app e questioni di genere

Il “caso” Absher: se un’app deve farci riflettere sull’universalità dell’etica

La vicenda dell’app Absher spalanca le porte a una serie di questioni su cui occorre necessariamente riflettere: la prima riguarda il senso da dare, nell’età dell’informatica, a parole come “pubblico” e “privato”, la seconda riguarda l’aspetto etico degli strumenti che tutti noi utilizziamo ormai ogni giorno. Vediamo perché

Pubblicato il 04 Mar 2019

Giovanni Salmeri

Università degli Studi di Roma Tor Vergata

ABSHER_Sign_Panel

Passata l’ondata di sdegno provocata dall’app Absher del Governo dell’Arabia Saudita – che consente, tra le altre cose, agli uomini di controllare gli spostamenti delle loro donne, come vedremo meglio di seguito – dovremmo tutti fermarci a riflettere su una serie di questioni che continuano purtroppo a restare ai margini del dibattito: dal rapporto tra il mondo dell’informatica e la discriminazione di genere (a partire dall’atteggiamento fin troppo pilatesco di Apple e Google) al senso da dare, ai nostri giorni, al concetto di universalità dell’etica.

Iniziamo, però, per chi non la conoscesse, a spiegare cos’è Absher.

Absher, cosi gli arabi possono controllare le donne

È possibile che il nome Absher resterà agli annali, o perlomeno occuperà una sostanziosa nota a piè di pagina per chi vorrà scrivere la storia del rapporto tra informatica, politica ed etica.

La vicenda in due parole è questa: nell’app store di Android e di Apple è presente un programma, chiamato appunto Absher, presentato dal governo dell’Arabia Saudita, che tra le tante finalità di interazione con lo Stato ha anche la finalità di offrire agli uomini uno strumento efficace per controllare gli spostamenti delle (loro) donne: nelle schermate si inserisce il nome della donna, il suo numero di passaporto, e si decide quanti viaggi può fare e per quanto a lungo può viaggiare. Si può comodamente concedere e ritirare alle donne il permesso di viaggiare, o ricevere un SMS ogni volta che esse usano il loro passaporto (più o meno come le app bancarie possono inviare un messaggio quando viene usata la carta di credito).

La risposta di Google e Apple alle proteste

La notizia non finisce qui: Google ed Apple sono stati prevedibilmente subissati di richieste di ritirare immediatamente l’applicazione. La risposta di Apple nel momento in cui scrivo ancora si fa attendere; quella di Google è invece che l’app resterà al suo posto, perché non vìola nessuno dei termini di servizio. Leggendoli attentamente, la risposta è in effetti corretta: i termini di servizio proibiscono applicazioni che «promuovono violenza» o «incitano all’odio»: in questo caso, se vogliano conservare alle parole il loro significato consueto, non c’è né l’uno né l’altro: c’è la sottomissione, che è altra cosa. Piccolo particolare: è forse anche peggiore che odio e violenza, perché più subdola, più facile ad essere interiorizzata. Perlomeno, così la pensa praticamente chiunque sia cresciuto nelle nostre società liberali occidentali.

Mondo Ict e discriminazione di genere

La prima reazione a questa notizia è un sanissimo sdegno. È facile sperare che prima o poi la questione si risolva positivamente, anche se per motivi non necessariamente nobili (forse Apple ha in questo momento l’opportunità facilissima di mostrarsi più «buona» di Google e quindi di costringere di rimbalzo il concorrente a cambiare idea?). Ma il fatto stesso che tale questione sia potuta nascere è veramente sgradevole: sarebbe bene che un po’ di indignazione fosse manifestata, per esempio almeno quanto quella che cinque anni fa costrinse Brendam Eich a dare le dimissioni dopo appena 11 giorni dalla carica di amministratore delegato di Mozilla. La causa delle donne dell’Arabia Saudita (e di altri Stati, peraltro) credo che meriti un po’ di mobilitazione da parte della società occidentali, e anche del mondo dell’informatica. Ecco una buona occasione, oltre alle meritevoli iniziative sul «coding in rosa», per mostrare davvero che l’informatica non vuole prestarsi a perpetuare «discriminazioni di genere».

I concetti di pubblico e privato e l’ossessione della trasparenza

Smaltita l’indignazione, rimangono però sul tappeto molte questioni, che purtroppo sono più difficili da affrontare. Vediamone solo un paio.

