l’analisi

Imposta sui dati: i tasselli di un costituzionalismo digitale ancora tutto da costruire



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Il rapporto tra tecnologie digitali e diritto costituzionale tocca le basi stesse di integrazione/legittimazione sociale degli Stati. Per questo, occorre inquadrare le questioni di giustizia sociale e le tendenze all’eccessiva datafication come parte di un progetto coerente che abbraccia il rapporto tra capitalismo digitale e diritto costituzionale

Pubblicato il 9 giu 2023

Angelo Jr Golia

Facoltà di Giurisprudenza, Università di Trento



algoritmi big data

In quanto strumenti di giustizia sociale, i sistemi fiscali sono la chiave di volta sia della governance socioeconomica sia della legittimazione dell’autorità politica negli Stati moderni. Ma perché tutto ciò è rilevante per il cosiddetto ccostituzionalismo digitale (Redeker, Gill, e Gasser 2018; Suzor 2018; Pollicino 2021; De Gregorio 2022; Celeste 2022)?

Il dilemma di Böckenförde e la sua rilevanza per lo Stato (digitale)

“Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire da solo”

Il famoso (famigerato?) dictum di Böckenförde (Böckenförde, 1976) si rivolge a qualsiasi giurista che si trovi alle porte della teoria costituzionale contemporanea.

Nella sua essenza, si tratta di un memento sull’insufficienza del diritto (costituzionale) nel generare i presupposti della sua stessa prescrittività. Quando gli dèi non possono più essere invocati – non direttamente, almeno – per legittimare l’autorità; quando il nazionalismo ha generato mostri; quando la giustizia ha un significato diverso per ogni gruppo dello Stato pluriclasse e multiculturale, le costituzioni devono fare affidamento sulla loro capacità di preservare spazi sociali che consentano allo stesso tempo l’emersione e la mediazione dei conflitti. In questo contesto, la capacità degli Stati di redistribuire il valore economico e di trovare equilibri tra gli attori collettivi della società è fondamentale. Sistemi efficaci e socialmente legittimati di estrazione e redistribuzione della ricchezza non sono solo strumenti volti a preservare la pace sociale. Piuttosto, e in ultima analisi, essi svolgono un ruolo essenziale per la capacità delle istituzioni politiche di adottare decisioni legittime e collettivamente vincolanti.

L’impatto della rivoluzione digitale sull’economia politica

La rivoluzione digitale sta incidendo profondamente sull’economia politica presupposta dalle società moderne. La pandemia da COVID-19 ha solo accelerato dinamiche già in atto, che toccano il rapporto tra autorità e libertà, Stato e società, politica ed economia, attori collettivi e individuali (Cohen 2012; Floridi 2015). Grazie alla rivoluzione infotelematica, attori individuali e collettivi generano nuove forme di dibattito, contestazione, e conflitto, diverse da quelle presupposte all’epoca della fondazione del costituzionalismo moderno, e che spesso attraversano i confini degli Stati nazionali. Questi sviluppi, a loro volta, avvengono nel quadro della globalizzazione politico-economica e della frammentazione sociale innescata e/o dominata dal capitalismo neoliberale, quadro nel quale le tradizionali fonti di legittimità degli Stati costituzionali – in particolare i procedimenti elettorali e le altre istituzioni della democrazia rappresentativa – sono sempre più erose (Crouch 2004). Infine, questi sviluppi devono essere collocati nel quadro dei modelli di governance economica tipici degli Stati costituzionali. Oltre alla race to the bottom innescata dall’allineamento competitivo di sistemi normativi, fiscali, di welfare e di tutela del lavoro, il modello economico delle Big Tech ha un impatto sull’integrazione socio-politica anche perché incide sulle modalità di estrazione, circolazione e redistribuzione della ricchezza, ovvero sui sistemi fiscali e di welfare presupposti dagli Stati moderni.

Economia e finanza digitale, big data analytics & economy, criptovalute, smart contracts – in una frase, il capitalismo “digitale” o “dell’informazione” (Lianos 2023; Kapczynsky 2020; Cohen 2019; Ignatow 2017) – hanno accelerato processi già in corso che indeboliscono la capacità delle istituzioni politiche di governare efficacemente i processi sociali attraverso politiche di redistribuzione economica (Gordon-Tapiero & Kaplan 2023). Le grandi compagnie dell’economia digitale, quindi, non influenzano solo i comportamenti individuali o il modo in cui le persone collettivamente (non) raggiungono il consenso e accettano il potere come legittimo. Esse influenzano anche la capacità di governance economica degli Stati. Le esternalità del capitalismo digitale influenzano la capacità della politica di produrre decisioni socialmente legittimate, della scienza di produrre verità socialmente condivise, dell’economia di produrre valore per l’intera società e così via. Non sorprende che i paradisi fiscali del mondo stiano diventando sempre più i data centers dell’economia digitale.

