Come ogni altra tecnologia, il robot deve uscire dal laboratorio e inserirsi nelle maglie sociali. Pertanto, perché venga percepito come utile dal gruppo di individui a cui è destinato, non è sufficiente dimostrare che funziona tecnicamente, deve soprattutto funzionare come oggetto sociale.
Ma cosa significa “funzionare” per l’ambito umano?
Perché interrogarsi in maniera filosofica su ogni aspetto dell’indotto tecnologico
Perché la società colga l’opportunità del robot e il suo rispondere a un bisogno deve innanzitutto sentire quel bisogno – e già questo punto non è banale. Inoltre, non basta che il robot sia un oggetto, una “semplice-presenza” motivata da spiegazioni utilitaristiche e quindi di marketing. Al contrario deve possedere tutta una serie di caratteristiche che la società non percepisca come repulsive e pericolose, e tali determinanti sono spesso implicite, in continuo mutamento, perciò non semplici da reperire.
Ricordo che lo sguardo umano non è mai neutro e oggettivo, ogni individuo, al contrario, incorpora teorie antecedenti, soggettive, che ci guidano lo sguardo e che ci mostrano tante realtà quante sono i soggetti. L’ambiente in cui viviamo è lo stesso per tutti, chiaro, non sono anti-realista, ma il significato che sappiamo cogliere da esso spesso non è sovrapponibile; è come se la realtà fosse una figura ambigua e ognuno, ogni gruppo sociale ritaglia un’immagine differente dallo sfondo comune.
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Innanzitutto, vediamo quello che l’evoluzione umana ci ha permesso di osservare (banalmente non sentiamo gli ultrasuoni e non vediamo il campo magnetico) e in base al modo di catalogare del linguaggio di ogni gruppo. Infine, siamo in grado di pensare entro i limiti della storia personale e della struttura corporea: siamo quello che mangiamo. Insomma, la filosofia interviene proprio per chiarire chi sia l’essere umano, anzi chi siano gli esser umani e che significato abbia la tecnologia per ogni target. La questione qui espressa brevemente non è solo epistemologica, ma anche etica e pragmatica. Gli interrogativi sulla percezione della verità da parte degli individui non portano con sé una semplice curiosità teoretica ma anche e soprattutto morale e pratica.
Presentare una IA o un robot con caratteristiche che gli individui non percepiscono come compatibili con il proprio sistema valoriale, con le proprie categorie a priori, ha conseguenze sulla non accoglienza della tecnologia e sul senso di spaesamento e di disagio dei gruppi coinvolti con le tecnologie incompatibili.
Insomma, per questo motivo dico che la filosofia interviene perché non si riproponga quella che Yuk Hui definiva “incoscienza tecnologica”, la rimozione tipica della Modernità. Il trionfo dei dualismi, dell’Ego Cogito e la quasi totale noncuranza degli effetti che una tecnologia può avere sul breve e lungo termine: questi sono stati gli elementi dell’Occidente moderno. Al contrario oggi diventa fondamentale interrogarsi in maniera critica, quindi filosofica, su ogni aspetto dell’indotto tecnologico (per larga misura sociale). Bisogna al contempo diffidare degli esiti apocalittici, cioè il rifiuto totale. Il luddismo riflette nuovamente l’acriticità e l’incoscienza tecnologica. Si tratta di una soluzione rapida, pronta all’uso, e quindi inappropriata, perché lascia non analizzati gran parte degli aspetti rilevanti della questione.
La robotica nell’era del rispetto “by design”
La domanda a cui la filosofia è chiamata a rispondere è inevitabilmente complessa e antica. Essa riguarda da vicino quel pascaliano “mostro inconoscibile” che siamo noi. Un robot non funziona solo collegando i cavi, esso deve essere tarato per rispettare la pletora di regole che costituiscono le società, i gruppi e i singoli. Insomma, deve essere in grado all’occorrenza di empatizzare e di adattarsi. Non è più il tempo della produzione in serie, dell’omologazione. Deve esserci “rispetto by design”, cioè l’avere-cura per la diversità e per l’ecosistema in senso lato, elementi, ahinoi, dimenticati durante tutto l’Antropocene. Si tratta di una dimenticanza che non è stata né innocua e nemmeno innocente, anzi dietro ogni scelta c’è sempre una certa dose di politica e di esercizio di potere. Questi sono ulteriori questioni che andrebbero decostruite filosoficamente, portate alla luce prima che dimostrino i loro effetti sui gruppi.
