digital heritage

“Hic et nunc”, il digitale non è una minaccia per la cultura: ecco a quali condizioni

Le esperienze digitali originali e culturalmente sostenibili sono quelle che attirano il maggior numeri di visitatori dal vivo. In questo senso, il digital heritage non può assumere i tratti di una minaccia. A patto però che le tecnologie siano una leva per nuove esperienze estetiche, etiche ed estatiche

Pubblicato il 08 Set 2021

Patrizia Miggiano

Università del Salento

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Quali sono le risonanze etiche (in termini di sostenibilità culturale) ed estetiche del digital heritage? A partire da alcune considerazioni sulla corporeità del bene culturale e della sua fruizione tentiamo di tracciare un possibile percorso di perlustrazione della questione, che si mostra in tutta la sua pregnanza se consideriamo il numero crescente di collezioni digitali presenti nelle istituzioni museali e, più in generale, culturali, su scala globale.

Intelligenza artificiale, arte e cultura: elementi per una vera valutazione estetica

Andare e venire dall’avvenire

È il 1747, quando Bernardo Bellotto, nipote del Canaletto, giunge a Dresda appena ventiseienne, ottenendo, di lì a poco, grande fama di pittore di corte grazie al realismo delle sue vedute della città, realizzate attraverso il sussidio della camera obscura, con cui traccia, in una qualità di dettaglio inedita per l’epoca, il profilo dei monumenti, degli edifici e delle abitazioni della città vecchia. La documentazione della città, vero e proprio archivio dello spazio urbano, da lì a due secoli, si sarebbe rivelata fondamentale per l’opera di ricostruzione di Dresda a seguito dei bombardamenti del febbraio del 1945. Il Bellotto, così, sigilla e consegna al futuro l’hic et nunc della città al momento della sua rappresentazione, il quale si riproporrà, a distanza di secoli, come orizzonte di una complessa e moderna impresa di ricostruzione, in un corto circuito temporale che erige il passato a traguardo del progresso. Oggi, sulla riva dell’Elba, un monumento riconosce al Bellotto i meriti di un’impresa altrimenti impossibile: una cornice vuota attraverso cui contornare il corpo fisico della città, che riallaccia passato, presente e futuro, mediante un passaggio di consegne senza soluzione di continuità.

In questo “andare e venire dall’avvenire”, (Bene & Dotto, 1998, p. 211), è forse interessante collocare una critica alla riproducibilità digitale dell’heritage, con particolare riferimento alla doppia direzione del tempo e dello spazio e, dunque, alle sue implicazioni in termini di cortocircuiti, diremo così, storici e geografici, osservati da una prospettiva eminentemente estetica. Ciò ci riconduce, giocoforza, a una preliminare quanto necessaria considerazione circa la corporeità dell’opera che, di fatto, è sempre, indissolubilmente legata a un “dove” e a un “quando”. Nella particolarissima e irripetibile combinazione delle due coordinate, d’altronde, si acclara la sua autenticità, che di per sé costituisce un’evidente testimonianza storica: il valore dell’autenticità, difatti, inteso in termini di precisa e non riproducibile collocazione di un’opera nello spazio e nel tempo, reca in seno un forte potenziale narrativo e metanarrativo poiché racconta degli stili, dei modelli e dei filtri culturali operanti all’epoca della sua realizzazione.

Riprodurre digitalmente un bene culturale significa, dunque, necessariamente risituarlo nel tempo e nello spazio (Fedriga, 2021)? Se sì, quali sono le risonanze etiche ed estetiche di una siffatta operazione? E, conseguentemente, sottrarre all’opera l’originaria corporeità (ossia il suo hic et nunc) può comportare un generale detrimento in termini di autorità o, diremmo con Benjamin (1936), di aura?

Per tentare, non tanto di rispondere a questa complessa architettura di interrogativi – che necessiterebbero di una riflessione ben più ampia – quanto di condividere alcune considerazioni critiche sulla corporeità del digital heritage, in tutte le sue forme e declinazioni, tenteremo, in questa sede, di tracciare un possibile percorso di perlustrazione della questione, che si mostra in tutta la sua pregnanza se consideriamo anche solo il numero crescente di collezioni digitali presenti nelle istituzioni museali e, più in generale, culturali, su scala globale.

L’esempio offerto in apertura, inoltre, ci pone davanti a un’ulteriore questione, fondamentale ai fini di una possibile definizione ultima del compito del digitale per il patrimonio culturale, che non può – e non deve – consistere nella mera documentazione, riproduzione e conservazione dei beni culturali né, semplicemente, puntare a una più ampia fruizione da parte delle audience; in che termini, dunque, ripensare il contributo del digitale rispetto all’esperienza con l’opera d’arte?

