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I ricchi sono sempre più ricchi e a noi va bene così: il grande inganno del gigacapitalismo

Basterebbe una piccola quota dei profitti delle multinazionali e della ricchezza dei miliardari e redistribuirla per ottenere investimenti in istruzione e salute dieci volte superiori agli attuali aiuti internazionali. Eppure, si torna a parlare di flat tax. Le riflessioni del libro “Gigacapitalisti” di Riccardo Staglianò

Pubblicato il 09 Set 2022

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

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Avete presente Re Mida, il mitico re della Frigia, celebre per la sua capacità di trasformare in oro qualsiasi cosa toccasse? O avete presente zio Paperone che nuota felice nell’oro del suo mega-forziere mentre Paperino e Qui, Quo, Qua lo guardano? Oggi siamo oltre Re Mida e oltre zio Paperone.

Ora abbiamo i gigacapitalisti e noi li guardiamo affascinati e insieme arricchendoli sempre di più, noi invece impoverendoci sempre di più e senza reagire (ovvero, i ricchi sono sempre più ricchi per una sorta di lotta di classe a rovescio – ne hanno scritto ad esempio Luciano Gallino e Marco Revelli – che dura da quarant’anni). Gigacapitalisti è anche il titolo dell’ultimo libro (Einaudi) di Riccardo Staglianò, giornalista del Venerdì di Repubblica, sempre molto attento a tutto ciò che è web o deriva dal web e dalle nuove tecnologie/piattaforme – e ricordiamo, tra gli altri, i suoi volumi “Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro”, del 2016; “Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri”, del 2018.

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Chi sono i gigacapitalisti

Gigacapitalisti al posto dei vecchi e più poveri megacapitalisti, dunque. Diventati ricchissimi dopo quarant’anni di neoliberalismo e di tecno-capitalismo e diventati ancora più ricchi grazie alla pandemia, con Jeff Bezos – che lotta con Elon Musk per essere il più ricco del mondo – che proprio grazie alla pandemia ha aggiunto altri 80 miliardi di dollari al suo gigapatrimonio.

E già questo dovrebbe porci qualche problema in termini di ciò che un tempo – ma ne abbiamo perso il significato dopo appunto quarant’anni di egemonia del pensiero neoliberale egoista e anti-sociale – si chiamava giustizia sociale, redistribuzione della ricchezza, etica e moralità, responsabilità sociale; e invece, nulla accade, neppure una reazione di indignazione e a fatica i lavoratori cercano di strappare all’autocratica Amazon condizioni di lavoro almeno non di sfacciato sfruttamento, mentre troppi paesi e governi stendono tappeti rossi quando, ad esempio sempre Amazon, vuole aprire un nuovo centro di smistamento in qualche paese, considerandolo come il nuovo che avanza e che non si deve e non si può fermare, cioè confondendo Amazon con il progresso e dimenticando che sono sempre le vecchie vendite per corrispondenza anche se integrate/gestite con un algoritmo.

Ricchi sempre più ricchi – giga, appunto – mentre in Italia qualcuno rilancia per l’ennesima volta l’idea di una flat-tax, modello di imposizione fiscale neoliberale e profondamente ingiusto e sempre fallimentare (oltre che incostituzionale), finalizzato appunto all’arricchimento di pochi e all’impoverimento dei molti, ma venduto propagandisticamente come una forma di vera giustizia fiscale, ma sempre secondo il metodo appunto neoliberale di rovesciare il senso e il significato delle parole.

