ict e ambiente

L’impronta ambientale dell’ICT: ecco l’impatto dei nostri device sul Pianeta

Depauperamento di risorse non rinnovabili, riscaldamento globale, inquinamento: la rivoluzione digitale, con i suoi Pc, dispositivi elettronici e infrastrutture ICT, ha un impatto sull’ambiente che molti di noi neanche immaginano. Una panoramica su tutte le problematiche connesse

Pubblicato il 24 Giu 2019

Giovanna Sissa

professore a contratto del Corso "Dimensione interdisciplinare dell'Impatto ambientale dell’ ICT", presso la scuola di Dottorato STIET (Scienze e Tecnologie per l’Ingegneria Elettronica e delle Telecomunicazioni) dell’Università di Genova

ewaste

I dispositivi ICT che circondano la nostra vita, in modo visibile o invisibile, ad uno sguardo superficiale possono apparire come privi di effetti sull’ambiente. Quando si accende un computer o uno smartphone non si vede fumo, né polvere, non c’è cattivo odore. Non si osserva, si annusa, si tocca o si percepiscono inquinamento o calore. Nessuna sensazione soggettiva è però più sbagliata.

I tre principali impatti dei device sull’ambiente

I computer, siano desktop, laptop o server, gli smartphone e i tablet come i router o tutti i dispositivi del settore telecomunicazioni, i sensori e attuatori connessi ad Internet dell’universo IoT, come tutti i dispositivi ICT, grandi o piccoli, individuali o collettivi, usati in cloud o in locale, hanno effetti sull’ambiente che si possono raggruppare in tre categorie principali. Contribuiscono;

  • al riscaldamento globale,
  • all’inquinamento
  • al depauperamento delle risorse limitate (quali ad esempio alcuni minerali).

Qualche considerazione generale può quindi servire a inquadrare il problema ambientale, anche per quanto riguarda il settore ICT:

  • Le emissioni di gas serra (spesso definite CO2 equivalenti) sono responsabili del riscaldamento globale;
  • L’inquinamento è responsabile del degrado dell’ambiente derivante da uso di sostanze che contaminano acqua, aria o suolo;
  • L’uso indiscriminato di risorse – come ad esempio molti minerali – che sono limitate sul pianeta (anche se presenti in grande quantità) è insostenibile per il futuro del pianeta.

Costruire un dispositivo ICT richiede una notevole quantità di combustibili fossili, materiali (anche tossici), minerali rari, acqua. Una parte dell’impatto ambientale si ha nell’estrazione delle materie prime e nella fabbricazione dei componenti, che comporta anche un forte utilizzo di energia elettrica.

I dispositivi finali vengono trasportati per lunghe distanze, in imballaggi consistenti che andranno poi smaltiti. Server, computer, monitor, data center, infrastrutture di comunicazione e relativi sottosistemi consumano una grande quantità di energia nel loro funzionamento: l’incremento della richiesta energetica contribuisce al riscaldamento globale. Inoltre lo smaltimento a fine vita ha un forte impatto ambientale: può essere inquinante e pericoloso.

Quanto pesa l’ICT sull’ambiente?

Depauperamento di risorse non rinnovabili, riscaldamento globale, inquinamento: questi termini indicano aspetti diversi dell’impatto ambientale: non sono sinonimi e non sono intercambiabili. Hanno ovviamente punti di contatto e correlazioni, che si possono sintetizzare nell’idea che ogni dispositivo artificiale lascia sulla terra un’impronta che descrive gli effetti che tale dispositivo ha avuto nel corso di tutta la sua vita sull’ecosistema.

Computer, dispositivi elettronici e infrastrutture ICT consumano quantità significative di elettricità, mettendo un pesante fardello sulle nostre reti elettriche e contribuendo alle emissioni di gas serra. Nel 2008 l’ICT ha contribuito per il 2% delle emissioni globali di CO2, nell’ultimo decennio tale contributo è triplicato e si stima che nel 2040 si arriverà al 14% (a fronte di un contributo del 20% del settore trasporti, sostanzialmente stabile nel tempo). Ad aumentare il proprio impatto sono soprattutto gli smartphone, dato il tasso di crescita e la rapidità di sostituzione. Ma come si arriva a queste quantificazioni?

