la storia

Martin Luther King visto dall’FBI: così il web svela il lato oscuro dei miti

I documenti desecretati dell’FBI rivelano il discutibile privato di un’icona della lotta per i diritti civili. E tutto è disponibile online: basta trovare il link giusto. Un’indagine che segna uno spartiacque nel giornalismo, ecco perché

Pubblicato il 30 Ago 2019

Giovanni Salmeri

Università degli Studi di Roma Tor Vergata

Martin Luther King Jr.

Il recente epocale articolo su Martin Luther King, che tanto scalpore ha destato oltreoceano per tutta una serie di motivi che andremo ad approfondire di seguito, segna anche, simbolicamente, una nuova tappa nel giornalismo: l’inchiesta sensazionale può essere svolta tutta interamente nella Rete, un solo indirizzo può far traballare opinioni consolidate, punti di riferimento, certezze. Con conseguenze sulle quali tutti dovremo fare i conti.

Martin Luther King, un mito dal privato sconcertante

Il 30 maggio scorso il mondo culturale e politico statunitense è stato scosso dalla pubblicazione di un articolo con l’effetto detonatore di una bomba. Un serio storico, David J. Garrow, ha reso pubblici i risultati di una sua inchiesta sui documenti segreti dell’FBI riguardanti Martin Luther King.

Da essi risulta più chiaro e inquietante il quadro dell’atteggiamento persecutorio tenuto dai servizi segreti americani nei confronti di un rivoluzionario campione dei diritti civili, che proprio per questo veniva però sospettato di avere simpatie comuniste: in quanto tale, ovviamente un nemico della nazione, da tenere d’occhio e cercare di neutralizzare. Dall’esame dei documenti risulta anche praticamente confermato il sospetto che si era sempre avuto: che una celebre lettera anonima minatoria giunta a Martin Luther King, in cui gli si consigliava di sparire dalla scena pubblica (o addirittura dalla faccia della terra: il testo è ambiguo), apparentemente scritta da un afroamericano scandalizzato da suoi comportamenti privati, in realtà proveniva dall’FBI stessa. Tutto questo completa e rende più fosco un panorama già a grandi linee noto e che mostra la difficoltà con cui una battaglia per i diritti civili, che alla sensibilità odierna pare addirittura banale, ha dovuto farsi strada in un paese che pure della libertà ha sempre fatto la sua bandiera.

Ma non è questo il motivo per cui l’articolo ha suscitato sconcerto. In esso è soprattutto un altro il quadro, già noto anch’esso, che viene chiarito e approfondito: quello del comportamento privato di Martin Luther King. Il continuo spionaggio dell’FBI, se infatti rivelò poco di sue simpatie comuniste, fornì materiale sovrabbondante sulle sue attività in camera da letto: già era noto che la fedeltà coniugale non era esattamente il suo forte, ma dalle trascrizioni ora consultate emerge un personaggio costantemente impegnato a sedurre donne, pagare prostitute, organizzare orge: vita privata sì, ma pur sempre incompatibile con quella morale che, da pastore battista, egli predicava e in nome della quale conduceva le sue battaglie.

Inoltre, quel che è ancora peggio, egli risulterebbe come testimone e incoraggiatore di vere violenze sessuali: e qui non vi è distinzione tra pubblico e privato che regga. Non è la prima volta che, senza nulla togliere alla nobiltà delle battaglie politiche da lui condotte, la figura iconica di Martin Luther King viene ridimensionata (anni fa si scoprì per esempio che la sua tesi di laurea era scopiazzata): ma questa volta il caso è più grave, e lo è soprattutto per una nazione che, per dirne una, ogni anno celebra il giorno del suo compleanno come festa nazionale.

L’inchiesta diventa “all digital”

Ma che c’entra tutto questo con la rivoluzione digitale? La cosa che mi ha colpito di più in quest’articolo non è stato solo il contenuto, ma il fatto che tutta la documentazione su cui è basato è liberamente disponibile su Internet, e infatti diligentemente linkata dall’autore. Insomma, il lavoro di investigazione giornalistica non è stato condotto chiudendosi per settimane in misteriosi depositi sotterranei, percorrendo scaffali polverosi e sfogliando monumentali faldoni, o magari scavalcando nottetempo qualche cancello mal custodito. All’autore è bastato accendere il computer, andare all’indirizzo giusto, prelevare qualche decina di scansioni, e leggerle attentamente. Forse per far apparire la sua opera un po’ più difficile qualcuno ha sottolineato che il link alla documentazione, recentemente desecretata, non era evidente nei siti del governo federale: ma suvvia, qualsiasi ragazzino avrebbe potuto fare la stessa cosa.

