Facebook Reality Labs

Il metaverso di Facebook: la realtà aumentata come distruzione sociale

Mark Zuckerberg, Ceo e fondatore di Facebook, ma ora anche business designer, ha investito 50 milioni di dollari nello sviluppo di Metaverse, una piattaforma di meeting basata sulla Realtà Aumentata. Ecco i rischi legati a una realtà ridotta a simulazione

Pubblicato il 26 Ott 2021

Francesco Varanini

Consulente, docente, scrittore

Le quattro dimensioni del Metaverso - metaverse - regolamentazione metaverso

A fine giugno Mark Zuckerberg ha svelato che Facebook ha in cantiere il Metaverse, una piattaforma di comunicazione basata sulla Realtà Aumentata e Realtà Virtuale per offrire un’esperienza immersiva di sviluppo per comunicare e interagire in maniera più coinvolgente rispetto alle piattaforme esistenti di video-conferenza. Per descrivere il Metaverse, il Ceo e fondatore di Facebook ha usato aggettivi come “naturale” e “comodo”, prima di aggiungere di aver investito in 50 milioni di dollari nello sviluppo del meeting di nuova generazione.

Facebook ostaggio del proprio business model: ecco perché non risolve i problemi

Altre grandi aziende tecnologiche stanno sviluppando prodotti hardware e software per il metaverso, o i loro mondi virtuali al suo interno, tra cui Nvidia Corp, Roblox Corp. Epic Games Inc., Microsoft.

Ma il Metaverse di Zuckerberg è frutto di una visione proprietaria, come già Facebook: è una piattaforma progettata per indirizzare, inquadrare, condizionare le esperienze di ogni essere umano. La Realtà Aumentata del Metaverso, universale e unificante, in cui la realtà è ridotta a simulazione, mette anche a rischio la nostra stessa cultura umana.

La domanda di esperienze immersive

Aneddoto. Durante il distanziamento obbligatorio causato dal virus, tenni un incontro online. Tra i partecipanti: docenti universitari, persone convinte del proprio ruolo e della propria autorevolezza – in realtà per le prime volte esposte alla novità della connessione via piattaforma digitale.

Uno di loro si rivolge all’organizzatore, un imprenditore, e gli dice: “Apprezzo l’organizzazione dell’incontro in questo momento difficile, è bello trovarci qui insieme nonostante il difficile momento. Peccato però che la relazione tra di noi sia penalizzata dalla povertà del mezzo. Auspico una futura situazione in cui possiamo trovarci insieme in modo più empatico, caldo”. Pensavo che questo autorevole personaggio pensasse a un incontro dal vivo, presenti insieme in carne ed ossa. Ma no, mi accorsi che si trattava di un invito rivolto all’organizzatore, affinché una prossima volta convocasse l’incontro su una piattaforma più performante, dove ognuno di noi fosse presente tramite un proprio avatar, un simulacro digitale, un’apparenza tridimensionale.

Forse aveva letto la pubblicità di una di quelle soluzioni tecnologiche che promette di creare mondi in cui interagire e comunicare, vivendo “esperienze immersive molto simili a quelle della vita reale; ma migliori, più intense, delle esperienze della vita reale”.

Il Metaverse di Facebook

A fine giugno, quando ormai la necessità di incontrarsi online viene meno e torniamo in ogni luogo del pianeta ad incontrarci di persona, tempestivo scende in campo Mark Zuckerberg.

Facebook è ormai lontana dai tassi di crescita vorticosa di anni precedenti, nuovi social network appaiono sulla scena, non bastano le sinergie con Instagram e WhatsApp, emergono problemi di privacy e l’opinione pubblica si fa più critica sui questi temi. Così, all’inizio dell’estate, Zackerberg lancia il suo Metaverse. Se si è stufi di Facebook, se si considera troppo povera l’interazione offerta dalle piattaforme di video-conferenza, ecco la nuova terra promessa: il Metaverse.

Dopo le tante riunioni di lavoro nell’ultimo anno, “faccio fatica a ricordare in quale incontro qualcuno ha detto qualcosa, perché le persone sembrano tutte uguali e si fondono tutte insieme”.

