Videogame culture

Mafia: Definitive Edition, la donna nella rappresentazione mafiosa del videogame

Nei 18 anni trascorsi dall’uscita del primo Mafia, riuscirà il suo rifacimento – Mafia: Definitive Edition – ad affinare le capacità non soltanto nell’“affrontare” la questione femminile, ma anche a palesare degnamente anche la donna nel prostrante contesto mafioso, ben al di là dello stereotipo?

Pubblicato il 15 Ott 2020

Luca Federici

Investigatore antiriciclaggio; esperto di comunicazione, autore di Mafia e mafie: Cosa nostra e la dote vincente

Mafia: Definitive Edition

Diciotto anni dopo il capostipite Mafia: The City of Lost Heaven, il più importante titolo videoludico mai prodotto sull’associazionismo mafioso, è appena sbarcato sugli scaffali globali, in versione fisica e in digitale, il suo rifacimento: Mafia: Definitive Edition.

Quello che preme evidenziare nell’analisi di seguito è il ruolo della donna nella rappresentazione mafiosa del videogame: nell’iconico primo Mafia, si hanno due archetipi di donna: quella fatale e quella gloriosamente rivoluzionaria. Ci si vuole chiedere, se, nell’arco temporale del tutto significativo qual è quello intercorso tra l’uscita dell’originale e il remake – che è, si badi, lo stesso passante tra un infante allora nato (2002) e il medesimo individuo ora cresciuto e divenuto giovane adulto con tanto di capacità di agire (in virtù del compimento del diciottesimo anno, 2020) – oltre l’anagrafica di quel giovine sia “maturato” anche il medium videogioco. Ovverosia se oggi non abbia affinato le capacità non soltanto nell’“affrontare” la questione femminile, ma se sia pronto persino nel doppio salto mortale qual è quello di palesare degnamente anche la donna nel prostrante contesto mafioso, ben al di là dello stereotipo.

Mafia: l’evoluzione del ruolo femminile nel videogame

Si tratta di un rifacimento ex novo di Mafia: The City of Lost Heaven (allora approdato su PlayStation 2; Xbox e PC), per PlayStation 4; Xbox One e PC (virtualmente via Epic Game Store e Steam e sul cloud di Stadia) non soltanto con un comparto grafico-tecnico palingenetico ma pure con licenze narrativo-contenutistiche rivedute, estese, rinnovate, tagliate e inedite. Tra queste, verrà reinterpretato anche il rapporto interpersonale, sentimentale e diegetico di Sarah con il protagonista Thomas Angelo, ella tutt’oggi risultando quasi come unico personaggio femminile apparso nel videogame originale e come una delle pochissime donne complessivamente caratterizzate nei due titoli consecutivi (Mafia è infatti il primo, del 2002; Mafia II del 2010 e Mafia III del 2016).

Sarah è una figura particolarmente centrale nella narrazione perché sarà la scaturigine di importantissime decisioni che intraprenderà Tommy durante le vicende on air. A dire degli stessi attuali sviluppatori di Hanger 13 e citandone un esponente apicale com’è Haden Blackman quale presidente e chief creative officer della software house, infatti: «Sarah e il suo legame con il protagonista Tommy Angelo nel titolo originale non appariva degnamente su schermo, ma è proprio il loro binomio e il di loro rapporto ingeneratosi che risulta il cuore motivazionale per cui Tom compirà le scelte che intraprenderà. Noi creatori di questa rivisitazione volevamo pertanto assicurarci che Sarah vi fosse per maggior tempo. Ella, nel videogioco, infatti, ha un proprio ruolo rilevante sia nella “famiglia” (quella del focolare) sia nella “Famiglia” (quella mafiosa)».

Certo c’è da apprezzare ma non chissà quanto lodare, perché effettivamente non oltremodo riuscito nel videogame in quanto troppo abbozzato e forzato, lo sforzo creativo del terzo episodio nel “(rap)presentare” con (ci)piglio e proprie identità ben tre distinte figure femminili nel contesto criminale di Mafia (oltretutto appartenenti a minoranze etniche) quali sono Cassandra (leader della gang haitiana); Nicki Burke (figlia dell’irlandese Thomas Burke, dichiaratamente omosessuale) e Roxy Laveau (afroamericana, appartenente all’organizzazione rivoluzionaria e anti-razzista cittadina; ella è presente esclusivamente nel contenuto scaricabile dal nome Corri, Dolcezza!). Perché prima di allora, in quel brand, al netto di ruoli da meretrice, la donna, era ivi rappresentata quasi per nulla e a stereotipico esempio di affetto “mammone” italiano. Il che, attenzione, non è necessariamente errore di “faciloneria” semplificativo-esemplificativo del videogioco e dei suoi creatori ma, se vogliamo, proprio della cultura mafiosa.