Insomma, la robotica è un problema complicato, ma la sfida e il giusto approccio sono proprio quelli di mantenere il quesito aperto, in divenire, secondo i metodi propri della filosofia. Ci si deve interrogare da un punto di vista etico, estetico e pure epistemologico.
Le azioni eseguite dal robot (che sia quello dell’industria o quello coinvolto nell’assistenza poco cambia) devono possedere limiti precisi, confini che riflettano le etiche di ogni società: animismo, pragmatismo, etica aristotelica, leibniziana, ubuntu, deontologica.
Inoltre, il design deve incorporare dal principio i valori della privacy, della dignità, dell’affidabilità e deve comunicare da subito non solo le affordances di funzionalità, ma anche significati che oltrepassano l’uso, addentrandosi nell’ambito della pragmatica.
Le questioni etiche dell’IA che si fa artista
L’Intelligenza Artificiale è una di quelle tecnologie che stanno pervadendo il nostro campo dell’esistere e che sollevano più dubbi. L’IA viene addestrata con i dati del web e il web non è affatto un bel posto; pertanto, non deve stupirci che restituisca come output spazzatura simile alla nostra. Correggerci, essere più etici, online e offline, diventa un modo per non offrire immondizia e fare sì che l’IA possa apprendere da dati migliori, incorporando meno pregiudizi. È un po’ come quando evitiamo di essere scurrili davanti ai bambini, perché questi non inizino a imitarci.
Faccio un esempio: recentemente stanno spopolando applicazioni che sulla base di prompt costruiscono dipinti estremamente convincenti. Stable Diffusion è un esempio di web app completamente gratuita che promette di generare arte da brevi spunti linguistici. Sono molte le questioni etiche che tali sistemi sollevano. Innanzitutto, c’è il fatto che facilmente, siccome le reti si sono addestrate sulle immagini del web, ci restituiscono output inappropriati, pornografici, pieni di odio, discriminatori. Inoltre, si dipana tutto un problema legato al copyright e alla privacy e quindi all’uso di tali reti, perché se una IA può venire epurata da pregiudizi, può sempre essere applicata in modi che finirebbero per ledere gli utenti in altro modo. Se inserisco il nome di un artista, l’IA produrrà con estrema facilità falsi d’autore, derubando l’originalità all’archetipo. Greg Rutkowski è divenuto tristemente famoso per essere tra i prompt più utilizzati in queste app, e la questione sta diventando un problema notevole per la sua produzione. Inoltre, reti di questo tipo facilmente possono ampliare il problema delle fake news, andando a complicare la questione della testimonianza e la sua regolamentazione.
Figura 1: a fairy in Greg Rutkowski’s style generated by IA
La filosofia per ristrutturare noi stessi
La filosofia deve aiutare i tecnici a risolvere i propri limiti, ma oltre alle questioni pratiche, di sicurezza, di privacy, di lesione personale, può aiutarci a ristrutturare noi stessi, a farci diventare problema nel farci specchiare e riconoscere nei comportamenti nocivi che l’IA incorpora e perpetua. Quando notiamo che un sistema automatizzato propone qualche sorta di bias, l’errore ci deve servire da specchio. Deve diventare un’occasione ulteriore per fare filosofia e migliorare, una sorta di esercizio spirituale.
Deepl, noto sistema di traduzione basato sull’intelligenza artificiale, mi aveva restituito una traduzione particolare. Qui sotto allego lo screenshot di un testo in cui prima parlo di una persona che ha vinto il bando di Dottorato nella robotica e il sistema utilizza il pronome “He”, poco sotto dico di quell’individuo che ha lavorato come baby sitter e automaticamente, senza considerare che poco sopra era un Lui, diventa una “She”.
La domanda da porsi, al di là della correzione del bias, è la seguente: qual è l’atteggiamento filosofico da assumere di fronte a questo errore? La società deve specchiarsi in questa scelta di pronomi personali e capire che ancora oggi una donna poche volte raggiunge il livello 8 del quadro europeo delle qualifiche e soprattutto è raro lo faccia nel settore della robotica.
