digitale e filosofia

Il Metaverso come la caverna di Platone? Il vero mondo è altrove

Che cosa direbbe Platone del Metaverso? Cosa scriverebbe in un fantomatico editoriale sulla nuova creatura di Mark Zuckerberg? Forse la saluterebbe con soddisfazione. Ecco perché

Pubblicato il 20 Gen 2022

Giovanni Salmeri

Università degli Studi di Roma Tor Vergata

La realtà virtuale nello sport: il ruolo della rabbia

È difficile trovare negli ultimi decenni qualche annuncio nel campo della tecnologia che abbia avuto una tonalità più filosofica del Metaverso riportato in auge da Mark Zuckerberg: al centro c’è infatti una sfida profonda sul senso della realtà, una sfida sulla quale è nata la filosofia occidentale (che, vale la pena ricordarlo, è all’origine, nel bene e nel male, dell’intera storia della scienza e della tecnologia!). Forse non è esagerato affermare che l’intera storia dell’Occidente, come figlio della filosofia, si regge sulla domanda: che cosa è reale e che cosa no?

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Il Metaverso e la caverna di Platone

Alcuni commenti (pochissimi in Italia, però) hanno notato un’inquietante analogia tra il progetto del Metaverso e l’allegoria della caverna in Platone: in essa si racconta di uomini che sono incatenati dentro una grotta, senza la possibilità di veder null’altro se non una parete davanti a loro, dove scorrono le ombre di oggetti che vengono trasportati alle loro spalle. Rinchiusi sempre là dentro, pensano che quella sia la realtà, che quelle siano le vere cose. E se uno di essi si libera ed esce dalla caverna, all’inizio rimarrà abbagliato dalla luce del sole, e solo a fatica si abituerà e potrà riconoscere la realtà delle cose, e capirà che tutto ciò che finora aveva considerato tale in realtà non lo era. Se proverà a tornare indietro a convincere gli altri di questo, sarà dileggiato e non creduto, perché è quasi insopportabile pensare d’un tratto che tutto ciò che si pensava esistere in realtà non c’era.

Che venga in mente questa antica e tragica pagina di Platone è giusto. In fondo, non c’era certo bisogno del Metaverso di Zuckerberg per rendersi conto delle potenzialità illusorie che le nuove tecnologie posseggono. Non c’è bisogno del Metaverso per conoscere frotte di adolescenti che vivono nella «realtà» dei videogiochi, a volte cancellando ogni rapporto con il mondo «reale». Non c’è bisogno del Metaverso per sapere come i canali sociali sono stati un vettore di una fortissima estraneazione dalle relazioni umane «vere» (di cui proprio Facebook, prima del suo declino come luogo per anzianotti, è stato la prima realizzazione di massa e universale). E forse non c’era bisogno neppure dei videogiochi o di Facebook per vedere come il computer fosse fin dall’inizio una potentissima «macchina psicologica», in grado anche di catalizzare e riorientare il rapporto con sé, con gli altri, con il mondo: questo è ciò che la psicologia Sherry Turkle, che aveva assistito di persona ai primi peraltro promettentissimi passi dell’intelligenza artificiale in ambito educativo, scriveva già alla metà degli anni 80. Il Metaverso sarebbe quindi solo un passo in più verso un annebbiamento nel senso della realtà.

Metaverso: l’hype è già passato o il bello deve ancora venire?

La tonalità dominante dei commenti all’annuncio di Mark Zuckerberg e al conseguente dibattito sul Metaverso è parsa finora oscillante tra il perplesso e l’apocalittico, certamente poche le approvazioni entusiaste: forse questo è allora il momento giusto per iniziare a fare alcune considerazioni più equilibrate e di respiro più ampio. Ciò che finora è avvenuto è stato solo un annuncio: viene da pensare al mitico progetto Xanadu di Ted Nelson, annunciato intorno al 1960… e ancor oggi (62 anni dopo) senza l’ombra di una realizzazione usabile. Ma questi decenni non sono stati certo sprecati, se non altro perché tante idee hanno circolato, hanno provocato altri progetti di enorme successo, hanno trasformato tanti aspetti delle nostre vite (non ha tutti i torti Nelson quando continua a ripetere che il World Wide Web è una copia sbiadita di Xanadu, per esempio). Vale allora la pena fare ora la stessa cosa, prima che il premere della realtà costringa (come spesso avviene nel mondo della tecnologia) a reazioni affrettate o semplicemente rassegnate, tanto più che, a differenza del geniale sognatore Ted Nelson, Mark Zuckerberg e la macchina da guerra di Facebook, ora appunto Meta, non soffrono certo di ingenuità e di mancanza di risorse per perseguire i propri obiettivi. Vogliamo allora provare, se non a discutere tutte le questioni connesse, almeno a vedere quali sono le sfide culturali maggiori che sono sottintese da questo annuncio.