Smettiamola, per favore, con le fake news

Alcune considerazioni sembrano allora opportune. In primo luogo non sarebbe male se terminasse un poco l’isteria sulle «fake news». Notizie false, o semplicemente errate, sono sempre esistite. (Se poi volessimo classificare così le disinformazioni, affermazioni fuorvianti e «riserve mentali» abituali nella diplomazia, potremmo quasi dire che la storia del mondo è fatta di questo.) Parlare di «fake news», con un inutile anglicismo, vuole evidentemente suggerire che il fenomeno sia nuovo, o perlomeno moltiplicato dagli odierni mezzi di comunicazione della Rete: ma questo non è vero. Se vi è una moltiplicazione, questa riguarda allo stesso modo la possibilità di falsità e la possibilità di verità, e forse la seconda più della prima.

La Rete, concepita da Tim Berners-Lee come un comodo strumento per scambiare informazioni professionali in una società sempre più complessa e non organizzata linearmente, sta diventando anche un immenso deposito di sapere, di documentazione, di parole e di immagini sul presente e il passato del mondo. Gli accademici (come me) si sentono ancora in dovere di avvertire gli studenti che per fare una buona tesina non basta ciò che si trova nella Rete: ma lo dicono con sempre minore convinzione, perché un po’ alla volta la situazione si è capovolta: ora sono le biblioteche reali che non bastano più. (Il che deve suscitare molte considerazioni sull’Open Access: ma questo un’altra volta). Ma tutto ciò significa anche che la ricerca, il sapere, e pure l’inchiesta giornalistica, sono diventati più democratici, facili, aperti a tutti.

La nevrosi sulla privacy

Ma «chi aumenta il sapere aumenta il dolore», e questa è la seconda lezione. Ci sono tante cose che sarebbe meglio non sapere: la Rete lo rende sempre più difficile. Non credo che le conseguenze di tutto ciò siano ancora adeguatamente pensate. Anche qui la risposta più comune mi pare parziale e mal indirizzata: la nevrosi sulla privacy. Cose la cui conoscenza pubblica per secoli è stata pacificamente accettata sono oggi ritenute degne di una riservatezza che un tempo si riservava solo ai segreti industriali (o ai colloqui personali con avvocati e preti). Il problema è che tutto questo non può far nulla per imporre la riservatezza su questioni che hanno effetti ben più dirompenti non sui singoli, ma sulla società.

La rete e la fine dei miti

L’America sarebbe stata molto meglio senza sapere nulla di un Martin Luther King debosciato, violento, maschilista; avrebbe avuto la vita più facile se avesse potuto mantenere il ricordo di «I have a dream» senza lasciarlo turbare da dichiarazioni sconce e volgari che ora nessuno potrà dimenticare (nel 2027, ciliegina sulla torta, saranno resi pubblici pure i nastri con le registrazioni delle intercettazioni ambientali: quale sarà il primo giornalista che ascolterà gli mp3 e ne farà un articolo?). Tutti i grandi miti fondatori delle società hanno funzionato effettuando un’attenta selezione delle cose da dire e quelle da tacere, in maniera che alla fine ci fossero più o meno solo buoni e cattivi. La Rete ormai non lo permette. Molte riviste si sono rifiutate di pubblicare l’articolo di Garrow, e si capisce perché: che effetto può avere trascinare nel fango uno dei miti fondatori dei diritti civili moderni? Bel problema anche per gli episcopaliani e i luterani che in America lo commemorano, praticamente come un santo, rispettivamente il 4 aprile e il 15 gennaio. Ma ogni tentativo di avversare questa trasparenza appare patetico (e comunque con un po’ di pazienza Garrow ha trovato l’eccellente rivista britannica Standpoint che ha accolto il suo testo).

Anche per l’autore dell’inchiesta, ammiratore di Martin Luther King, non deve essere stato facile. Così egli termina il suo articolo: «Con il senno di poi, sembra ormai certo che Martin Luther King conosceva sé stesso meglio e più completamente di quanto noi abbiamo potuto farlo negli ultimi 50 anni. Come disse alla sua comunità di Ebenezer il 3 marzo 1968: “C’è una schizofrenia, come la chiamerebbero gli psicologi o gli psichiatri, che continua in tutti noi. Ci sono momenti in cui tutti noi sappiamo in qualche modo che in noi c’è un Mr Hyde e un dottor Jekyll”. Ma ciononostante insistette sul fatto che “Dio non ci giudica dagli incidenti separati o dagli errori separati che facciamo, ma dall’inclinazione totale delle nostre vite”».

Forse il giudizio della storia non è uguale a quello del Dio di cui parlava Martin Luther King, e comunque è più complesso e doloroso, e tutti noi dobbiamo contribuirvi. Questa è un’altra delle «abilità digitali» che volenti o nolenti dobbiamo imparare sempre di più.

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