salute mentale

Ma la cyberpsicologia funziona veramente? Tecnologie e prospettive

La cyberpsicologia non solo studia le nuove tecnologie come fenomeno, ma si avvale di queste per portare avanti (migliorare?) la sua pratica.

Pubblicato il 25 Mag 2021

Ivan Ferrero

Psicologo delle nuove tecnologie

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La cyberpsicologia, ossia quel ramo della psicologia che si occupa del digitale, è stata per molto tempo appannaggio di quei pochi psicologi che si sentivano innovatori, e in alcuni casi venivano fortemente criticati da quei colleghi che vedevano nelle nuove tecnologie un’invasione di campo che avrebbe snaturato il loro lavoro.

Del resto, la psicologia si è sempre occupata dell’uomo, e ha fatto del dialogo e della relazione le sue colonne portanti: come potrebbe mai un computer o un algoritmo sostituire questi preziosi strumenti?

La risposta ci viene dalle più moderne tecnologie, da come la società è mutata negli ultimi anni (e sta ancora mutando), e da un’errata percezione degli strumenti digitali stessi.

Psicologia digitale, il dado è tratto: ecco perché questo è l’anno della svolta

Benvenuti nell’era della technological intimacy

Viviamo la convergenza di vari elementi. Da una parte le nuove tecnologie che si evolvono ad un ritmo sempre più vertiginoso, potremmo dire quasi esponenziale, e un digitale che oramai ha permeato ogni più piccolo interstizio delle nostre vite, complice anche lo sviluppo del mobile.

Dall’altra l’arrivo di generazioni sempre più immerse in questo processo, per le quali il digitale non è più un’innovazione, bensì qualcosa che oramai fa parte delle loro vite e che viene data per scontata come l’aria che respiriamo.

Di conseguenza ogni aspetto della nostra società è stato trasformato: il modo in cui instauriamo rapporti sociali, come comunichiamo, in generale ogni nostro modello e abitudine di comportamento.

In questo contesto la comunicazione attraverso l’email, l’instant messaging e le videochiamate sono diventate lo standard, tanto che già da molti anni il telefono è l’app meno utilizzata sui nostri cellulari.

E poi arriva la cyberpsicologia

In questo contesto era quindi inevitabile che anche la nostra psicologia ne venisse profondamente influenzata.

Se inizialmente si parlava di Media Psychology, ossia di una psicologia che studiava i nuovi media e che si inseriva in questa ristretta nicchia di mercato, oramai parliamo di cyberpsychology, ossia di quella psicologia che non solo studia le nuove tecnologie come fenomeno, ma anche che si avvale di queste per portare avanti (migliorare?) la sua pratica.

Secondo la letteratura le aree di intervento sono:

  • analisi dei comportamenti online e di come si sviluppa la personalità negli ambienti digitali
  • utilizzo dei social media e le dinamiche che avvengono su queste piattaforme
  • videogiochi e gaming, nelle loro varie declinazioni
  • telepsicologia, che possiamo indicare come un ramo della telesalute (telehealth)
  • realtà virtuale (VR), realtà aumentata (AR), intelligenza artificiale (AI) e tutte le loro applicazioni relative alle questioni umane e non solo

In questo contesto il nostro Paese, notoriamente resistente ai cambiamenti, sta vivendo una duplice identità.

Da una parte abbiamo un’Italia che spinge verso il futuro, fatta di startup e di colleghi che ancora oggi vengono considerati early adopters, dall’altra abbiamo colleghi che guardano a queste innovazioni con molta diffidenza, e che quindi ancora fatica a “lasciarsi aiutare” dalle nuove tecnologie quali il machine learning e la AI.

Quest’ultimo gruppo pare affidarsi ancora all’idea di uno psicologo che deve bastare a sé stesso, avendo il timore che affidare delle parti del processo terapeutico causerà una perdita di controllo da parte del professionista.

Ci vediamo un timore di decentralizzazione del proprio ruolo.

Come ci dice Danila De Stefano, fondatrice di Unobravo, una startup innovativa di psicologia e che utilizza un algoritmo di matching per consigliare il professionista migliore per la richiesta dell’utente sulla loro piattaforma di psicologia online, in Italia c’è ancora molto da fare per quanto riguarda la “cultura psicologica”, che molto spesso rimane ancorata alla “psicologia dei matti” e alla convinzione di “dovercela fare da soli”.

Parliamo di telepsicologia

La American Psychiatric Association nel 2013 ha definito la telepsicologia come la fornitura di servizi psicologici utilizzando tecnologie di telecomunicazione.

Una psicologia che ha seguito molto da vicino l’evoluzione delle tecnologie, in quanto profondamente associata a esse, e che è passata da una fase di fai da te connotata da messaggistica istantanea, servizi Voip per le videochiamate, email per gli scambi in asincrono con i pazienti, ad una fase, quella attuale, di estrema organizzazione.