Gli indicatori

Esistono vari indicatori che fanno capo alla cosiddetta Footprint Family, ovvero alla famiglia di indicatori che si basano sul concetto di impronta, a sua volta legato al concetto di appropriazione delle risorse naturali. Senza entrare nei dettagli delle definizioni o metriche che le scienze ambientali hanno elaborato – definizioni e metriche che non è immediato applicare all’ICT – ci concentriamo sull’Impronta Ecologica (Ecological Footprint) e sull’Impronta di Carbonio (Carbon Footprint), due indicatori che monitorizzano aspetti diversi e complementari l’uno con l’altro.

L’impronta ecologica è un indicatore complesso utilizzato per valutare il consumo umano di risorse naturali rispetto alla capacità della Terra di rigenerarle. L’impronta ecologica misura l’area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria a rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e ad assorbire i rifiuti prodotti. Utilizzando l’impronta ecologica è possibile stimare quanti “pianeta Terra” servirebbero per sostenere l’umanità, qualora tutti vivessero secondo un determinato stile di vita.

La carbon footprint (letteralmente, “impronta di carbonio”) è un parametro che viene utilizzato per stimare le emissioni gas serra (d’ora in poi GHGs – GreenHouse Gases) causate da un prodotto, da un servizio, da un’organizzazione, da un evento o da un individuo, espresse generalmente in  tonnellate di CO2 equivalente. Tale parametro può essere utilizzato per la determinazione degli impatti ambientali che le emissioni hanno sui cambiamenti climatici di origine antropica. La produzione di energia elettrica, particolarmente rilevante nella fase d’uso dell’ICT, viene espressa in termini di GHGs.

Life Cycle Assessment

Gli impatti ambientali devono essere considerati lungo l’intero ciclo di vita. Nell’ambito dei processi produttivi, ogni unità di prodotto genera un impatto lungo la sua intera filiera, di cui il cliente finale è in qualche modo il “responsabile” in quanto causa della domanda di quel bene medesimo. Il Life Cycle Assessment, è la metodologia per individuare e quantificare i carichi ambientali complessivi di un prodotto “from cradle to grave” (dalla “culla alla tomba”).

Il ciclo di vita del prodotto è costituito da varie fasi: l’estrazione di materie prime, la produzione, il trasporto, l’utilizzo del prodotto e il suo fine vita.

La produzione di dispositivi ICT è ad alta intensità energetica e materiale; i combustibili fossili utilizzati per realizzare un computer desktop tradizionale pesavano circa 10 volte il peso del desktop stesso. Questo rapporto per i dispositivi ICT è alto rispetto a molti altri beni materiali artificiali: per un’automobile o un frigorifero, ad esempio, il peso dei combustibili fossili utilizzati per la produzione è all’incirca uguale al loro peso.

Perché l’uso delle materie prime dovrebbe essere relativamente alto per i dispositivi a semiconduttore? La spiegazione fondamentale sta nella termodinamica. I microchip e molti altri prodotti high-tech sono forme di materia estremamente bassa ed entropicamente organizzate. Poichè vengono fabbricati usando materiali di partenza ad entropia relativamente alti, è naturale aspettarsi che sia necessario un notevole investimento di energia e materiali di processo per la trasformazione in una forma organizzata.

Il costo dell’hardware discende proprio dai processi hi-tech lunghi, per la trasformazione dalle materie prime ai componenti del computer (e da essi alle parti del computer e poi all’oggetto finale). Il costo di un computer dunque è costituito solo in minima parte dal valore delle materie prime che lo costituiscono. Il suo valore è costituito dai componenti hi-tech al suo interno, ovvero dall’hardware e, in misura sempre più crescente, dal software. Almeno fino a quando il computer è in esercizio.

Quando viene dismesso (sia esso ancora funzionante o meno) e diventa “rifiuto” il suo valore decresce drasticamente, perché l’unica componente che ne rimane è l’hardware. Può essere recuperata, nella migliore delle ipotesi, qualche scheda o componente – dipende dall’economicità e dai margini di guadagno possibili.