O sante o puttane

Quella per cui le “mie” donne, quelle della famiglia (di sangue o retta dal coniugio), sono intoccabili: santamente benedette; mentre tutte le altre, semplicemente sono “cose” da usare alla bisogna (basti constatare come Joe Barbaro, il migliore amico di Vito, tratti letteralmente le fimmine). E qui, allora, è impossibile non citare l’esatto contraltare qual è Maria, madre del main character del secondo capitolo, Vittorio Antonio Scaletta detto Vito, donna che fin dal nome riecheggia nientepopodimeno che alla Vergine, la genitrice di Cristo. Esibendola come una figura premurosa, buona ed empirea nella forma, nella sostanza e… Nel nomen! Perché sì, nel respirare la cultura mafiosa la figura materna è intimamente collegata anche con la componente religiosa. E nella storia di mafia si sa quanto le sacre figure siano importanti, come da ultimo risulta urbi et orbi dal fortissimo monito di Papa Francesco «nel dare inizio ufficialmente al Dipartimento di analisi e di studio dei fenomeni criminali e mafiosi, per liberare la figura della Madonna dall’influsso delle organizzazioni malavitose». Non secondario è che la scomparsa della mamma di Vito sia l’unico momento in cui un protagonista di Mafia, quanto più eroe di guerra, aitante e rampante italiano prossimo ad addivenire uomo d’onore, si mostrerà in un doloroso, liberatorio e umano pianto.

Separata ancorché coordinata a siffatta figura è il dipanamento di Francesca Scaletta, vestale sorella maggiore di Vito: morigerata, scrupolosa e “devota” (casa-chiesa-lavoro-famiglia) prima verso il nucleo sanguineo, poi a cospetto del trovato marito nonostante i suoi tradimenti, insulti e brutalizzazioni. Lei, fin da giovanissima studiosa, capace e intelligente, avrebbe ben altro potuto dalla e nella vita, ma non sarà in grado di emanciparsi e rimarrà vittima dell’avvilente status quo sociale. Oltremodo anche criminale, avviluppantesi in una spirale di vessazioni del coniuge (devastato dall’alcol nonché professionalmente nullafacente) e quello del fratello, criminale incallito. Perché dopo l’ennesima violenza domestica subita, la disperata Francesca chiamerà in aiuto Vito, che, per “raddrizzare” il cognato Eric Reilly, lo massacrerà di botte in pubblica piazza.

Francesca, vistolo tornare a casa come un cencio, si sentirà a sua volta intimamente ferita, questa volta dall’amore fraterno. Lei in altri termini essendo tre volte vittima: “imprigionata” tra l’incudine delle percosse del consorte, dal martello delle mostruosità compiute dal fratello, e intrappolata in un contesto sociale, quello degli anni Cinquanta, che non l’avrebbe tutelata semplicemente perché non “capita” in quanto donna. Per coglierne la disperazione situazionale, si sappia che Vito le chioserà in faccia che laddove lo sposo le avesse mai ulteriormente “torto un altro solo capello”, lui glielo avrebbe ammazzato. Così non solo annichilendo ogni potenziale futura reazione della donna alle angherie del congiunto ma agendo egoisticamente per sé. In altri termini esacerbando il pericolo della sorella per garantirsi di mantenere quell’alone di reverenza, rispettabilità e “onore” suo proprio, di Vito, che agendo uccidendo il “disonorevole” avrebbe reso “giustizia” in grado di “ripulire” il “lustro” familiare. Un delirio totale. Di un contesto mafioso tutt’oggi amaramente esistente.

La scelta di Sarah

Sarah: «Trovo che tu sia un cattivo molto buono»

Tommy: «A volte sono un buono molto cattivo»

Nel primo Mafia, gli archetipi di donna erano: quella fatale e quella gloriosamente rivoluzionaria.

La prima è la prostituta Michelle, soggetto di charme al di là del dato meramente estetico e che “costerà” davvero cara al nostro. Non volendo dilungarsi oltremodo si dica però che episodi similari siano realmente accaduti nelle vicissitudini mafiose: quelle ove i sentimenti, gli intrighi e i tradimenti personali si intrecciano a quelli di potere e a quelli di affari, fino a pagare con la vita (come Salvatore Inzerillo) o la libertà (L’onore ferito delle donne dei boss) di certuni picciotti.

Ma eccoci qui, in un crescendo rossiniano proprio alla perla nascosta dell’intero brand cui si saggerà la maturazione del medium; ovverosia come si sciorinerà su schermo non solo l’impatto ma la pacifica, dirompente scelta di Sarah in sottotrama di quella redenzione di Angelo che dalla terra trapassa al cielo.