Sono infatti sorti servizi di salute mentale e comportamentali autonomi, oppure soluzioni che permettono una sorta di “psicologo aumentato”, come ad esempio la possibilità di assegnare materiali psicoeducativi pubblicati online dopo una sessione di terapia offline, oppure di video di YouTube assegnati nello spazio tra un incontro e l’altro come prosieguo, oppure la diffusione di App installabili sul proprio smartphone, una sorta di psicologo in tasca.

Ma funziona veramente?

A quanto pare sì, come dimostra una ricerca, tra le molte, che ha effettuato una metanalisi di 148 pubblicazioni accademiche sul tema e che hanno esaminato l’uso della videoconferenza per fornire interventi sui pazienti.

Da queste pubblicazioni risulta non solo un’elevata soddisfazione del paziente, ma anche una soddisfazione del professionista da moderata ad alta e risultati clinici positivi.

Insomma, anche il professionista ne percepisce l’utilità e il valore aggiunto di queste soluzioni, una volta che le ha provate.

Altri studi, incluse metanalisi, hanno rilevato risultati comparabili tra la terapia basata su Internet e la terapia offline.

È solo l’inizio

Come dico sempre io non dobbiamo fermarci ad analizzare la foto del momento, ma dobbiamo invece inserire il presente in una scena destinata ad evolversi.

Ciò di cui abbiamo parlato fino ad ora è solamente l’inizio di un qualcosa che è destinato ad evolversi, e con essa anche la nostra pratica professionale.

Le avvisaglie di questa evoluzione sono costituite da applicazioni per smartphone sviluppate per rilevare (e prevedere) l’umore, le emozioni, gli stati cognitivi e motivazionali, il contesto ambientale e il contesto sociale dei pazienti, il tutto per mezzo dei sensori già in dotazione sui nostri cellulari, come ad esempio il sistema di posizionamento, la rilevazione della luce ambientale, chiamate recenti, la musica ascoltata, ecc…

Per mezzo di tali sistemi sensibili al contesto, e con gli sviluppi delle tecniche di machine learning e di intelligenza artificiale, queste piattaforme possono prevedere gli stati contestuali categoriali dei pazienti.

Ad esempio per mezzo della posizione, degli impegni segnati sul calendario, delle previsioni del tempo, uniti allo storico della persona, questi sistemi potranno avvisare di un possibile stato di depressione, ad esempio in previsione del fatto che la persona rimarrà a casa nel fine settimana oppure per periodi di tempo inaspettati, e di conseguenza incoraggiare delle attività ad hoc per alleviare i possibili sintomi di depressione, oppure in extremis consigliare di rivolgersi ad un professionista.

Ebbene sì proprio lui: l’essere umano, che di sicuro non verrà rimpiazzato da questi sistemi.

Il nostro futuro prossimo venturo

Proseguendo nel nostro viaggio lungo la linea evolutiva oggetto di questo articolo, per il nostro futuro prossimo venturo dobbiamo tenere d’occhio principalmente quattro tecnologie:

  • la realtà virtuale
  • la realtà aumentata
  • il machine learning
  • l’intelligenza artificiale

La Realtà Virtuale e l’esperienza immersiva

Per il nostro discorso possiamo considerare la VR come una forma avanzata di interfaccia uomo-computer che consente agli utenti di interagire e immergersi in un ambiente simulato o ambiente virtuale (virtual environment, VE) generato dal computer.

In questo ambiente la persona vive una vera e propria esperienza di delocalizzazione: la percezione si sposta totalmente nell’ambiente costruito dalla macchina, offrendo un’esperienza decisamente immersiva.

Nella pratica psicoterapeutica questo si traduce in una rappresentazione del mondo interiore del paziente, che non andrà a sostituire quel processo di costruzione dell’immaginario del paziente, e che nella storia della psicologia ha sempre assunto un ruolo importante per il buon andamento della terapia.

Secondo Simone Barbato di Idego, infatti, “quando diciamo che la VR è un add-on terapeutico intendiamo proprio che rappresenta un tool che va inserito solo quando vi è la necessità di uno strumento integrativo, ad esempio nel caso in cui il paziente dovesse avere difficoltà ad immaginare e rievocare le emozioni in modo vivido attraverso la fantasia. L’importante è sempre vedere la VR come una tecnologia che potenzia l’intervento tradizionale senza sostituirne le componenti fondamentali.”

Quindi un’innovazione che può essere nostra compagna anziché nostra antagonista.

L’intelligenza artificiale e il computer che decide per noi

L’intelligenza artificiale replica o simula l’intelligenza umana in macchine in cui i dispositivi tecnologici sono programmati fornendo la percezione di un essere reattivo.

Questo spaventa, anche i professionisti, ancora di più quando pensiamo che questa tecnologia può avvalersi di agenti umani virtuali come avatar animati e robot.

Eppure, anche questi si sono rivelati molto utili come supporto per numerose pratiche cliniche.