I ricchi sono sempre più ricchi, e a noi va bene così

I ricchi sono sempre esistiti, lo sappiamo. Ma non erano mai arrivati ad essere gigaricchi. Eppure era inevitabile che si producesse questo effetto, perché (1) il neoliberalismo premia deliberatamente i ricchi e la produzione di ingiustizia sociale è una sua scelta politica deliberatamente perseguita, secondo l’economista Joseph Stiglitz; e (2) sempre racconta, nonostante le smentite, la favola del gocciolamento della ricchezza (cioè: più i capitalisti sono ricchi, più la loro ricchezza gocciolerà per legge di gravità verso il basso) favorendo l’arricchimento di tutti e alzando la marea del benessere; quindi non più per scelta politica verso una società più giusta – era questo il senso delle politiche keynesiane di redistribuzione della ricchezza negli anni 1945-fine anni ‘70 – ma per il libero e magico gioco del mercato. Che è un’altra favola neoliberale/capitalistica, perché il mercato non è mai libero; mai è la domanda a generare l’offerta ma è sempre l’offerta a generare (si chiamano marketing e pubblicità e oggi algoritmi predittivi) la domanda; l’oligarchia della ricchezza è nel Dna del capitalismo; il profitto si basa sempre sullo sfruttamento del lavoro altrui – ancora Amazon come caso paradigmatico – e quindi il capitalismo non si fonda mai sulla benevolenza dei ricchi che fanno cadere un po’ di gocce di ricchezza verso i meno ricchi e i poveri.

Ma i gigacapitalisti non solo sono diventati sempre più ricchi – grazie alla nostra benevolenza nei loro confronti, noi felici di comprare su Amazon, di navigare con Google, sognando di viaggiare nello spazio grazie a Elon Musk – ma mai hanno avuto un potere così grande, ce lo ricorda appunto Staglianò. E a noi va bene così, noi continuando a comprare su Amazon fremendo in attesa del prossimo Black Friday; noi continuando a socializzare via social senza vedere che sono imprese private votate a massimizzare il proprio profitto privato espropriandoci dei nostri dati, cioè della essenza (e anche questo era la privacy) della nostra vita; a continuando a cercare informazioni su Google.

E tutto questo mentre i grandi media sono sempre più house organ della Silicon Valley, cioè dei gigacapitalisti, media ormai incapaci di qualsiasi pensiero critico/riflessivo, di reazione e di indignazione e tutti (politici, economisti, imprenditori, mass/social media) parlano e scrivono di alfabetizzazione digitale e di dover essere sempre connessi, come se non ci fosse vita anche prima, oltre o senza il digitale. Tranne poche eccezioni – e Riccardo Staglianò è una di queste voci capaci di pensiero critico, di indignazione, ma anche di proposta.

Social non è sociale: il grande inganno in cui tutti siamo caduti

Scriveva Mark Zuckerberg a un amico agli inizi di Facebook, come troviamo nel libro di Staglianò. “Ho oltre 4000 email, foto, indirizzi, screenshot”. E l’amico: “Ecchec…?! E come sei riuscito ad averli?”. E Zuckerberg: “La gente me li ha dati spontaneamente. Non so perché. Perché si fidano. Coglioni che non sono altro”. Se è vera, questa frase esprime perfettamente il vero core business di Mark Zuckerberg – uno dei gigacapitalisti – e qual è la nostra condizione esistenziale di dipendenza nei suoi confronti. E Zuckerberg ha studiato anche psicologia, sa quali sono i punti deboli della nostra psiche e li sfrutta per il proprio profitto. Scrive Staglianò: “Ed è proprio grazie alla conoscenza approfonditissima di quel che ci passa nella capoccia che Zuckerberg diverrà il più corteggiato dall’industria pubblicitaria”, trasformando quello che veniva offerto (ma era marketing) come un luogo di socializzazione ideale per fare comunità in nome di quel bisogno umanissimo che si chiama amicizia, nella più grande agenzia di spionaggio (questo è il vero nome di profilazione) e nella più grande agenzia di pubblicità della storia, secondo l’opinione dell’inglese John Lanchester – per tacere di Cambridge Analytica e dei comportamenti solo apparentemente infantili di Zuckerberg davanti ad ogni scandalo che lo concerne (non lo faccio più!, per poi continuare a farlo in altro modo), ovunque cercando compulsivamente una fonte di profitto e di potere per sé. Analogamente Jeff Bezos, per il quale “più che vendere cose (merci) è importante comprare persone (clienti) e una volta conquistate, rifilargli di tutto”.