“Quello che mi entusiasma”, afferma sorridente Zuckerberg, “è aiutare le persone a sperimentare una ‘sensazione di presenza‘ molto più forte” rispetto a quello offerto da social network e piattaforme. Ed anche, aggiunge: “più naturale, più comodo”. “Le interazioni che avremo saranno molto più ricche, sembreranno reali”. In futuro, invece di limitarti a telefonarmi, “potrai sederti come ologramma sul mio divano“, “sembrerà davvero di essere nello stesso posto, anche se ci si trova in stati diversi o a centinaia di chilometri di distanza” [1].

Così, conclude Zuckerberg, “mi aspetto che nel giro di cinque anni le persone ci vedranno non come un’azienda di social media, ma come una compagnia del metaverso”. Nel mentre lo descrive come un “Internet incarnato”, Zuckerberg annuncia che stanzierà 50 milioni di dollari per il suo sviluppo.

Metaverse: realtà ridotta a simulazione

Tornando al nostro aneddoto iniziale, quello che mi colpì di quel professore fu la superficialità, l’accondiscendenza con cui tutto ciò che viene presentato come innovazione: la soluzione di ogni problema affidata alla tecnologia; la convinzione che non si possa tornare indietro una volta adottata una tecnologia, l’unica possibilità è passare ad una più potente.

La tecnologia come imbuto nel quale va incanalata la vita. La realtà ridotta a simulazione. Quello che mi colpisce di Zuckerberg è il cinismo. Il suo approfittare del momento, della contingenza. C’è indubbiamente l’abilità imprenditoriale. C’è la capacità di approfittare di una esperienza da tutti sperimentata: l’insoddisfazione per la qualità delle interazioni permesse dalle piattaforme usate nel tempo del distanziamento sociale obbligatorio.

Ma sgomenta l’imposizione di un disegno politico e sociale. La pretesa di sostenere di conoscere cosa è bene per i cittadini del pianeta. E la confusione tra cosa è bene per i cittadini e cosa è bene – ovvero: utile- per lo stesso Zuckerberg. Aggiungo che, ovviamente, Zuckerberg non è che il campione, l’esponente esemplare di una generazione di imprenditori, o, come molti amano definirsi, business designer. Il che nei tempi digitali vuol dire: disegnatori di mondi nei quali non loro, ma ogni altro essere umano, dovrà vivere.

Realtà Virtuale, Aumentata e libertà umana

So bene che tecnici e studiosi del settore, saliti in cattedra a cavillare, sono pronti con la matita blu: Virtual Reality non deve essere confusa con Simulated Reality e Augmented Reality.

Ma vi invito a lasciar perdere queste sottigliezze: infatti, senza farsi tanti problemi, Zuckerberg parla di “sense of presence” senza definire il concetto, parla genericamente di qualcosa che appare naturale, che sembra reale. E mette insieme senza minimamente preoccuparsi di distinguerle, Realtà Virtuale e Realtà Aumentata.

Ma va sottolineata una differenza. La Realtà Virtuale è una realtà non fisicamente esistente ma fatta apparire via software: un mondo artificialmente costruito, nel quale il cittadino ed il consumatore sono invitati ad entrare. La Realtà Aumentata, invece, è una contaminazione, una corruzione della realtà quotidianamente, socialmente, liberamente vissuta dagli esseri umani.

Vivo le mie esperienze quotidiane, ma ora non sono più libero di viverle come persona libera. Sono costretto a viverla tramite la mediazione di un software, di un qualche algoritmo costruito da un tecnico.

Il mondo re-immaginato dalla tecnologia

Nel primo esempio, sono per strada e uso Google Maps. Inizialmente il supporto di Realtà Aumentata mi appare un supporto a muovermi più efficacemente, in base alle mie scelte. Ma presto lo strumento nelle mie mani si trasforma in uno strumento che tramite gentili spinte mi induce a muovermi in certi modi, e a osservare il mondo in una maniera che è frutto di un progetto altrui. I miei desideri, i miei sogni, le mie scelte di utilità sono messe in secondo piano, svilite o censurate.

