Le conseguenze sociali dell’attuale scenario tecnologico, in cui i robot sono spesso indicati come la causa di una inarrestabile nuova ondata di disoccupazione, devono essere gestite senz’altro dalla politica, ma anche dalle aziende che questa innovazione la creano e la propagano. Ma come? Quale può essere il ruolo di un’impresa tecnologica che abbia anche a cuore la sostenibilità sociale? Senza ovviamente arrestare la ricerca, si tratta in qualche modo di gestire il progresso tecnologico, consapevoli delle sue conseguenze a tutti i livelli.
Le parole chiave per gestire il cambiamento sono due: transizione e redistribuzione. Ma prima di soffermarci sulla loro declinazione nel contesto dell’evoluzione tecnologica, facciamo un passo indietro.
Il futuro del lavoro tra pandemia e robot: scenari, contraddizioni e domande da porsi
La tecnologia come esternalizzazione delle funzioni
In un celebre saggio della metà degli anni Sessanta del secolo scorso, “Le Geste et la Parole”, l’antropologo francese André Leroi-Gourhan tracciava una curva dell’evoluzione del genere umano, osservando lo sviluppo parallelo degli oggetti e delle applicazioni della tecnologia nella vita quotidiana. Dal Neolitico alla contemporaneità, il progresso secondo Leroi-Gourhan poteva essere letto come una progressiva esternalizzazione delle funzioni. Nelle fasi iniziali di questo cammino, gli strumenti agivano in rapporto al corpo umano, aumentandone la velocità o la forza; consentendo ai nostri antenati di trasformare la materia circostante in modi che sarebbero stati difficili o addirittura impossibili da conseguire con le sole braccia e gambe.
Un cambio di passo fondamentale avveniva poi con la modernità, quando gli stessi strumenti assumevano una dimensione ulteriore: intervenendo cioè non soltanto come estensioni dell’anatomia umana e delle sue qualità fisiche, ma anche come “rafforzamenti” della mente, della memoria o dell’identità. Si trattava del passaggio, per dirla con le parole di Antoine Picon, professore di Storia dell’Architettura a Harvard, “dai coltelli e dalle asce di pietra che estendevano la capacità della mano, fino al computer che permette una esteriorizzazione delle funzioni mentali”.
Se il robot diventa barista
In questo appassionante percorso verso la civiltà digitale, la robotica sta giocando un ruolo fondamentale. Negli ultimi due decenni, abbiamo assistito alla fuoriuscita dei robot dal luogo in cui sono stati più a lungo impiegati nel recente passato – la fabbrica – e al loro arrivo negli ambiti sociali e produttivi più diversi. La nostra azienda, Makr Shakr, si inserisce in questo ampio movimento tecnologico. Il percorso di ricerca e sviluppo inizia nel 2013, nel momento in cui lo studio di progettazione di Carlo Ratti, architetto e ingegnere che insegna al Massachusetts Institute of Technology di Boston, viene invitato da Google a realizzare un’installazione temporanea per un grande convegno aziendale.
Quando gli sviluppatori che lavorano con il colosso di Mountain View entrano nel Moscone Center di San Francisco, nella primavera 2013, si trovano davanti uno spettacolo inatteso. Poggiate su un bancone ci sono tre braccia robotiche – di quelle solitamente usate nelle catene di montaggio dell’industria automobilistica. Tuttavia, queste ultime, invece di assemblare pesanti componenti metalliche, iniziano a maneggiare con delicatezza una serie di bottiglie di vetro, fino a servire sul bancone, dopo pochi secondi, dei cocktail da bere.
Il progetto, nato in chiave sperimentale, colpisce l’immaginario collettivo. In pochi mesi arrivano centinaia di richieste da tutto il mondo di persone che vogliono acquistare o affittare il bar robotico. Nasce così dopo qualche mese l’azienda Makr Shakr, che oggi opera a Torino e, nel corso di pochi anni, ha consolidato il proprio ruolo come leader della propria nicchia di mercato, con unità di bartending meccanizzate installate in ristoranti e club in Europa e negli Stati Uniti, oltre che su una serie di navi da crociera.