Necessità di colmare una lacuna nell’agenda del costituzionalismo digitale

La dottrina giuridica da tempo indaga il rapporto tra la rivoluzione digitale, giustizia sociale ed economia politica (si veda, ad esempio, qui). Esiste ormai una letteratura su come il diritto “codifichi” i dati, rendendoli uno dei principali fattori di produzione del capitalismo digitale (Pistor 2019; Sadowski 2019; Vatanparast 2021). Le questioni di giustizia sociale sono state esplorate soprattutto dagli studiosi di diritto del lavoro, che collegano l’impatto delle tecnologie digitali e della platform economy alla creazione e alla ridistribuzione del valore a livello globale (Rogers 2020; Haidar & Keune 2021). Gli studiosi di diritto tributario, dal canto loro, esplorano principalmente due temi: anzitutto, il modo in cui la data economy influisce sulle capacità fiscali degli Stati e contribuisce ad evasione ed elusione fiscali (Diniz Magalhães & Christians 2023 e più in generale qui); in secondo luogo, come l’IA e le tecnologie digitali possono ottimizzare i sistemi fiscali, rendendoli più efficienti (v. qui). Tuttavia, solo di recente gli studiosi di diritto tributario hanno iniziato a concettualizzare i dati come ricchezza autonomamente soggetta a imposta (ad esempio, Zetzsche e Anker-Sørensen 2021; Marian 2022). Più in generale, pochi autori pongono esplicitamente questi temi in un quadro propriamente costituzionale.

Da parte loro, gli studiosi che utilizzano quadri costituzionalisti si concentrano generalmente su questioni come l’accesso a Internet, la libertà d’espressione online, la privacy, le garanzie procedurali come la trasparenza, la partecipazione, l’equità, l’amministrazione e la giustizia digitali e, più in generale, l’applicazione delle norme di diritto costituzionale ai poteri privati. Tuttavia, la maggior parte dei lavori dà per scontata la capacità di governo economico degli Stati. Più in generale, poche analisi combinano l’impatto delle tecnologie digitali sulla legittimazione delle istituzioni politiche con la loro capacità di perseguire fini di giustizia sociale, anche a livello globale (per un’eccezione, Gurumurthy & Chami 2021). Inoltre, i costituzionalisti difficilmente tematizzano i pericoli derivanti dall’eccessiva “dataficazione” delle relazioni sociali, oggetto di indagine dei cosiddetti critical data studies (Iliadis & Russo 2016; Johns 2021) – come un problema a sé stante, che deve essere affrontato attraverso gli strumenti del diritto (costituzionale).

Ma il rapporto tra tecnologie digitali e diritto costituzionale va oltre la tutela del “libero mercato delle idee”, la garanzia dei diritti online o, più in generale, nella sfera pubblica. Esso tocca le basi stesse di integrazione/legittimazione sociale degli Stati costituzionali. Per questo motivo, un approccio più ambizioso e autenticamente prescrittivo è chiamato a inquadrare le questioni di giustizia sociale e le tendenze all’eccessiva datafication come parte di un progetto coerente che abbraccia il rapporto tra capitalismo digitale e diritto costituzionale, soprattutto se non si vogliono riprodurre e rafforzare distinzioni artificiali tra le diverse “generazioni” di diritti. In termini sia analitici che prescrittivi, si tratta di un passaggio necessario nel più ampio percorso del “costituzionalismo digitale”, se quest’ultimo vuole essere all’altezza delle sue aspirazioni. Il costituzionalismo digitale, in altre parole, deve affrontare in modo più esplicito questioni tradizionalmente legate al “costituzionalismo economico”.