Si badi che si sceglie, qui, volutamente di ricorrere a questa particolare espressione, in ragione del fatto che l’esperienza estetica, a ben guardare, si presenta sempre come un’avventura di tipo “totale”, in cui la corporeità del fruitore e, dunque, tutti i suoi sensi giocano un ruolo fondamentale nella relazione con il bene culturale. È, infatti, oramai piuttosto evidente come al primato della vista, che per secoli abbiamo eretto a senso principe della nostra esperienza del reale, sia ormai tempo di sostituire una visione più olistica, composita e partecipativa, che tenga conto dei risvolti estetici (relativi, cioè, alle sensazioni derivanti da tutti i sensi), etici e, potremmo finanche dire, estatici della fruizione (Bodei, 2009). D’altronde, “l’occhio non solo vede, ma palpa e ascolta il visibile. […] L’occhio è multisensibile, è un organo nomade del corpo (vedere con le mani, l’orecchio, il palato o anche con i polmoni, con lo stomaco)” (Gambazzi, 1999, p. 2).

Questa particolare composizione di aspetti, all’origine della relazione totale e reciproca tra il bene culturale e il fruitore, è d’altronde magistralmente riassunta nella suggestione del poeta Rainer Maria Rilke davanti al torso arcaico di Apollo, riassunta in un noto verso, là dove si dice che, nell’opera d’arte, “non c’è punto che non veda te e la tua vita” e, perciò stesso, “tu devi mutarla” (Rilke, 1907; trad.it. 1992).

In fondo, l’opera d’arte è in grado di mutare le coscienze, individuali e collettive, proprio poiché genera esperienze che originano, a loro volta, nuove sensibilità. Allora, può ­­– e se sì, come – il digitale, custodire e, anzi, potenziare la corporeità, la totalità, la reciprocità dell’esperienza estetica? O dovremo presto rassegnarci al tramonto dell’aura?

Considerare questi quesiti e provare a tratteggiarne le possibili risposte, si rivela indubbiamente fondamentale per il management del digital heritage, poiché consente di intuire ed esplorare le aspettative e il comportamento dei visitatori e, in ultima analisi, di creare format e modelli di fruizione innovativi e, allo stesso tempo, culturalmente sostenibili.

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Et in Arcadia ego

“Da un viaggio virtuale si torna senza souvenir” (Richter, 2020, p. 114). Come potremo dire, allora, d’esser stati in Arcadia, senza un oggetto-ricordo che testimoni il nostro viaggio? Ma, poi, a ben guardare, è proprio vero? E se, nel digital heritage tourism, il souvenir fosse il viaggio stesso?

Le considerazioni qui esposte aprono la strada a una riflessione critica sulle prammatiche del digitale per il patrimonio culturale nel contesto nazionale (e non solo), le quali possono generare due categorie di rischi, riconducibili, a loro volta, ad altrettante attitudini piuttosto diffuse: la prima, consiste nella semplice trasposizione in formato digitale di contenuti analogici (che ereditano, così, in taluni casi, anche una certa retorica didascalica); la seconda, nella generazione di un ingiustificato antagonismo tra il bene originale e il suo, diremo così, avatar, quasi che l’uno dovesse sostituire l’altro in ragione di un inevitabile trapasso da un’epoca predigitale a un’epoca di pervasività del digitale.

È evidente che entrambe queste posizioni rappresentano, ciascuna con le proprie declinazioni, una deriva che non tiene conto di un aspetto fondamentale: per le ragioni su esposte ­– relative all’indubbia insostituibilità dell’esperienza fisica, corporea con l’opera d’arte – occorrerebbe, infatti, non porre la questione in termini dicotomici, quanto piuttosto promuovere un approccio integrato, votato alla complementarietà. In questo caso, l’apporto del digitale, lungi dal segnare un irreversibile avvicendamento epocale, potrebbe offrire strumenti utili a un ampliamento e, soprattutto, a un incremento di qualità dei paradigmi di fruizione (Aime, 2005).

A giudicare dal rinnovato interesse con cui, in occasione della riapertura post-lockdown, i visitatori sono accorsi nei musei, nei siti archeologici e, più in generale, nei luoghi di cultura (il Museo degli Uffizi di Firenze ha contato, ad esempio, 7.300 visitatori in sei giorni, nonostante l’apertura ai soli visitatori della regione,) (Pirrelli, 2021), non pare ancora tempo per l’abbandono della corporeità dell’opera d’arte e forse questo tempo è auspicabile che non venga mai: l’esperienza corporea è il primo viatico di percezione e conoscenza del reale (Merleau-Ponty, 2007). Come poter riprodurre, per il fruitore, la risonanza che si avverte procedendo a passi ovattati tra le navate del Duomo di Milano? Come assicurare l’impressione vertiginosa dello sguardo all’insù che si perde nella fitta volta della Cappella Sistina, mentre giunge distrattamente agli orecchi la voce di un nastro registrato che ripete infinite volte “No foto. No video”? In questa martellante raccomandazione che accompagna il fruitore lungo tutto il suo pellegrinaggio a testa in su, c’è forse il senso di una sacralità che tenta di proteggersi da quello che percepisce come un attacco?