Si deve poi aggiungere che la Realtà che si presenta come semplice “aumento” dello stato del mondo, finisce poi per prendere il sopravvento: crediamo di muoverci nello spazio della nostra città, e invece ci muoviamo dentro la rappresentazione di quello spazio costruita dai tecnici di Google.

Accade già a noi quello che accadrà in ogni caso all’auto a guida autonoma: visto che guardiamo la mappa di Google e non il terreno che abbiamo intorno, se c’è una buca nella strada questa dovrà essere registrata sulla mappa digitale, di proprietà di Google. C’è qui, anche, un significativo risvolto politico: ciò che è un bene pubblico, in virtù della Realtà Aumentata, finisce per divenire privato.

Nel secondo esempio, sono in un museo. Mi nutro della bellezza che ho intorno. Scelgo quale quadro guardare, e come. Scelgo il percorso. Scelgo dove e quando fermarmi, quando sedermi, in base a considerazioni estetiche e anche a privatissime sensazioni, come la stanchezza del momento, o a riflessioni legate al tempo a disposizione. Certo, posso anche seguire i suggerimenti di una guida, una persona in carne ed ossa, un essere umano con il quale interagire. I supporti di Realtà Aumentata, invece, allontanano il mio sguardo dal presente. Mi trasportano in un museo lontano dal qui ed ora. Un museo re-immaginato da un qualche esperto.
Infine, il tour così guidato porta sottilmente a pensare che tanto vale non essere fisicamente in quel luogo. La visita virtuale è meno faticosa. Sarò così sicuro di aver visto le opere che l’esperto considera importanti. Vengono meno, si dissolvono, la funzione educativa, esperienziale, della visita al museo, la mia crescita personale alla luce del bello che io stesso scopro.

Due tipi di occhiali

L’ultimo prodotto uscito dai Facebook Reality Labs, all’inizio del settembre 2021, l’ultima trovata commerciale legata alla nuova strategia di Facebook coinvolge anche una grande impresa italiana, Luxottica. I Ray-Ban Stories sono occhiali con il brand Ray Ban e la tecnologia di Facebook. La promozione dice che puoi catturare istantaneamente qualsiasi momento: “Occhiali che ti offrono un modo autentico per catturare foto e video, condividere le tue avventure e ascoltare musica o rispondere alle telefonate – così puoi rimanere presente con gli amici, la famiglia e il mondo intorno a te”.

In occasione del lancio di questi smart glasses, il capo dei Facebook Reality Labs (FRL), Andrew
“Boz” Bosworth
, incontra, in un nuovo episodio del podcast Boz to the Future, Rocco Basilico, Chief Wearables Officer di EssilorLuxottica. I due, entusiasti, concordano: “Le persone smart devono indossare gli smart glasses!”.

Ma il senso dell’operazione lo si legge a chiare lettere nella sintesi del podcast: “I Ray-Ban Stories segnano un’importante pietra miliare sulla strada verso gli occhiali AR [Augmented Reality], e il loro uso oggi è coerente con i casi d’uso che ci aspettiamo di vedere in futuro”. Ovvero: la nostra strategia consiste nel dotare i cittadini di strumenti tesi a pilotare il loro modo di fare esperienza.

La tecnologia non è mai veramente nuova

Si tende a vedere la storia della tecnologia come una freccia tesa verso il futuro: progresso, innovazione come allontanamento dal passato. Ma potremmo invece ben leggere la storia della tecnologia come ciclico ritorno su progetti e linee di sviluppo.

In questa foto, non vediamo qui un essere umano nascosto dietro occhiali scuri alla moda; non vediamo qui un essere umano pigro e dipendente, tenuto sveglio dagli effetti speciali di un accattivante Metaverso. Vediamo un essere umano orgoglioso del proprio pensiero, consapevole dei propri limiti, ma anche convinto del proprio discernimento.

La (condi)visione di Vannevar Bush

Nel settembre 1945 Vannevar Bush, finissimo tecnologo, ripubblica sulla rivista Life l’articolo As We May Think, uscito su The Atlantic in luglio. Tra le illustrazioni che accompagnano l’articolo, questa, che campeggia sopra il titolo, è la più chiara e significativa [2].