Mediante il riciclo si possono, dopo una serie di processi di trattamento, recuperare le materie prime secondarie [1] che lo compongono, da riutilizzare nuovamente nella produzione. Se la struttura interna dei dispositivi ICT è complessa, il recupero, mediante riciclo, delle materie prime secondarie è proporzionale alla complessità nella fase di costruzione; questo rende il corretto smaltimento un processo multifase, lungo e costoso.

Il trattamento del computer come rifiuto elettronico è dunque un processo articolato, costoso che, se non fatto in sicurezza, può essere anche inquinante e pericoloso.

Il fine vita ha un forte impatto ambientale: i componenti e più in generale i dispositivi ICT, contengono molte sostanze tossiche e se gettati nelle discariche o non trattati adeguatamente provocano all’ambiente e alla salute danni irreparabili.

eWaste

E-waste è un termine informale che indica i prodotti elettronici quando sono prossimi alla fine del loro ciclo di vita ed è uno dei segmenti della filiera dei rifiuti solidi che cresce più rapidamente. In Europa cresce del 3%-5% l’anno, tre volte più in fretta dei rifiuti in generale.

Il numero di dispositivi ICT è aumentato in modo vertiginoso in paesi come Cina e India, dove centinaia di milioni di nuovi utenti hanno trasformato il mondo ICT, sia lato consumer che producer.

Già nel 2006, si stimava che in Europa erano stati prodotti 8-12 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici. I rifiuti elettronici rappresentano oggi una porzione di tutti i rifiuti solidi urbani: è circa la stessa percentuale degli imballaggi in plastica, ma i rifiuti elettronici sono molto più pericolosi e crescono, come si è detto, a un tasso elevatissimo. Ma i paesi in via di sviluppo hanno moltiplicato la loro produzione di rifiuti elettronici in modo molto più elevato.

C’ è inoltre un lato oscuro, formalmente vietato, e ancora con molte zone d’ombra: lo smaltimento non a norma, scorretto, mal tracciato, o illegale verso paesi del terzo mondo dove intere regioni o città, ad esempio dell’Africa, sono diventate discariche a cielo aperto in cui ambiente e salute delle persone sono compromesse.

In parallelo alcune zone del mondo non coinvolte fino a poco tempo fa nel settore ICT diventano improvvisamente epicentro di nuove sfide tecnologiche, come nel caso delle server farm dedicate al mining dei bitcoin. Nuove problematiche, di tipo ambientale, si affiancano così alle preesistenti.

L’Europa e i RAEE

I rifiuti elettronici nella normativa normativa internazionale e nazionale sono associati anche ai rifiuti di apparecchiature elettriche come WEEE (Waste Electrical & Electronic Equipment), che in Italia vengono chiamati RAEE (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche). I dati, come la legislazione, sono riferiti ai RAEE nel loro complesso. Sono suddivisi in cinque gruppi, di cui il Gruppo 4 comprende i dispositivi ICT. Non è immediato dunque conoscere le percentuali effettive di smaltimento a norma dei dispositivi ICT e ancora meno delle singole tipologie di dispositivo.

L’Unione Europea ha introdotto due atti legislativi specifici:

  • la direttiva sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (direttiva WEEE)
  • la direttiva sulla restrizione dell’uso di determinate sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche (direttiva RoHS).

La prima direttiva WEEE (direttiva 2002/96/CE), entrata in vigore nel febbraio 2003, ha definito la creazione di sistemi di raccolta in cui i consumatori restituiscono i loro WEEE gratuitamente, mirando così ad aumentare il riciclo dei WEEE e/o il riutilizzo. Nel dicembre 2008, la Commissione europea ha proposto di rivedere la direttiva al fine di affrontare il rapido flusso di rifiuti in aumento e la nuova direttiva WEEE 2012/19/UE ed è entrata in vigore il 14 febbraio 2014.