La prima riguarda il senso da dare nell’età dell’informatica a parole come «pubblico» e «privato». Molti luoghi ed epoche della storia dell’umanità hanno grosso modo identificato queste due grandezze con «ciò che avviene fuori casa» e «ciò che avviene dentro casa»: ma tale distinzione aveva un senso completamente diverso in tempi (di pochissimo anteriori al nostro) in cui anche stare fuori casa significava essere facilmente al riparo da occhi indiscreti. Lo spazio pubblico era insomma lo spazio in cui le proprie parole e le proprie azioni potevano avere una rilevanza sociale estesa: ma non necessariamente. Per questo lo stesso concetto di privacy non aveva motivo di esistere: qualcosa di paragonabile alla «tutela dei dati personali» esisteva per ammissione comune riguardo a preti e avvocati (in misura minore medici e giornalisti), a cui veniva riconosciuto il diritto o il dovere di articolare in una maniera particolare la loro presenza nello spazio pubblico.

È evidente che la febbre contemporanea della privacy, a volte anche un po’ nevrotica, è la risposta immunitaria allo sfaldamento dei confini di un tempo. Non solo nello spazio pubblico ogni parola e gesto è sempre più controllata e registrata, ma anche il privato, ciò che avviene «dentro casa», raramente resta entro quelle mura. Un ragazzo di oggi che ascolta La solitudine di Laura Pausini (era il 1993) si chiede perplesso perché la fanciulla col cuore spezzato, anziché frignare e cercare di immaginare che cosa faccia il suo Marco, non prenda lo smartphone e faccia una videochiamata. Che cosa c’entra questo con Absher? Moltissimo. In questa app anzitutto viene focalizzata una possibilità sempre più diffusa, sempre più ovvia: la possibilità che tutti vedano tutti. Che ciò avvenga lì in maniera unidirezionale (gli uomini vedono le donne) non toglie nulla al fatto che questa trasparenza alla lunga è in ogni caso ossessiva. Il filosofo Jeremy Bentham alla fine del Settecento immaginava il Panopticon come il luogo trasparente in cui tutti potevano essere osservati senza che potessero sapere se davvero in quel momento lo erano: ma era il progetto del carcere ideale. Enunciata la questione, sarebbe bello presentare anche la soluzione: purtroppo ancora non c’è, anche perché investe non solo problemi tecnici (l’informatica in effetti moltiplica la necessità di porre confini ad un flusso di informazioni fin troppo facile): riguarda anche problemi umani e culturali.

L’aspetto etico della “questione” Absher

Una seconda questione riguarda più propriamente l’aspetto etico. C’è da scommettere che coloro che hanno sviluppato quest’applicazione siano rimasti increduli di fronte all’alzata di scudi avvenuta in Occidente. Che c’è di male, avranno pensato. In fondo quest’applicazione non fa altro che rendere più semplice ed efficace ciò che è stabilito nella nostra legge e cultura. Anzi, migliora addirittura le cose, perché ad un pedinamento fisico se ne sostituisce uno più lieve ed elettronico (come insomma il braccialetto elettronico è meno oppressivo del carcere).

Che cosa bisognerebbe replicare? Certamente qualsiasi persona educata ai valori della civiltà occidentale saprà rispondere in maniera convincente, ma il punto non è questo. La coscienza delle grandi diversità culturali ed etiche dei popoli è stata spesso presente anche nei secoli scorsi, ma questa creava meno problemi. Gli «imperi», da quello romano in poi, potevano tranquillamente accettare al loro interno enormi differenze e grandi autonomie. L’età dell’informazione, e poi quella della facilità dei viaggi, e poi il crescere delle migrazioni, rendono i problemi più acuti: le differenze incompatibili e laceranti non sono raccontate riguardo ad una parte irraggiungibile del globo, di «altri», ma sono a portata di mano. Ma (e qui volevamo arrivare) l’era informatica aggiunge un tipo di globalizzazione prima non vista: non solo c’è informazione, ma tutti possono usare, o usano di fatto, gli stessi strumenti: strumenti che, come mostra il caso di Absher, nelle loro funzionalità incorporano sempre, in maniera più o meno scoperta, un’etica, un orientamento di vita.

Il «semplice strumento» praticamente non esiste. Tuttavia, questa non è solo la causa sgradevole dell’esplosione di problemi: è anche l’opportunità preziosa di discuterli. Uno dei caratteri tipici dell’etica è la sua aspirazione all’universalità: finito il giustificato sdegno, sarebbe bene che il caso Absher spingesse a percepire l’importanza del problema, e anche a risvegliare noi occidentali da troppe pseudo-soluzioni di cui spesso ci siamo accontentati. Purtroppo non basta dire che ognuno deve fare ciò che gli pare bene, non basta dire che la differenza tra le culture è bella.

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