Risolvere il problema della minore scolarizzazione femminile non ha effetti solo sui singoli, ma anche sulla robotica in senso lato. Mi spiego meglio. Il settore infermieristico e della cura è costituito soprattutto da persone di genere femminile. Il fatto che ancora le donne non si approccino alla tecnologia è un danno per l’accoglimento dei robot nelle case di cura. È provato che le differenze di genere siano tra le dimensioni che più impattano nell’accettazione dei robot e questo è dovuto proprio al fatto che le donne raramente si dedichino alla robotica, portandole a diffidare più facilmente dei robot, della loro utilità.
L’estetica, i robot e la filosofia: come ci vedono i dispositivi?
È essenziale che, nel rapporto con il robot, quest’ultimo si proponga anche come un oggetto etico ed estetico, un oggetto artistico.
A tal proposito più volte nelle mie ricerche ho indagato la funzione che ha l’arte per l’umanità. È una di quelle attività su cui l’essere umano si è concentrato da sempre, da quando ha disegnato le sue imprese sulle grotte. L’inutilità di tale pratica ci deve servire a qualcosa: essa ci salva dalla routine, ci salva dalla mera funzionalità, dandoci modo di farci fermare e farci riflettere, al di là dei riflessi condizionati: è un’altra declinazione del fare filosofia.
Vivere in una casa bella, indossare abiti belli, nutrirsi di un pasto che non serve solo a saziarci sono azioni che elevano la sopravvivenza su piani inutili e che quindi ci confortano, perché possiamo dirci al di là del bisogno. Anche un robot, per le stesse ragioni, si deve presentare come bello, bello secondo quello che una comunità ritiene essere tale, non scordiamolo. Che cosa sia la bellezza è una domanda carica di pregiudizi culturali. Non relativizzare la domanda ci porta a esiti se non tragici, quanto meno cringe.
Avete presente gli effetti bellezza delle app di fotografie? Non sono neutrali, al contrario incorporano i giudizi della società da cui provengono tali software, in questo caso per lo più asiatici. La foto migliorata ci sbianca e ci trasforma i connotati in “fantasmini” dall’appeal che ci ricordano molto i manga. Come ho scritto in un articolo di mesi fa, anche io provai a utilizzare Face++, un’azienda cinese impegnata in ricerche di facial recognition, che sul sito ha una sezione che ci restituisce un punteggio di bellezza per le foto uploadate. I risultati del software dimostrano come lo standard discrimini le persone di pelle scura (Naomi Campbell è più bella se schiarita e “asiatizzata”), mentre una modella asiatica (Reon Kadena) riceve automaticamente voti più alti rispetto a qualunque modella occidentale. Anche la mia immagine quando è corretta da un’app di bellezza (BeautyPlus) si allinea immediatamente agli standard che l’IA incorpora. È la prova che i filtri che utilizziamo cotidie fanno propri gli stessi bias di Face++.
Quando ci guardiamo dalla cam frontale, non è un semplice sguardo e, soprattutto, non è il nostro. Ci osserviamo con gli occhi carichi di pregiudizi degli smartphone che ci mascherano con filtri per migliorare la nostra immagine reale.
Come ci vedono i dispositivi? Ci osservano non come siamo, ma come una certa cultura stima dovremmo essere. Il risultato non può che essere frustrazione, tristezza, senso di inferiorità. In effetti è dimostrato che l’abuso di questi filtri ha comportato un boom di interventi chirurgici tra i ragazzi.
La bellezza ci salva dallo stigma estetico, come le amo definire io le affordances tarate solo sulla mera funzionalità della tecnologia, ma l’estetica deve essere problematizzata a fondo, perché non si trasformi in un ennesimo strumento di imperialismo. Il rischio è quello di cancellare le differenze sotto l’ombrello della globalizzazione. Certo, gli interrogativi su cosa sia il locale esistono solo dal momento in cui è esistito il globale e ormai è impossibile non tenere conto di questa dialettica. Attenzione a non trasformare la domanda in un banale e pericoloso “preserviamo le tradizioni”, al contrario deve portarci a capire vicendevolmente chi siamo per scoprirsi; è aprire le società, non chiuderle.
Da tutto questo si comprende quanto sostenevo all’inizio, cioè che la robotica deve essere modificata dalla filosofia, dal suo metodo precipuo. Le questioni umane non devono passare in secondo piano o affrontate con il sarcasmo di chi pensa siano quisquilie che qualunque persona in quanto persona può risolvere.