Perché in Sarah v’è la potenza femminile nel contrasto a Cosa nostra: di una figura allora rimasta sullo sfondo ma dal peso specifico rilevante. Lei, infatti, quale figlia di Luigi, bartender del super-boss Ennio Salieri nonché esponente dell’omonima Famiglia, decide per amore dell’Angelo e della di loro figlia, di abbandonare la cultura mafiosa (pur non essendone mai stata apparentemente direttamente coinvolta) e con ciò per sempre di rinnegare addirittura il proprio padre, facendo pertanto una nettissima e potentissima scelta di vita. Da tragedia greca. Attuando una decisione dal coraggio estremo, compiuta quasi all’ombra dei fatti evidenziati a schermo ma che merita la alta dignità di essere esibita come più intrinsecamente netta forza sorgente.

Pur non essendo forse e propriamente la veste in best fit, la Sarah di The City of Lost Heaven risulta un (im)portante esempio per evocare il ruolo giuridico-sociale del testimone di giustizia. Costei è infatti quella persona non impelagata nelle malefatte di mafia ma che comunque risulta a conoscenza di importanti risvolti malavitosi e, per questo, va riferendoli alle Forze dell’Ordine, denunciandoli. Quella del testimone di giustizia è un raro ma prezioso istituto del nostro ordinamento, che ha subito pure tra i più tragici esempi di accadimento: come Rita Atria che, dopo la perdita del fratello (mafioso, morto in un agguato) e dopo la traumatica scomparsa del “padre putativo” Paolo Borsellino (che la accolse nel cammino di testimonianza), per la disperazione e affranta dal dolore si suiciderà a soli 17 anni gettandosi da un terrazzo romano di una di quelle case dello Stato che doveva proteggerla (1992); la tomba verrà poi devastata dalla sua stessa madre, al fine di rinnegarla pubblicamente (si colga quanto la cultura mafiosa calpesti finanche il più ancestrale amore mamma-progenie). Altro costernante e relativamente recente accadimento fu quello di Lea Garofalo che venne invece rapita a Milano dalla ‘ndrangheta e immediatamente assassinata via lupara bianca (2009), fin quando del suo corpo non ne rinvennero che duemila frammenti (2012).

E così, Sarah, nel fuoriscena del capostipite chissà che non trovi il suo giusto riconoscimento valoriale proprio sul proscenio dell’edizione definitiva, augurandosi che, diciott’anni dopo da quel tragico ed emozionante epilogo, ella possa trovare il credito che meritava e che merita.

Dal reale al virtuale, dal virtuale al reale: la (trans)diegesi in ultravita della verità

Perché questa è la donna per la mafia: un oggetto e non una persona. O, a ben vedere e per dirla con le segnanti parole di un martire alla lotta contro Cosa nostra, qual è don Pino Puglisi: «A questo può servire parlare di mafia, parlarne spesso, in modo capillare, a scuola: è una battaglia contro la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi».

Perché sì, il videogioco potrebbe già da ora veicolare un messaggio altro e pure più alto rispetto il “solo” intrattenimento com’è la significazione artistica e persino informativo-educativo-culturale (peraltro come estrinsecato nel corrente intervento). E sì, finanche per temi e argomenti cotanto tragici e dirimenti com’è la cultura (anti)mafiosa e concretizzandoli nelle istituzioni per eccellenza quali sono le scuole e le università che, già da adesso, hanno l’“uditorio” pronto, qual è quello composto dai loro stessi discenti (esponenti delle generazioni Z e poi α), a recepirne i forti messaggi di cui il media può essere portatore e da cui noi dobbiamo da loro forse avere “solo” l’umiltà di apprendere, come educatori, docenti e “adulti” uno strumento comunicazionale fenomenale qual è in re ipsa, oggi più che mai, il videogioco.

Affinché, chissà, tra cinquant’anni e con il compimento del primo secolo della videoludica commerciale si celebri il salto quantico nell’edutainment e, finalmente e pure auspicabilmente ben prima, si possa celebrare pure l’estinzione dell’associazionismo mafioso.

Perfino attraverso questo strumento, il videogame che è (anche) istruzione. Perché come diceva l’allora vertice del pool antimafia Dottor Antonino Caponnetto: «La mafia teme la scuola più della giustizia, l’istruzione toglie erba sotto i piedi della cultura mafiosa». Il videogioco è “semplicemente” un altro alfabeto di un nuovo linguaggio culturale.

Saperlo è già un passo importante; apprenderlo addiverrà a quota parte erigente il nostro futuro. Perché cos’è l’avvenire se non un gioco in co-op? Giochi-amo!

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