Scrive ancora Staglianò: “I patrimoni dei Bill Gates, Jeff Bezos, Elon Musk, Mark Zuckerberg del mondo hanno raggiunto dimensioni incompatibili con un buon funzionamento della democrazia. Nel senso che quelle spaventose quantità di denaro si traducono inevitabilmente in altrettanto potere. Compreso quello di interferire con le leggi che decidono ad esempio quante tasse far pagare e a chi – e vale la pena rammentare come questi signori hanno tutti almeno due mestieri: il proprio e quello di elusore fiscale. Studiandone le biografie, il topos più ricorrente e storicamente inedito è che si tratta di privati cittadini in grado di fare cose prima appannaggio solo degli Stati”. Ad esempio: Bezos “si candida a diventare l’emporio unico dell’umanità. Prima di Musk nello spazio c’erano andati solo Russia, Stati Uniti e Cina. E infine c’è Zuckerberg, di cui sempre più commentatori (e investitori) chiedono la testa per offrirla in pasto alla pubblica opinione scandalizzata dalla serie crescente di rivelazioni su un cinismo aziendale innalzato a forma d’arte. E parliamo di uno che, se la sua creatura fosse appunto una nazione, con quasi tre miliardi di cittadini, sarebbe a capo di un Paese più popoloso della Cina. Con un livello di sorveglianza, sia detto per inciso, che Pechino si sogna”.

Ovvero, abbiamo a che fare con imprese della manipolazione attraverso l’economia dell’attenzione e il “fracking dei nostri cervelli”, perché più tempo passiamo sui social (e non solo), maggiori sono i profitti per queste imprese e per i loro gigacapitalisti (cioè: “i peggiori contenuti dal punto di vista sociale, sono i migliori contenuti dal punto di vista del traffico generato” ricorda Staglianò; ovvero l’odio produce profitti e quindi l’odio va sostenuto e sempre attivato, generando quello che potremmo definire come il capitalismo dell’odio: sempre nella logica del conformismo, chiamato oggi network effect (perché più persone ci sono, più persone vogliono esserci, che è appunto il vecchio conformismo, le vecchie anime collettive delle folle secondo Gustave Le Bon, oggi anch’esse digitalizzate…) – perché se stiamo online più a lungo, vediamo più pubblicità, e Zuckerberg diventa più ricco…

Conclusioni

E tuttavia, “i gigacapitalisti sembrano più amati che disprezzati”, commenta Staglianò. Colpa anche “dell’eterno elemento afrodisiaco del potere, di politici spesso non all’altezza della situazione e di tanti giornalisti – oh quanti che si bevono la retorica siliconvallica di rendere il mondo un posto migliore o che di ogni nuovo smartphone non trovano di meglio da dire che è il migliore di sempre – giornalisti che preferiscono vestire i panni dei cheerleaders che quelli dei guastafeste”.

Ma allora: cosa fare e come “contro una manciata di plutocrati che non ambiscono a influenzare solo che cosa compriamo, ma anche che cosa pensiamo?” E che appaiono davvero oligarchi too big to fail? Certo, non è facile, eppure “bisogna provarci”, scrive Staglianò. Con “tasse giuste, leggi migliori, più diritti ai lavoratori sfruttati e una nuova consapevolezza collettiva”, capace di smontare la narrazione siliconvallica e neoliberale – magari ricordando che negli Usa (ma il resto del mondo non è molto diverso), “negli anni Settanta i ricchi versavano al fisco oltre metà del proprio reddito, cioè il doppio dei lavoratori, mentre nel 2018, dopo l’ultima riforma fiscale” di Trump, di tasse “i miliardari ne hanno pagate il 23 per cento, meno di metalmeccanici, insegnanti e pensionati”.

E quindi? “Basterebbe prendere una piccola quota dei profitti delle multinazionali e della ricchezza dei miliardari e redistribuirla in maniera proporzionale alla popolazione per ottenere investimenti in istruzione e salute dieci volte superiori agli attuali aiuti internazionali”. Eppure, nessuno osa proporre una simile strada, anzi si torna a parlare appunto di flat tax. Conclude Staglianò: “C’era una vecchia battuta sugli enarchi, gli allievi della scuola di eccellenza della pubblica amministrazione francese, del genialmente perfido François Mitterand: Sanno tutto. Peccato che sappiano solo quello. Lo stesso vale per i nostri gigacapitalisti. Hanno undici decimi di secondo per scovare ogni possibile connessione di un mercato con un altro. In una sinossi del business che ha del preternaturale, ma poi sono ciechi come gattini di fronte alla più macroscopica delle ovvietà: chi più ha, più deve dare. Punto”.

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