Ricordare – e potremmo dire addirittura sapere – sembra non essere più necessario: tanto c’è Google.
D’altronde, perché dovremmo preoccuparci di imparare i fatti se grazie al web possiamo richiamare qualsiasi informazione in pochi secondi?
E cosa spinge le persone a intervenire pubblicamente sui più svariati argomenti anche se non si hanno sufficienti conoscenze in materie e magari facendosi beffe (o addirittura aggredendo o dileggiando) di chi su quell’argomento è davvero preparato?
Sono i paradossi dell’era digitale, in cui ciascuno può accedere a un mare magnum di informazioni, ma manca la volontà di trarne vantaggio, trasformandole in conoscenza.
Il ruolo della conoscenza nell’era della rete
“Molte persone sanno chi è Khloe Kardashian ma ignorano chi fosse René Descartes. Molti non riescono a trovare il Delaware su una mappa, scrivere correttamente la parola occorrenza o nominare il più grande oceano del pianeta.”[1]
Questa riflessione, di William Poundstone, autore di Head in the cloud, apre una riflessione interessante sul ruolo della conoscenza nell’era della Rete usata come protesi cognitiva.
Con l’esponenziale crescita dell’utilizzo dei social network, è aumentata in maniera significativa la percentuale di persone che creano e fruiscono di contenuti, che li condividono o li commentano. Sono oltre 9 su 10 gli italiani che accedono ad Internet (circa 55 milioni) ed il numero totale di utenti italiani attivi sui social è pari a 35 milioni. In particolare, l’incremento per l’uso di questi ultimi solo nell’ultimo anno è stato pari al +2,9.[2]
Questi dati sono interessanti e descrivono un paese con una crescente digitalizzazione, ma fa riflettere che questa crescita in termini di partecipazione alla vita digitale non sia andata di pari passo con un miglioramento delle competenze digitali e, più in generale, non abbia concorso ad un abbattimento dell’analfabetismo funzionale.
Sappiamo, difatti, che soltanto il 36% degli individui in Italia è in grado di utilizzare Internet in maniera complessa e diversificata e, più in generale, solo il 21% di soggetti tra i 16 ed i 65 anni è in grado di comprendere in maniera funzionale un testo scritto. [3]
Tutto questo rende problematico e contraddittorio lo sviluppo digitale del nostro paese.
Informazione online e analfabetismo funzionale
L’immensità della rete e la panacea di informazioni che si possono trovare, male si associa alla misurata incapacità di comprensione della maggioranza, che non è in grado di valutare la validità delle proprie ricerche né di risalire alla fonte dell’informazione. Ci si lascerà guidare dal bias conferma, fermandosi alle notizie che avvalorano la propria opinione.
Questa situazione sembra bloccarci in un “paradosso dell’età digitale”: aumenta la fruizione di contenuti ma non sappiamo ricavarne un reale vantaggio.
Da un punto di vista psicosociale viene da chiedersi: perché alle persone non interessa approfondire le proprie conoscenze, ma cercano solo facili e veloci conferme?
Semplice, perché lo sforzo necessario per acquisire conoscenze supera il vantaggio di averle. Almeno così ce lo spiega la teoria dell’ignoranza razionale di Anthony Downs, secondo cui la maggior parte di noi evita di approfondire quando il costo di educare se stessi su una determinata questione supera il potenziale beneficio che la conoscenza fornirebbe.[4]
Perché scegliamo di restare ignoranti
In sostanza, scegliamo razionalmente di rimanere ignoranti se ci rendiamo conto che dovremmo intraprendere uno sforzo cognitivo per prendere una decisione informata, senza che tale impegno venga ripagato in una misura che percepiamo come immediatamente vantaggiosa. La conoscenza in sé non sembra avere un appeal sufficiente.