La legislazione dell’UE che limita l’uso di sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche (Direttiva RoHS 2002/95/CE) è entrata in vigore nel febbraio 2003: prevede che metalli pesanti e ritardanti di fiamma siano sostituiti con alternative più sicure. La direttiva è stata poi rivista (RoHS 2011/65/UE) ed è entrata in vigore il 3 gennaio 2013.

L’idea guida è responsabilizzare le industrie del settore, invitandole a progettare in maniera ecocompatibile, limitando l’utilizzo degli inquinanti. I principi di design for the environment prendono in considerazione già nella fase di progettazione gli aspetti ambientali e i costi correlati alla gestione dei beni a fine vita, per facilitare smaltimento e riciclo dei prodotti.

Per promuovere l’introduzione di una progettazione che tenga conto dell’ambiente devono essere gli stessi produttori di apparecchiature hi-tech a pagare i costi della raccolta, recupero e smaltimento, senza accollare tout court i costi aggiuntivi al consumatore.

La prospettiva di doversi fare carico economicamente della gestione del fine vita dovrebbe responsabilizzare le industrie e indurle a produrre apparecchiature meno pericolose e più facili da smaltire o recuperare. L’idea ispiratrice è sintetizzabile con “chi inquina paga”.

Si cerca di far desistere il consumatore dalla “tentazione del cassonetto”, delegando al produttore la responsabilità economica dello smaltimento e imponendo ai distributori il principio del “vuoto a rendere”.

La riduzione degli impatti ambientali viene ridotta anche grazie a:

  • la definizione di obiettivi minimi di riuso, riciclo e recupero dei WEEE;
  • l’introduzione dell’obbligo della raccolta differenziata per i WEEE;
  • l’introduzione del divieto di smaltimento in discarica dei WEEE che non siano preventivamente stati sottoposti a trattamento.

Attuazione della normativa Europea negli Stati membri

La direttiva WEEE (con la sua complementare RoHS), secondo il principio di sussidiarietà, stabilisce i requisiti generali cui ogni Stato membro europeo deve attenersi nell’adottare le proprie regole di applicazione; a esso sono lasciate le modalità logistiche e organizzative. Di conseguenza ci sono sistemi diversi nei vari Stati membri. Alcuni (come il Belgio, la Svezia, la Danimarca o i Paesi Bassi) avevano già una normativa e un sistema organizzativo per il WEEE prima che la direttiva entrasse in vigore. Tali sistemi riflettevano le diverse situazioni e filosofie nazionali e hanno dovuto adeguarsi alla direttiva. Altri Paesi membri hanno invece sviluppato una regolamentazione e un sistema di gestione per conformarsi alla direttiva.

Ci sono due modelli di sistema di gestione: quello collettivo e quello competitivo.

Il sistema nazionale collettivo (o monopolio) è un sistema nazionale responsabile di raccolta, riciclo e relativo finanziamento a livello nazionale. Al primo modello si ispirano gli Stati elencati, che avevano già prima un proprio sistema di gestione WEEE.

Il sistema della “competitive clearing house” invece è un quadro di riferimento nazionale in cui più partner (produttori, riciclatori e organizzazioni che si occupano di rifiuti) erogano servizi. Il governo assicura che ci sia un registro dei produttori e definisce dei meccanismi di allocazione e monitoraggio. Un ente nazionale di coordinamento garantisce la corretta allocazione delle quote sul territorio. Il principale motivo per l’adozione di questo modello è evitare una situazione di monopolio e diminuire i costi. Specialmente gli stati più grossi hanno optato per questo secondo modello e in tali stati, fra cui l’Italia, molti soggetti sono entrati nel meccanismo del trattamento RAEE.

Obsolescenza: reale o indotta?

Perché la filiera dei rifiuti dell’ICT è fra quelle in maggior crescita? Una ragione consiste nel fatto che la durata dei prodotti è in diminuzione, poiché i prodotti diventano obsoleti a causa di obsolescenza prematura (a volte programmata) o di smaltimento premature (di un prodotto funzionante).