Ed è proprio questo il punto: il digital heritage non può assumere i tratti di una minaccia per l’heritage. Sono sconfinate – e per certi versi ancora inesplorate – le praterie di applicazione del digitale in senso integrato: non è un caso, infatti, se i siti archeologici e le istituzioni museali che più hanno saputo, nel tempo, promuovere esperienze digitali originali e culturalmente sostenibili, siano quelle che in effetti attirano il maggior numeri di visitatori dal vivo. Ciò in ragione di un aspetto fondamentale, sebbene spesso sottovalutato: il turista si muove per il soddisfacimento di un desiderio costruito su un’aspettativa. Si tratta – curiosamente, a ben guardare – di una sorta di verifica dal vivo del racconto udito (anche se, oggi, dovremmo dire, più propriamente, visto) in narrazioni diffuse su diversi canali, le quali promettono un certo tipo di esperienza con quel bene culturale.

Dalla pubblicità tradizionalmente intesa ai più recenti esempi di digital storytelling, ci troviamo effettivamente di fronte alla costruzione di una vera e propria promesse de bonheur, al cui mantenimento il digitale può contribuire molto, dilatando l’esperienza e inglobando in essa elementi che la arricchiscano, creando, così, di fatto, nuovi patrimoni. Si pensi, in tal senso, alla straordinaria rilevanza di un apporto in termini di integrazione dei limiti della corporeità, in virtù di quella complementarietà cui si accennava poc’anzi: ciò potrebbe significare, ad esempio, “facilitare una conoscenza inaccessibile nel confronto fisico e diretto, […] svelare i segreti dell’opera che la vista non può penetrare, […] fornire strumenti e modalità di conoscenza preclusi ai supporti analogici […]” (Dal Pozzolo, 2018). In altre parole, “raccontare ciò che non è autoevidente” (ibidem).

Ecco che, alla fine di questa riflessione dagli esiti tutt’altro che scontati, potremmo constatare come il digital heritage, lungi dal minare la corporeità dell’esperienza con il bene culturale, potrebbe addirittura irrobustire quel “con” che, in introduzione, ci faceva diffidare dalle false resurrezioni dell’aura.

Ri-mediare patrimoni

“La memoria digitale non è un deposito di dati (la memoria “fisica” dei computer), ma un processo che riguarda la mente degli individui e la costruzione culturale (Ragone, 2011)”, che, attraverso supporti artificiali, garantisce la strutturazione di connessioni reticolari tra di essi. Ciò, naturalmente, conduce a un incremento dell’“innata dialogicità” della specie umana (ibidem), il che equivale, naturalmente, a un conseguente ampliamento delle occasioni di scambio e, dunque, delle nuove sensibilità. In questo caso, ci vengono in soccorso le connected digital technologies per l’heritage, il cui impiego consentirebbe, oltretutto, di coniugare gli obiettivi della fruibilità trasversale con quelli più marcatamente scientifici (Ciracì, 2018): si pensi, in tal senso, alla condivisione di informazioni, format e modelli tridimensionali che potrebbe creare preziose collaborazioni tra comunità scientifiche distanti, generando, così, proficue occasioni di reciproco dialogo tra di esse e con le istituzioni culturali e museali, altrimenti difficilmente attuabili.

Com’è evidente, le sfide del digital heritage continuano incessantemente a moltiplicarsi e a porci di fronte alla necessità di comprendere che non si tratta semplicemente di un nuovo linguaggio in cui tradurre vecchi concetti, bensì di un vero e proprio processo di generazione di nuovi patrimoni, i quali, a loro volta, ci renderanno responsabili della loro conservazione, diffusione, valorizzazione, ma soprattutto del compito di dotarli di senso.

Ciò è possibile solo traducendo le nuove prammatiche in conoscenza, ossia generando condizioni culturali in cui, traguardo dei processi digitali, non sia un tronfio compiacimento del poderoso potenziale tecnologico di archiviazione, informazione e riproduzione a nostra disposizione, bensì la creazione di nuove esperienze estetiche, etiche ed estatiche per i fruitori, cui il digitale può dare origine solo a partire da una riflessione critica sulle nuove forme di corporeità ad esso connesse (Casini, 2016).

Basti pensare, in tal senso, alle ricadute positive in termini di fruizione per i soggetti portatori di disabilità fisiche, percettive e/o cognitive o alle esperienze tecnologiche immersive proprie delle Realtà estesa (ER), che permettono di “rilocalizzare persone e cose nel tempo e nello spazio” (Fedriga, 2021, p. 143), senza che questo comporti necessariamente un detrimento dell’aura dal momento che non si incide sul bene, bensì sul processo di fruizione.

Conclusioni

In questo, risiede il senso della sfida che si profila al nostro orizzonte e che non deve trovarci di spalle, nostalgicamente assorti nella contemplazione del glorioso passato dei beni culturali predigitali, né esaltati dalle vertiginose altezze delle chances offerte dal digitale, bensì semplicemente pronti a “garantire a ogni generazione la propria esperienza di creazione”(Remotti, 2011, p. 235), che raccoglie l’eredità (ossia l’heritage) delle generazioni precedenti e su questa innesta la sua unicità, dettata dal suo irripetibile hic et nunc.

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