Possiamo ben immaginare quella telecamera integrata negli occhiali. Ma ecco la differenza tra gli occhiali di Bush e gli occhiali di “Boz” Bosworth e Basilico, che riflette la differenza tra il computer come lo intendeva Bush e come invece lo intende Zuckerberg.

Bush intende il computer, e le sue periferiche, come strumenti al servizio dell’essere umano che liberamente, e sempre più profondamente ed originalmente pensa. Esseri umani che come Galileo conoscono il mondo, sperimentano, fanno esperienza. Occhiali come il cannocchiale di Galileo.

Il supporto della macchina permette una esperienza più ricca. Bush immaginava che l’essere umano supportato dalla macchina sarebbe stato in grado di tenere traccia delle proprie esperienze, fonderle tra di loro, sommarle con conoscenze altrui. Immaginava che le conoscenze restassero bagaglio della persona, libera di scegliere come condividerle.

Dalle intuizioni di Vannevar Bush discende il World Wide Web, inteso come luogo di produzione sociale di conoscenza. Rete di conoscenze prodotte da esseri umani, in condizioni di libertà e parità di accesso.

La visione proprietaria di Zuckerberg

Mark Zuckerberg invece combatte il Web, prima sostituendovi il suo ambiente chiuso e proprietario, Facebook. E ora tentando di sostituire il Metaverse al Web. Una piattaforma progettata per indirizzare, inquadrare, condizionare, le esperienze di ogni essere umano.

Bush, e chi seguì la sua strada, immaginavano una rete peer-to-peer, dove ogni produttore di
conoscenza sceglieva cosa e come mettere in comune. Zuckerberg, al contrario, prevede che ogni conoscenza umana sia conservata in un cloud: cioè in un luogo di proprietà di Zuckerberg, fuori dalla controllo dei cittadini.

Le inclinazioni umane non sono bias

Non c’è bisogno di ripetere che prendiamo Zuckerberg come niente più che un esemplare rappresentante di una intera generazione di tecnici ed imprenditori. E del resto vale la pena ricordare che la scienza e la tecnica non sono neutrali. Tanto meno lo è la tecnologia, che è applicazione della scienza e della tecnica ad interessi politici, finanziari ed industriali [3].

Perciò possiamo guardare al retroterra storico e culturale che porta alla proposta del Metaverse. Viviamo una stagione storica di grande divaricazione tra una élite economica, finanziaria, politica, e tecnico-scientifica, da un lato, e dall’altro cittadini sempre più ridotti a sudditi impotenti, utenti e consumatori.

L’élite sostiene che i cittadini sono incapaci di scelte efficaci ed adeguate. Tesi politica confermata da significativi riconoscimenti. Nel 2002 il premio Nobel per l’Economia è attribuito a Daniel Kahneman. A Kahneman e al suo collega matematico-psicologo Amos Tversky Kahneman Thaler si deve il concetto di bias cognitivo. Una sorta di difetto congenito dell’essere umano. Errori di giudizio che portano a prendere decisioni sulla base di pregiudizi e di percezioni errate.

Il considerare questo vizio universale e congenito, permette di svalutare la portata dell’educazione, e anche la portata dell’umana saggezza. Limiti umani ovvi, così, vengono usati
come giustificazione per togliere spazio al libero arbitrio, all’esercizio dell’umana saggezza.
dipendenti da meccanismi universali che presiedono il recupero di conoscenze razionali, e agiscono secondo automatismi mentali che portano a prendere decisioni velocemente, ma il più delle volte sbagliate perché fondate su pregiudizi o percezioni errate o deformate. Insomma, sono decisioni prese a partire da un errore di giudizio.

Perciò, ogni essere umano deve essere guidato, indirizzato, ed infine trattato come un infante.
In perfetta continuità, il premio Nobel per l’Economia del 2017 è attribuito a Richard Thaler, sostenitore della stessa scuola. Gli esseri umani compiono errori. Esiste quindi la necessità di paternalismo; esiste la necessità che designer, architetti, costruttori dell’opinione pubblica, “influenzino il comportamento delle persone, al fine di rendere la loro vita più lunga, sana, e migliore”.