Una grande parte dei prodotti viene sostituita anche se sono ancora funzionanti per varie ordini di ragioni: fattori emotivi e sociali, fattori materiali, funzionali psicologici ed economici influenzano congiuntamente la durata del prodotto, in interazione con l’innovazione dei produttori e le strategie di mercato e le possibilità e gli ostacoli alla riparazione e aggiornabilità.

Dal punto di vista ambientale ed economico, la riduzione della durata del prodotto è allarmante. La produzione consuma risorse preziose con un’impronta ambientale elevata, e dopo una vita relativamente breve, lo smaltimento delle merci spesso inquina l’ambiente a causa della mancanza di riciclo o approcci from cradle to grave adeguati. La tracciabilità della filiera – dalla dismissione al trattamento finale – e la quantificazione dei processi di smaltimento sono importantissimo. Gli impianti per il corretto trattamento del rifiuto elettronico sono ad alta innovazione e costosi.

Inoltre, c’è un dibattito acceso su “obsolescenza pianificata o programmata”, in particolare sulla sua definizione e sui relativi impatti. Nel settore ICT il software gioca un ruolo importantissimo, come vedremo in seguito. C’è scarsa fiducia dei consumatori: uno studio di un’associazione di consumatori francese ha rilevato che il 92% degli intervistati ritiene che i prodotti elettrici o di alta tecnologia sono deliberatamente progettati per non durare.

Conclusione

Fin qui abbiamo analizzato le responsabilità ambientali dei dispositivi dell’universo ICT nelle fasi di inizio e fine vita. La fase di uso è responsabile delle emissioni di gas serra e dunque contribuisce al riscaldamento globale e lo fa in maniera considerevole e crescente data la pervasività di Internet. Oltre all’uso dei dispositivi connessi, quali appunto computer e smartphone, anche i data center, e tutti gli apparati relativi al funzionamento di Internet hanno un peso.

Nella seconda parte affronteremo dunque l’impatto dell’ICT nella fase d’uso, cercando anche di quantificarne gli aspetti più eclatanti – come l’uso enorme di energia nei sistemi di criptomoneta – per passare poi ad analizzare le soluzioni innovative su cui la ricerca sta lavorando per mitigare tali effetti e come le tendenze del settore ICT si colleghino anche agli impatti ambientali, talvolta in modi imprevisti.

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BIBLIOGRAFIA

  • Lotfi Belkhir, Ahmed Elmeligi, (2018). Assessing ICT global emissions footprint: Trends to 2040 & recommendations, Journal of Cleaner Production, Volume 177, Pages 448-463, https://doi.org/10.1016/j.jclepro.2017.12.239
  • Durand, Pascal (2017). “REPORT on a Longer Lifetime for Products: Benefits for Consumers and Companies.” (2016/2272(INI)), Committee on the Internal Market and Consumer Protection, Rapporteur: Pascal Durand.
  • GeSI (2015). Global e-Sustainability Initiative, “#SMARTer2030-ICT Solutions for 21st Century Challenges. Accent.
  • GeSI (2012) BCG SMARTer2020, 2012. SMARTer2020: the Role of ICT in Driving a Sustainable Future
  • United Nations (2015). UN Department of Economic and Social Affairs: http://www.un.org/en/development/desa/population/theme/trends/index.shtml
  • OECD (2010). Greener and smarter – ICTs the environment and climate change. Paris, France: OECD.
  • G. Sissa (2008). Il computer sostenibile, Franco Angeli editore, Milano
  • Gesi Group (2008). Smart 2020: Enabling the low carbon economy in the information age
  • Kuehr, R., & Williams, E. (2003). Computers and the environment: Understanding and managing their impacts. Dordrecht, The Netherlands: Kluwer Academic Publisher.
  • Williams, E. D., Ayres, R. U., & Heller, M. (2002). The 1.7 kilogram microchip: energy and material use in the production of semiconductor devices. Environmental Science & Technology, 36, 5504–5510. doi:10.1021/es025643o
  1. Materia Prima Seconda (o Secondaria): quando non sono più necessari ulteriori trattamenti perché le sostanze, i materiali e gli oggetti ottenuti possono essere usati in un processo industriale o commercializzati come materia prima secondaria.

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