazione apre strade ancora non interamente esplorate alla realizzazione di servizi senza prossimità fisica e sotto la conduzione dell’intelligenza artificiale.
A questi due elementi (crescente domanda dei consumatori e crescenti potenzialità delle tecnologie) si aggiunge un terzo fattore: la peculiare condizione del mercato del lavoro, caratterizzata da un lato dalle pesanti difficoltà occupazionali e dall’altro dalla grande diffusione delle forme di lavoro “non-standard”. Ciò dà luogo a diffuse problematicità per l’ingresso delle nuove forze lavorative nel mercato del lavoro, a grande frammentazione dei percorsi lavorativi e a frequenti discontinuità nei redditi da lavoro scarsamente protette da meccanismi di previdenza sociale. Si crea quindi un’abbondante offerta di lavoro, caratterizzata da estrema flessibilità e debolezza, nei confronti della quale si sviluppano processi di concentrazione monopsonistica legati al possesso di sofisticate tecnologie capaci di esprimere elevati volumi di domanda e nello stesso tempo processi di concentrazione oligopolistica sul lato della vendita dei servizi.
Le scarse tutele e i problemi del lavoro in piattaforma
Da questo complesso intreccio di fattori è nato un percorso che, partendo da un ruolo marginale che offriva la possibilità di compiere “lavoretti” per integrare altri redditi da lavoro o per sopperire a temporanee sospensioni di redditi da lavoro, è sfociato in una strutturale presenza di tali forme di attività nella produzione di servizi che ha fatto sì che un gran numero di lavoratori sia assorbito in esse e che per l’80% circa di questi esse rappresentino la fonte fondamentale del reddito vitale, secondo i dati della recente indagine INAPP. È presumibile, sulla base delle tendenze evolutive dei fenomeni sopra menzionati, che tali forme di lavoro si espandano in futuro.
Pur contribuendo alla crescita del livello di attività economica, tuttavia tali forme di lavoro presentano alcuni aspetti che contengono una torsione negativa nei confronti dei lavoratori e del sistema economico nel suo complesso.
Il drastico abbassamento dei “labour standards”
Una prima area riguarda il drastico abbassamento dei “labour standards” che ad esse si può accompagnare e spesso si accompagna. In questo campo va segnalato il basso livello retributivo e molto spesso anche lo stesso schema retributivo applicato. Il parametro frequentemente utilizzato per la definizione dei compensi, (nel 67% dei casi per le donne e nel 45% per gli uomini, secondo l’indagine INAPP) consiste nell’esecuzione di ogni singola consegna o incarico lavorativo, cioè il cottimo. Ma tutta l’area delle condizioni di lavoro (dagli orari di lavoro alle ferie retribuite, dal trattamento delle malattie agli incidenti sul lavoro) rivela l’esistenza di diritti poco tutelati. Ma soprattutto è la precarietà l’aspetto più pesante per la vita di questi lavoratori. Il 31% di essi lavora senza contratto (il che significa che possono essere reclutati di volta in volta per una mansione senza alcuna garanzia di continuità: qualcosa che “somiglia” al caporalato), solo l’11% ha un contratto di lavoro subordinato. La continuità del lavoro è condizionata al rispetto da parte del lavoratore di una metrica valutativa gestita da un algoritmo, e ciascun lavoratore può essere di punto in bianco disconnesso dalla piattaforma o relegato a incarichi meno remunerativi a pura discrezione dell’algoritmo stesso. Come si può immaginare che persone comprese tra i 30 e i 50 anni di età (fascia dove si ha la maggiore concentrazione di tali lavoratori), età in cui si crescono famiglie, si stabilizzano assetti abitativi, si consolidano posizioni sociali, si sia costretti a vivere sotto l’incubo della totale precarietà?
I rischi per il sistema economico sociale
Una seconda area di criticità riguarda il sistema economico sociale nel suo complesso. Tale situazione presenta diversi rischi. Rischi di coesione e di tenuta sociale, problemi di natura demografica, attenuazione della domanda aggregata a causa della diseguaglianza nella distribuzione del reddito, criticità sotto il profilo fiscale (molte piattaforme operano su scala internazionale) e sotto il profilo previdenziale. Anche sotto il profilo microeconomico possono crearsi problemi sul piano del mantenimento dei corretti equilibri concorrenziali nei mercati di riferimento.
Conclusioni
Tutte queste considerazioni conducono a concludere che tali forme di lavoro non possano essere sottratte a regole che impediscano di cadere nelle forme degenerative di cui si sono visti i rischi. Le potenzialità delle nuove tecnologie, con gli incrementi di produttività e di flessibilità ad esse associate, devono essere utilizzate per migliorare, insieme alla performance del sistema economico, la qualità del lavoro e la qualità della vita. A questo scopo vanno quindi studiate regole e meccanismi appropriati. Esistono diverse forme possibili per introdurre regole di comportamento: vanno esplorate sia la via contrattuale sia la via normativa. Inoltre, negli stessi algoritmi che gestiscono le piattaforme potrebbero essere incorporati meccanismi automatici che non consentano di debordare verso il mancato rispetto dei diritti fondamentali. Non c’è bisogno di impantanarsi in finissime dispute concettuali circa la classificazione di tali prestazioni lavorative nella categoria del lavoro autonomo o in quella del lavoro subordinato. Se l’assimilazione di tali forme di lavoro al lavoro subordinato (come suggerito dall’Unione Europea e come già attuato in qualche Paese) risultasse la via più semplice per ottenere il risultato, non sarebbe il caso di opporsi. L’importante è appunto il raggiungimento dell’obiettivo sostanziale: la tutela della qualità della vita e dei diritti fondamentali dei lavoratori qualunque sia la forma della prestazione lavorativa.