In particolare, decisori politici e studiosi sono chiamati ad affrontare, come parti di una coerente agenda politica e di ricerca, almeno quattro macro-questioni interconnesse:

  • l’impatto negativo sulle società moderne dei processi di datafication;
  • la costruzione giuridica più adatta alle finalità di estrazione e ridistribuzione del valore dei dati;
  • l’adeguata progettazione di strumenti fiscali che abbiano i dati come base imponibile;
  • l’interazione delle proposte di imposizione fiscale sui dati con le situazioni giuridiche derivanti da altri regimi giuridici ordinamenti (ad esempio, il diritto commerciale internazionale) e con questioni di giustizia sociale a livello globale. In questa sede, si vogliono esplorare alcune di profili di tali questioni, da intendersi solo come punti di partenza per la costruzione di un costituzionalismo digitale più ambizioso.

Dai critical data studies al costituzionalismo digitale (economico): i tasselli di un mosaico da definire

  • Critical data studies. L’accumulo, l’analisi, e il trattamento di dati, guidati dalle spinte alla massimizzazione del profitto nell’ambito dell’economia dell’attenzione, aprono a nuove forme di governamentalità che influenzano o manipolano il modo in cui gli individui e i gruppi si percepiscono e agiscono nella società (Johns 2021; Jongepier & Klenk 2022). Partendo da questo punto di analisi, risulta fondamentale elaborare strumenti per ridurre l’indiscriminata raccolta e analisi di dati da parte di attori economici. Ciò – ovviamente – senza demonizzare Internet e le opportunità di inclusione, partecipazione ed emancipazione offerte dall’ecosistema digitale, nonché le opportunità economiche offerte da una data economy ben regolata. Questo approccio, in altre parole, porta a chiedersi come ridurre gli incentivi economici all’eccessiva informatizzazione/datafication della società e alle relative forme di manipolazione. Tuttavia, prima di elaborare soluzioni concrete, la dottrina giuridica è chiamata ad elaborare nozioni giuridiche che si adatti alla necessità di considerare i dati come un bene economico autonomo. In altre parole, un’adeguata misura del valore economico dei dati ai fini della sua estrazione e redistribuzione richiede che il diritto “codifichi” i dati come beni economici in quanto tali, invece dei profitti derivanti dal loro trattamento. In questo modo, un approccio che ha come punto di partenza i critical data studies porta ad affrontare temi analizzati nell’ambito della institutional economics e dalle correnti dottrinali della “law & political economy”.
  • I dati come capitale. Nel capitalismo digitale, i dati sono il nuovo petrolio (Sadowski 2019). I profitti degli attori economici dipendono in larga misura dalla loro capacità di estrarre, elaborare, accedere e monetizzare i dati, ma la natura giuridica di questi ultimi varia a seconda del regime giuridico applicabile e degli interessi tutelati. Inoltre, i dati non sono una “cosa”, ma piuttosto un’espressione unitaria con la quale si indica una costellazione di attività, in particolare l’immissione, l’elaborazione, l’organizzazione, l’astrazione, la riduzione a unità, l’aggregazione e la trasmissione di informazioni attraverso le tecnologie digitali (Raso & Sheffi 2021). Il diritto svolge un ruolo centrale nel plasmare la capacità degli attori economici di monetizzare i dati e/o escludere terzi dal loro uso (Pistor 2019). In questo contesto, i dati vengono generalmente inquadrati come oggetto di diritti di proprietà o di privacy (si veda, ad esempio, Scassa 2018; Hummel et al. 2021; e più in generale qui). Tuttavia, i vari ordinamenti raramente “codificano” i dati come beni che possono essere tassati autonomamente e, in quanto tali, essi non compaiono nei bilanci societari. In questo contesto, sorgono le seguenti domande: quali modelli giuridici possono essere applicati allo scopo di configurare i dati come beni autonomamente tassabili? Come si misurano e si rendicontano i dati? I modelli giuridici variamente ispirate alla proprietà privata, al diritto d’autore, e ai commons sono adatti allo scopo? O è necessario elaborare modelli completamente diversi? Inoltre, poiché i dati hanno un valore economico tangibile solo se aggregati, una ulteriore questione è: oltre quali soglie quantitative o qualitative diventano una ricchezza autonomamente tassabile, cioè una base imponibile indipendente? In definitiva, quali costruzioni giuridiche sono necessarie per introdurre un’imposizione fiscale patrimoniale sui dati ai fini della riduzione degli incentivi economici alla loro indiscriminata accumulazione? Si tratta di questioni pressanti che gli studiosi e i decisori politici stanno iniziando ad affrontare (si veda, ad esempio, Godt 2021; Clay & Cory 2023), e dare risposte adeguate è condizione necessaria per affrontare quelle – ulteriori – relative alla definizione delle concrete misure fiscali.