Da dove partire? Forse il punto di vista migliore per capire ciò che sta avvenendo è costituito da quelli che sono presentati come gli elementi fondamentali del metaverso, ciò che lo deve «costruire»: la realtà virtuale, che permette di esplorare nuovi mondi ed esperienze condivise; la realtà aumentata, che permette di migliorare le esperienze condivise con effetti virtuali; infine, la tecnologia indossabile, che diventerà il punto di passaggio nel metaverso, permettendo di interagire con il mondo attorno a sé. Questi sono i tre elementi che vengono messi in rilievo nella pagina di presentazione della nuova strategia di Meta. Per ognuno dei tre elementi qualcosa già c’è, ma il più bello deve ancora venire.

L’uomo digitale come l’uomo nella caverna: il vero mondo è altrove

Eppure, queste considerazioni, quantunque fondate, rischiano di essere singolarmente superficiali. Citare Platone sarebbe colpevolmente fuorviante se si dimenticasse che quella della caverna è in lui un’allegoria. Se egli la racconta, è per sostenere che noi ci troviamo in un mondo illusorio, e che senza accorgercene siamo esattamente come gli uomini incatenati nella caverna. Tutto ciò che vediamo, tocchiamo, giudichiamo esistente e reale attorno a noi, veramente è solo un’apparenza: e di fronte a questa rivelazione la reazione divertita o sprezzante o infastidita che abbiamo è similissima a quella di coloro che, rimasti incatenati, restano a guardare le ombre sulla parete. Il vero mondo è altrove, vuole dire Platone: è il mondo dove le cose non passano, dove non nascono e muoiono. È il mondo che la sapienza ci insegna faticosamente a scoprire, e del quale nella nostra esistenza scorgiamo una traccia quando scopriamo i valori morali, per esempio, o quando ci facciamo commuovere dalla bellezza, quando ci lasciamo trascinare dall’amore nel dare un valore assoluto a qualcosa che nella sua realtà fattuale meriterebbe solo cinismo, come davanti ad un fiore che si sa che, esattamente come tutti gli altri, appassirà.

Si può essere d’accordo con Platone (come più o meno lo sono state le correnti idealiste o spiritualiste della cultura umana) oppure completamente contrari: ma in entrambi i casi, e in tutti quelli intermedi, bisogna riconoscere che quello che egli pone è il problema della collocazione della realtà. Chiamato a scrivere oggi un editoriale, Platone non scriverebbe commenti sdegnati contro il Metaverso: direbbe semplicemente che la condizione normale degli esseri umani (cioè la più frequente, la tentazione insopprimibile) è quella di vivere in un mondo immaginario, inesistente. Che questo mondo sia fatto di avatar o di corpi fisici, di animazioni 3D o di vicende umane e sociali senza senso, di sfondi creati in videografica o dei nostri paesaggi urbani (o anche naturali), di incontri sui social o di scambi umani superficiali e fragili, ciò non cambia nulla. Jean-Paul Sartre scriveva che non c’è nessuna differenza tra guidare i popoli o ubriacarsi in solitudine: Platone direbbe una cosa meno pittoresca ma forse ancora più grave, che non c’è nessuna differenza tra guidare i popoli nella «realtà» o in un videogioco. Direbbe forse che gli hikikomori tecnologici sono solo più saggi dei loro coetanei, perché perlomeno non si illudono che questo mondo di conformismo e di spinta al successo sia più vero di un videogioco.

Il Metaverso e il “problema” della realtà: un possibile editoriale di Platone

Se dovesse oggi scrivere un editoriale, Platone forse saluterebbe con soddisfazione l’annuncio di Zuckerberg: perché lo vedrebbe come il modo, finalmente, per porre il problema della realtà. Noterebbe come lo stesso termine «Metaverso» (una buffa mescolanza di greco e latino) nella sua prima componente riprende appunto la preposizione greca che significa «dopo», «oltre», «al di là»: quella particella che, nel composto «metafisica», dopo di lui iniziò a significare esattamente la domanda sulla realtà, quella sulla quale ancora oggi ci troviamo in imbarazzo, al punto che non riusciremmo mai a spiegare a qualcuno che cosa significa «esistere» se non ricorrendo a giri di parole. Ovviamente direbbe che è ridicolo che delle animazioni 3D abbiano qualcosa di «meta», ridicolo è che il simbolo di Meta sia un infinito stilizzato: ma ancora più ridicolo di entrambe le cose è che le domande sul senso della realtà (e quindi anche della nostra vita, fragile e pesante salvo qualche momento di dimenticanza o di euforia) siano liquidate come oziose e poco importanti, ancor più ridicolo è che l’infinito (o almeno la domanda su di esso) sia abbandonato nei cassetti di una cultura dove da un paio di anni pare che l’unico valore da perseguire sia sopravvivere ai contagi (e, quando va bene, riciclare le bottiglie di plastica): così abbandonato, appunto, che una società può tranquillamente appropriarsene per i suoi comprensibili scopi commerciali, e farlo piroettare davanti ai nostri occhi ogni volta che apriamo Whatsapp.

E forse concluderebbe il suo editoriale notando quanto sono stati miopi coloro che si sono ostinati per decenni a parlare del computer come di una «macchina utile», a considerare l’«intelligenza artificiale» come un inatteso sviluppo: quando invece i computer sono nati, tra gli anni 40 e 50, prima nel pensiero e poi nei fatti, come grandi esperimenti sulla comprensione dell’uomo e della realtà.

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