Senza dubbio l’origine del rinforzarsi dell’ignoranza razionale è dovuta al fatto che ad oggi l’informazione è prodotta in grandi quantità e diviene presto obsoleta, rendendo ancora meno interessante lo sforzo metacognitivo di distinguere tra ciò che utile da ciò che non lo è. Pur senza l’intervento della coscienza, procediamo a gestire la memoria lasciando spazio sufficiente giusto alle informazioni che possono esserci più utili nell’immediato.
In generale, ci sono molte situazioni in cui lo sforzo per acquisire conoscenze è superiore al vantaggio di averle, ma l‘interazione digitale sembra essere particolarmente colpita da questo fenomeno.
Per riprendere la citazione iniziale di Poundstone, sapere chi è la Kardashian, paradossalmente, può divenire valuta sociale nelle interazioni quotidiane (soprattutto social), molto probabilmente più di sapere chi è Descart.
L’elevata produzione di contenuti genera un sovraccarico cognitivo che il sapiens digitale non riesce a gestire, così gli rimane solo la possibilità di demandare alle protesi cognitive l’immagazzinamento di informazioni e conoscenza.
Da qui, l’effetto Google.
Tanto c’è Google
Ci affidiamo serenamente al celebre motore di ricerca, come una vera e propria protesi cognitiva: sappiamo che googlando un’informazione avremo immediatamente tutte le notizie che ci occorrono e, senza lo sforzo di ricordarle, potremmo ripetere semplicemente la ricerca quando sarà necessario.
Se è pur vero che questo è un fantastico successo dell’accessibilità ad una conoscenza ampia e sterminata, così come è vero che aumenta l’opportunità con cui chiunque può aggiornarsi molto velocemente, è anche vero che Google diventa uno strumento al servizio delle distorsioni cognitive generate da processi mentali rapidi ed economici.
L’informazione è in rete basta trovarla per saperne quanto appare necessario. Per la buona pace dei medici che si trovano a combattere con le autodiagnosi dei propri pazienti o dei professionisti che vengono sostituiti da “cugini” di ogni genere.
La confusione tra informazioni e conoscenza
Chiaramente si sovrappongono informazioni e conoscenza, che pur sono cose diverse: la prima è un mero dato, la seconda implica connessioni, confronti e complessità. Eppure, questa distinzione poco sembra interessare gli opinionisti social che con qualche manciata di notizie credono di avere conoscenze sufficienti per argomentare.
Così accade che ad ogni nuovo tema di tendenza la maggior parte di utenti diventino improvvisamente tuttologi ed esperti, soprattutto esprimendo posizioni con toni assertivi, supponenti e financo violenti (hate speech).
Questo fenomeno ben rappresenta l’effetto Dunning-Kruger che potremmo sintetizzare come l’arroganza dell’ignoranza. Un bias cognitivo derivante da processi mentali rapidi e basati su pregiudizi, fraintendimenti o dati inadeguati e che porta una distorsione nella capacità di valutare la propria competenza su un determinato argomento.[5]
Effetto Dunning-Kruger
Ormai molto noto, questo effetto è frutto dello studio sperimentale di David Dunning e Justin Kruger relativo alla propensione degli incompetenti a sopravvalutarsi.
Lo spunto arrivò da un reale episodio in cui un uomo si era cosparso la faccia di succo di limone per rapinare una banca, avendo saputo delle sue proprietà invisibili e convinto così di non poter essere riconosciuto: gli studiosi si chiesero se non fosse proprio la sua stupidità a rendergli impossibile avere consapevolezza dell’assurdità della sua azione. Così partirono una serie di studi sperimentali il cui esito convergeva sul fatto che gli incompetenti sanno troppo poco per sapere di non sapere.
Quando non si è esperti di un tema non si riesce a comprenderne la complessità, per cui la propria opinione – basata su sentito dire, su una rapida ricerca (in rete) o su pregiudizi personali – viene considerata del tutto valida e credibile, ma soprattutto superiore rispetto a qualunque altra.
Per quanto gli autori stessi sostengano che, con il progredire dell’apprendimento, questo illusorio senso di superiorità decresca velocemente, il problema – non di poco conto – è che un incompetente in genere non sente alcun bisogno di apprendere di più in modo sistematico.