I dubbi sulla capacità dell’essere umano di prendere decisioni, si risolvono spingendo gli essere umani a prendere le decisioni che l’élite ritiene più convenienti. Questo è il senso del nudge, la spinta gentile.

Ho perso il conto delle volte in cui, in questi anni, ho sentito tecnici informatici, User Experience Designer, strateghi del passaggio al digitale giustificavano le loro scelte progettuali con i bias cognitivi degli esseri umani. Molto più raro il loro appello alla capacità di giudizio e alla saggezza che ogni essere umano possiede.

Per i poveri e deboli esseri umani, aggiunge ora Zuckerberg, non basta più Facebook come luogo di spinte gentili, ovvero di condizionamento di ogni cittadino e dell’opinione pubblica in genere. Serve il Metaverse, un luogo dove le gentilissime spinte saranno più incisive, irrefutabili.

La realtà come costruzione sociale

Agli inizi degli Anni Sessanta del secolo scorso, agli albori dell’era digitale, si afferma
l’espressione software. E di conseguenza virtuale, nel senso di “non fisicamente esistente ma fatto apparire via software”. Si apriva allora la stagione dei progetti di esperienze immersive che si pretendono alternative alla vita reale, o in grado di migliorare la stessa vita reale.
In quei giorni due sociologi americani di origini austriache, si incontrano per una vacanza nelle Alpi bavaresi, e ragionando e discutendo finiscono per decidere di scrivere un libro il cui significato, come loro stessi diranno, è perfettamente racchiuso nel titolo: The Social Construction of Reality [4]. Il libro uscirà nel 1966, e resta una pietra miliare.

Berger e Luckmann ci parlano di come, nel corso della nostra lunghissima storia, noi esseri umani ci siamo mostrati capaci di produrre conoscenze. Conoscenze adeguate alle necessità e ai desideri. Dalle esperienze e dalle conoscenze, nasce la realtà: un costrutto sociale, ci ricordano Berger e Luckmann, che tutti gli esseri umani contribuiscono a edificare e a mantenere viva.

La realtà è una costruzione sociale, alla quale ogni essere umano non solo ha diritto di partecipare, ma a cui è in grado di partecipare. Anche oggi siamo capaci, ovviamente, di produrre conoscenze, e quindi realtà.

Le accuse di Kahneman e Tversky, le pretese paternalistiche di Thaler non sono altro che aspetti contingenti di dinamiche politiche. Dinamiche che lungo la storia si sono presentate all’interno di ogni cultura: conflitti, lotte di potere, rotture di equilibri sociali.

L’unica novità è forse questa: alla pluralità di culture umane si tenta oggi di sostituire un’unica cultura, imposta per via digitale. La Realtà Aumentata del Metaverse, universale ed unificante, è un attacco alle culture umane, un’invasione del loro spazio.

Al “senso di presenza” creato via software che Zuckerberg ci propone, possiamo contrapporre la consapevolezza del nostro essere umani, l’autocoscienza, l’esperienza di sé narrata lungo l’arco di millenni dall’arte e dalla letteratura, dalla filosofia e dalle scienze umane, e presente nelle relazioni sociali, quando ci incontriamo faccia a faccia, veramente presenti con i nostri corpi e le nostre anime.

Ci aspettiamo una produzione digitale che rispetti la storia, e che se ne consideri parte. Non una produzione digitale che pretenda di sostituire la storia umana.

Note

  1. Casey Newton, “Mark in the Metaverse. Facebook’s CEO on why the social network is becoming ‘a metaverse company’”, The Verge, Jul 22, 2021.
  2. Francesco Varanini, “Vannevar Bush”, Dieci Chili di Perle, 20 febbraio 2010.
  3. 5 Francesco Varanini, Le Cinque Leggi Bronzee dell’Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, 2020: Terza Legge.
  4. Peter L. Berger and Thomas Luckmann, The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, Anchor Books, New York, 1966. Trad. it. trad. it. La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1969.

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Pnrr, il Dipartimento per la Trasformazione digitale si riorganizza
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Competenze digitali e servizi automatizzati pilastri del piano Inps
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