L’era della convergenza

Di nuovo non dobbiamo vedere tutto questo secondo la foto del momento, ma dobbiamo allargare il nostro vertice di osservazione e comprendere il film.

Tecnologie come VR e AI applicate alla psicoterapia offrono il massimo della loro efficacia quando combinate in modo sinergico tra loro.

Le esperienze di esposizione immersiva della realtà virtuale e la possibilità di adeguare questa rappresentazione in realtime per mezzo dell’intelligenza artificiale ci offre l’opportunità di attivare risposte emotive e comportamentali e modificarle secondo necessità, come nel caso di fobie e traumi, o distrarre l’utente dal mondo reale, come nel caso della gestione del dolore, il tutto in tempo reale.

Questo permetterà una clinica sempre più ritagliata sui bisogni e le necessità del singolo paziente.

Questo sistema, connesso con il biofeedback fornito dai sensori dello smartphone e non solo, permetterà, sempre secondo Simone Barbato, di “ascoltare la verità del corpo e porre l’attenzione sulle condizioni fisiche”, cosa che non potrà fare altro che “valorizzare l’intervento psicologico ed i suoi benefici.”, garantendo un’esperienza di qualità e di completezza in grado di migliorare anche la compliance da parte del paziente.

Scelgo io. No, scegli tu che è meglio

Chiunque si occupi di clinica sa benissimo che il “giusto” incontro tra il terapeuta e il paziente è fondamentale per la buona riuscita di una terapia.

E questo incontro nasce sin dalla scelta del terapeuta stesso.

Come ci suggerisce sempre Danila De Stefano anche in relazione alla loro piattaforma, possiamo per questo obiettivo farci aiutare da un buon algoritmo di matching, che analizza la richiesta del paziente e trova il matching con il terapeuta in grado di garantire maggiormente il successo del percorso terapeutico, avvalendosi dell’analisi della richiesta, del pregresso del paziente, della formazione ed esperienza personale del terapeuta, e molto altro.

Non a caso la sua UnoBravo ha pianificato di implementare presto anche algoritmi di machine learning, perché “le persone, non-psicologi, dall’esterno, sono spesso confuse e non sanno come scegliere lo psicologo. Dai nostri sondaggi è emerso che a volte basta questo per non iniziare una terapia.”

Un sistema quindi che permette “di assicurare ad ogni utente che lavorerà con un professionista esperto o con esperienza nelle difficoltà espresse.”

Del resto, aggiungo io, se funziona per il recruiting e per il dating online, perché non potrebbe funzionare anche nel nostro campo professionale?

Con le dovute attenzioni, ovviamente.

Non solo patologia

Fino ad ora abbiamo parlato di interventi terapeutici, tuttavia Simone Barbato ci ricorda che la vera forza di questi sistemi sta nella capacità predittiva, settore in cui stanno avvenendo i maggiori investimenti.

“I cambiamenti in atto stanno creando sempre più spazi per gli interventi di prevenzione e di gestione del disagio, spazi da modulare in funzione delle esigenze dello specifico target a cui questi interventi sono rivolti.”

“Oltre alla Psicoterapia, immaginiamo un costante aumento della domanda per servizi di potenziamento (empowerment) psicologico che abbiano un focus sul benessere, più che sulla psicopatologia”.

Una visione sempre più condivisa

Chiedendo come hanno visto e vissuto la percezione di queste evoluzioni da parte dei nostri colleghi italiani, Simone Barbato ci racconta che “quando iniziammo a proporre le nostre soluzioni tecnologiche, nel 2016, le reazioni erano spesso di disappunto, diffidenza, paura, addirittura scombussolamento a volte. E quando dico ‘paura’ intendo il timore di essere in qualche modo rimpiazzati dal processo d’innovazione tecnologica in atto: questo era l’immaginario comune. Ma la paura di ciò che non si conosce limita la nostra crescita.”, ma fortunatamente “oggi è diverso. Percepiamo un atteggiamento propositivo: riceviamo quotidianamente numerose email di colleghi curiosi di capire come innovare (ciascuno con le proprie esigenze) la propria pratica professionale.”

Del resto, come ci ricorda Danila De Stefano, qui stiamo parlando di una tecnologia che non rimpiazza lo psicologo, ma che ci permette di farlo “in modo diverso”.

Ma Simone Barbato ci avverte che c’è ancora molto da fare: “sensibilizzare i professionisti della salute mentale all’impiego delle nuove tecnologie dimostrando loro che sono ‘alleate’, e non nemiche, che sono semplici da usare e che la loro integrazioni ha riscontri diretti sulla pratica”.

Imparare ad andare al di là del bene e del male, e realizzare che non siamo noi: è il mondo che ce lo sta chiedendo.

Come ci suggerisce Danila De Stefano, “il mondo è cambiato, e soprattutto continuerà a cambiare. Il mondo non si adatta a noi, siamo noi a doverci adattare a lui.”

Bibliografia

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