Il mix esplosivo tra l’effetto Dunning-Kruger e analfabetismo funzionale
Va da sé che l’effetto Dunning-Kruger assume una dimensione compromettente nel momento in cui entra in relazione con il fenomeno diffuso dell’analfabetismo funzionale: il risultato di questo mix è che ci si approccia alla conoscenza di qualsiasi fenomeno solo prendendo in esame la personale e diretta esperienza, senza ampliare il punto di vista, senza verificare le fonti e senza comprendere le posizioni degli esperti.
Nell’era di Google e, soprattutto dei social network, questa distorsione cognitiva presenta una manifestazione esponenziale, come mai in precedenza, portando con sé, tra le altre cose, una perdita di rispetto nei confronti della professionalità.
Da una parte, la rete ha reso sempre più facile raggiungere qualunque informazione in pochissimo tempo, dall’altra i social invitano con sollecitudine ogni giorno (più volte al giorno) gli utenti alla partecipazione attraverso la condivisione delle proprie opinioni. Ed è così che la maggior parte degli individui, sente il diritto/dovere di condividere la propria idea pubblicamente, anche su temi dei quali fino ad un attimo prima non aveva la benché minima nozione.
Capita nel digitale che esperti ed inesperti si trovino ad interagire: gli esperti entrano nel merito mostrando una complessità che la maggior parte degli interlocutori non è in grado di comprendere, mentre gli inesperti, utilizzando stereotipi ed euristiche fanno facilmente presa sulla massa, per quanto rendano la discussione non produttiva. Nel confronto diretto, gli inesperti tendono a mettere in discussione la credibilità e l’autorevolezza dei propri interlocutori, fino a trasformare l’interazione in un violento scontro tra le parti, in cui vince troppo spesso a tavolino l’arroganza, per la celebre massima che sottolinea l’inutilità del “discutere con un imbecille”.
D’altro canto, il contraltare dell’effetto Dunning-Kruger è la sindrome dell’impostore, che colpisce i più consapevoli della complessità di un argomento, che proprio per la profondità delle personali conoscenze, tendono a sottostimare le proprie capacità (il “so di non sapere” socratico, per intenderci).
Senza dubbio la rivoluzione digitale ha portato a considerare la conoscenza con ambivalenza e ad avallare una diffusa meta-ignoranza che porta gli individui ad essere sempre meno consapevoli di ciò che sanno, dal momento che l’informazione è potenzialmente a portata di mano.
Se nell’idea di Berners Lee e dei primi idealisti l’idea che il web costituisse una fonte di informazione illimitata, accessibile a tutti e senza controlli di sorta era una straordinaria opportunità, la mancata educazione all’uso dello strumento ha portato le distorsioni che stiamo vivendo.
Possiamo ben immaginare che lo sviluppo tecnologico non si arresterà e che l’uso degli strumenti continuerà con molta probabilità a diffondersi e noi, da bravi animali sociali, ci adatteremo a qualunque cambiamento, rischiando di rimanere schiacciati dalle perversioni degli effetti dei nostri artefatti.
In questo quadro la soluzione chiaramente non è l’apocalittica condanna della rete e dei social, che sono e restano una straordinaria opportunità, ma l’impegno sistematico e diffuso a livello politico a sociale di lavorare su un’alfabetizzazione digitale che presuma anzitutto una alfabetizzazione funzionale.
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- Poundstone W., Head in the cloud: Why Knowing Things Still Matters When Facts Are So Easy to Look Up ↑
- Dal più recente report Digital 2019 condotto da We Are Social e Hootsuite ↑
- Dati OCSE – Skills Outlook Italy 2019 ↑
- Downs, Anthony (1957). Una teoria economica della democrazia . New York : Harper .. ↑
- Kruger J., Dunning D., 1999, Unskilled and unaware of it: How difficulties in recognizing one’s own incompetence lead to inflated self-assessments. ↑