Al di là della spettacolarità dei movimenti acrobatici, il progetto utilizza la robotica per mettere in pratica una sorta di disintermediazione o liberazione creativa. Tramite l’accesso a una app per cellulare, ciascun utente può trasmettere al robot l’ordine di una bevanda, la quale può essere personalizzata a tal punto da far diventare ogni persona, in qualche modo, il vero bartender. Per dirla con Leroi-Gourhan, potremmo parlare di una esternalizzazione del processo fisico di realizzazione dei cocktail, il quale viene delegato alle braccia meccaniche. La conseguenza di tutto questo è che la parte non fisica e creativa del lavoro rimane totalmente in carico a ciascun utente.
La velocità dei progressi tecnologici e i rischi per l’occupazione
Se insomma, come detto, la robotica si inserisce in un percorso evolutivo molto antico, rimane un punto aperto: quali sono le conseguenze sociali dell’attuale scenario tecnologico, di cui anche la nostra azienda è espressione? Quello che dobbiamo domandarci è se gli attuali progressi tecnologici non stiano avvenendo a una velocità diversa da quella del passato, mettendo in crisi la fisiologica curva con cui si alternano le professioni, con alcune che diventano obsolete mentre altre emergono proprio in risposta all’evoluzione degli strumenti.
Uno degli studi più influenti dell’ultimo decennio – pubblicato peraltro proprio nell’anno della nascita della nostra azienda – è quello firmato nel Carl Benedikt Frey & Michael Osborne dell’università di Oxford. Secondo la loro ricerca, fino al 50 per cento dei lavori potrebbe scomparire nei prossimi decenni, proprio a causa dei processi di automazione. Ai primi posti, tra le professioni totalmente computerizzabili si possono trovare attività quali il telemarketing, il tecnico matematico, l’assicuratore, o ancora l’operatore di processi fotografici e di macchine di lavorazione, l’analista di credito e il cassiere.
Transizione e redistribuzione
E siamo, dunque, alle nostre due parole chiave – transizione e redistribuzione – intorno alle quali si potrebbe riavviare una discussione costruttiva.
Transizione: per poter gestire gli sconvolgimenti tecnologici senza esserne travolti. Per aiutare chi ha perso un lavoro a trovarne un altro e per educare le nuove leve alle professioni di domani.
Ridistribuzione: perché è fondamentale capire a chi andranno i vantaggi del nuovo sistema. Un’idea sarebbe far pagare le tasse ai robot o alle nuove intelligenze artificiali, ciò significherebbe tassare il capitale e trasferire reddito a chi magari ha perso il proprio posto di lavoro. Una proposta che periodicamente riaffiora: già bocciata dal Parlamento Europeo nel 2017, ha trovato sostenitori anche nel mondo delle imprese tecnologiche – noto l’endorsement di Bill Gates. Se si saprà gestire al meglio questi due concetti di transizione e redistribuzione, il futuro potrebbe offrire molte opportunità.
L’iniziativa sperimentale
A partire da queste riflessioni, la nostra azienda ha avviato un programma sperimentale. Si tratta di una iniziativa, ribattezzata “Automation Stipend” dai media anglosassoni, il cui obiettivo è andare ad aiutare coloro la cui professione potrà essere minacciata dall’avvento dell’automazione. L’edizione pilota di questo progetto è stata avviata in partnership con il Suny Erie Community College della città di Buffalo, città dal passato industriale nello stato di New York. Il primo vincitore del programma ha ricevuto la propria borsa di studio mensile nei mesi immediatamente precedenti alla pandemia, per formarsi nel settore del food tech: grazie anche al sostegno ricevuto, nonostante le incertezze economiche degli ultimi diciotto mesi, è riuscito di recente ad avviare la propria attività imprenditoriale.
Conclusioni
Si tratta di una soluzione evidentemente di natura sperimentale, il cui successo andrà misurato in parallelo ai mutamenti dell’economia internazionale, legati anche alle conseguenze del Covid-19 sul mercato del lavoro.
Tuttavia, come scriveva il grande storico americano Lewis Mumford negli anni Trenta del secolo scorso, nel suo celebre saggio “Techniques and Civilization”, rimaniamo convinti che “il beneficio maggiore della meccanizzazione non è l’eliminazione del lavoro”, bensì la sostituzione di un lavoro meno piacevole con altro più creativo e a maggior valore aggiunto. Da sempre, i momenti di transizione sono anche tempi che offrono grandi possibilità.