  • Definizione dell’imposta. Gli obiettivi di politica del diritto di una imposta patrimoniale sui dati sono molteplici. Come visto, essi includono la riduzione degli incentivi economici alla loro indiscriminata accumulazione, ma anche obiettivi più ampi: giustizia sociale, rafforzamento del welfare e delle capacità redistributive degli Stati costituzionali e, in ultima analisi, legittimazione di questi ultimi. Alla luce di questi obiettivi, gli strumenti fiscali che si stanno prospettando si muovono sulla falsariga dei modelli pigoviani o della cd. Tobin tax. Per gli stessi motivi, un adeguato design fiscale dovrebbe affrontare questioni di progressività (Marian 2022) e di ridistribuzione verso le comunità da cui vengono estratti i dati (Singh & Vipra 2019). Infine, le scelte di progettazione fiscale devono considerare che la data economy ha natura transnazionale e le decisioni relative al gettito fiscale dovrebbero tenere conto di questo elemento, soprattutto dal punto di vista del divario tra Nord globale e Sud globale. Affrontare queste questioni è ineludibile, soprattutto se il costituzionalismo digitale mira a preservare la sua natura “globale” e non vuole contribuire a rafforzare i rapporti di forza esistenti (si veda ancora Gurumurthy & Chami 2021). Ma per farlo in modo adeguato, è necessario riflettere sulle infrastrutture istituzionali e le scelte/valori politici presupposti ad esse. In altre parole, un’adeguata progettazione fiscale richiede di affrontare questioni normative, in ultima analisi modellate da scelte di valore che si trovano al centro di qualsiasi autentico costituzionalismo economico digitale.
  • Costituzionalismo economico digitale. Le questioni appena richiamate evidenziano la necessità di creare e/o rafforzare le istituzioni di governance economica, soprattutto a livello sovranazionale. Poiché l’economia dei dati è intrinsecamente globale o quantomeno transnazionale, le questioni relative alla progettazione di adeguati strumenti fiscali e alla governance dell’economia digitale devono essere affrontate insieme a quelle relative al controllo delle infrastrutture dell’ecosistema digitale (Fisher & Streinz 2022). In un’epoca in cui i singoli Stati nazionali sono sempre meno in grado di regolare efficacemente l’ecosistema digitale, pur traendone profitto, organizzazioni e attori internazionali come l’Unione europea sono i candidati più naturali per adottare misure efficaci. Anche in questo caso, però, si pongono alcune domande: come dovrebbero essere configurate le istituzioni e gli strumenti giuridici volti a perseguire in modo efficace e legittimo gli obiettivi di una imposta patrimoniale sui dati? Come dovrebbero essere gestiti i conflitti normativi con altre istituzioni o regimi giuridici (Burri 2021)? Oltre a queste questioni, proprio gli obiettivi politico-integrativi presupposti da un’imposta patrimoniale del genere richiedono una riflessione sulla direzione del relativo gettito fiscale: oltre al reinvestimento nei sistemi di welfare a fini di legittimazione sociale e riduzione delle disuguaglianze, è cruciale rafforzare i settori sociali più colpiti dalle possibilità di privatizzazione/monetizzazione aperte dall’economia digitale, in particolare nel campo della medicina, dell’informazione/stampa e della scienza (v., ad es., Pickard 2022; ; Lamcheck 2022). In altre parole, se il costituzionalismo digitale vuole essere all’altezza delle aspirazioni storiche di ogni autentico costituzionalismo, dovrà riuscire a elaborare un’agenda normativa e politica riguardante la redistribuzione del valore economico generato dall’economia digitale, soprattutto nei campi sociali strumentali alla generazione di inclusione sociale e di consenso, conoscenza e verità socialmente condivisi. In questo modo, si instaurerebbe una conversazione a lungo attesa con altri filoni politici, giuridici, ed economici relativi alla governance globale (v. ad es. Piketty 2013).

*Questo contributo fa parte del progetto di ricerca “Il principio di progressività nell’economia digitale. Possibilità di una “Data Capital Tax” nel diritto costituzionale italiano ed europeo”, finanziato dal Ministero Università e Ricerca-MUR (Bando: MUR_Montalcini 2020). Ho tratto grande beneficio dalle conversazioni con Thomas Streinz, Giovanni De Gregorio e Oren Perez. Tutti gli errori restano miei.

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