smart working

Sempre e ovunque al lavoro, col digitale: perché la disconnessione è un diritto

In regime di costante connessione, alcuni lavoratori possono essere portati a prolungare in modo indefinito l’orario di lavoro, finendo col rinunciare alla necessaria distinzione tra vita privata e attività professionale. Ecco perché il diritto alla disconnessione costituisce un tema centrale e di assoluta attualità

Pubblicato il 05 Apr 2023

Stefano Saglimbeni

Avvocato, presso studio legale Pacchiodo & Associati in Torino

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La connettività dilagante alla rete di internet pervade ogni ambito della realtà attuale e, conseguentemente, della vita privata e lavorativa delle persone.

Si tratta di un contesto che determina evidenti vantaggi per gli operatori dell’economia, dalla velocizzazione dei processi produttivi alle opportunità – effettive o potenziali – di risparmio e abbattimento dei costi.

Ma quali sono gli effetti sulla vita dei lavoratori, laddove in regime di connessione constante non si riuscisse più ad attuare la necessaria distinzione tra lavoro e vita provata? È qui che entra in gioco il diritto alla disconnessione.

Diritto alla disconnessione, quando puoi spegnere il cellulare: tutte le regole

Smart working, croce e delizia dei lavoratori

In tale ambito, si innesta lo sviluppo esponenziale del ricorso allo smart working (lavoro agile) tramite il quale il dipendente, grazie all’impiego di tecnologie di connettività, può adempiere alle proprie mansioni a distanza, in spazi diversi dalla sede aziendale, inclusa la propria abitazione.

Tale modalità organizzativa del lavoro nasce, principalmente e originariamente, come filosofia manageriale “illuminata”, fondata sull’ideale di concedere al lavoratore, investito di una maggiore responsabilità, flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare in ambito lavorativo. Una visione “alta” votata al progresso e all’umanizzazione del lavoro che, per definizione, richiede tempo e adattamento al contesto socio-produttivo.

L’emergenza epidemiologia da COVID 19, per ovvie ragioni di necessità, ha forzato la definitiva affermazione della prassi determinandone, di fatto, la normalizzazione. Sennonché, come spesso accade in contingenze critiche, l’urgenza ha “partorito” una realtà ben distante dagli ideali e dalle aspettative iniziali, determinando, di fatto, una trasposizione del lavoro in azienda direttamente nelle abitazioni dei dipendenti.

Il rischio di lesione dei diritti del lavoratore

Ciò implica una serie di nuove potenziali situazioni di rischio di lesione dei diritti del lavoratore in ordine alle quali il ceto datoriale deve organizzarsi predisponendo policy e misure preordinate alla tutela.

Il lavoro a distanza e “in connessione” utilizza, infatti, tecnologie di comunicazione non filtrate che veicolano continue “sollecitazioni” provenienti da canali eterogenei.

Per portare un esempio pratico, può capitare – e capita – che un dipendente, impegnato in una call conference, riceva nello stesso momento comunicazioni e-mail (delle quali magari vede la notifica in tempo reale), richieste tramite il programma di messaggistica aziendale e magari telefonate sul dispositivo mobile. Nondimeno, trattandosi di tecnologie sempre attive e immediate, è possibile – e succede – che dette “sollecitazioni” si manifestino anche durante il momento di pausa o nel tempo libero extralavorativo determinando, di fatto, una reperibilità illimitata della risorsa.

Molti dei dispositivi in dotazione al lavoratore sono, infatti, attivi anche al di fuori dell’orario di lavoro cosicché anche in ambito extraprofessionale il dipendente resta esposto alle dinamiche lavorative. Il problema è ancora più rilevante nell’ampia casistica, proliferata durante la “prima ondata” da COVID 19, riguardante il lavoratore in smart working operativo tramite dispositivi tecnologici propri.

Ciò determina l’intensificazione del lavoro e la sua potenziale espansione all’ambito della vita privata o di quei momenti, magari inclusi nell’orario dell’attività professionale, in cui il dipendente ha necessità di rendersi non contattabile per inequivocabili esigenze personali (necessità fisiologiche, sanitarie, ecc.).

Connessione costante e nuove patologie psicologiche

La problematica, apparentemente percepibile come inevitabile e normale nel mondo attuale, è in realtà seria laddove la connessione e la connettività hanno generato nuove patologie psicologiche oggi al centro del dibattito di settore; disturbi quali la nomofobia (paura di non essere connessi) o il tecnostress (stress da utilizzo di tecnologie) non esistevano, infatti, prima della rivoluzione digitale.

D’altro canto, in regime di costante connessione, alcuni profili di lavoratore possono essere inconsciamente portati, avendo di fatto la possibilità di evadere sempre le richieste del datore, a prolungare in modo indefinito l’orario di lavoro, finendo col rinunciare alla necessaria distinzione tra vita privata e attività professionale. Una dinamica che, nel tempo, conduce al peggioramento della qualità di vita e alla potenziale insorgenza di disturbi psichici.

Il diritto alla disconnessione

Su tale premessa, il diritto alla disconnessione costituisce un tema centrale e di assoluta attualità; si tratta, in particolare, di una misura di prevenzione che mira a tutelare l’individuo dalle conseguenze dannose portate dalla continua reperibilità imposta dalla connessione, sia sotto il profilo della personalità sia sotto il profilo della salute psicologica, nell’ottica di preservarne libertà individuale e riservatezza.

Il diritto alla disconnessione intende dunque tutelare la prerogativa del lavoratore di non essere costantemente raggiunto, soprattutto nel tempo libero, da comunicazioni o informazioni legate all’attività lavorativa o quantomeno di non essere tenuto a darvi riscontro.

In termini concreti, tale diritto di non rispondere si traduce dunque nella facoltà di disattivare o “silenziare” la strumentistica tecnologica in dotazione fermo restando, a un livello più “alto”, l’onere del datore di predisporre misure preventive volte a elidere sin dall’origine contesti invasivi ai danni del dipendente. Onere, tuttavia, di non semplice applicazione laddove le misure preventive, per loro stessa natura, ignorano le peculiarità del caso particolare. A titolo esemplificativo, l’automatismo del programma aziendale che eserciti un blocco preventivo sulle comunicazioni inoltrate a partire da un determinato orario, può determinare problematiche in situazioni di particolare urgenza nelle quali si rende necessaria l’evasione immediata e improcrastinabile di una problematica. È il problema del dosso stradale: utilissimo per garantire la generale moderazione della velocità da parte dell’utenza ma potenzialmente dannoso in casi particolari di emergenza quali, ad esempio, il trasporto in ambulanza di un paziente grave.

La situazione in Europa

Gli ordinamenti giuridici hanno dunque dovuto inseguire il fenomeno, adottando rimedi legali individuali.

Significativa la soluzione legislativa francese risalente al 2016; tale normativa impone alle aziende con oltre 50 dipendenti la negoziazione di una policy aziendale preordinata a regolamentare il diritto a non rispondere a comunicazioni aziendali al di fuori dell’orario di lavoro.

Si segnala ancora l’intervento normativo adottato in Belgio, dove è stato dapprima sancito in capo dipendenti pubblici il diritto di “disconnettersi” dal lavoro al di fuori dell’orario previsto.

La legge n. 81/2017 in materia di smart working

Nel nostro ordinamento giuridico, si registra la legge n. 81/2017 in materia di smart working. Il testo normativo in questione non riconosce espressamente il diritto alla disconnessione che viene, di fatto, delegato alla contrattazione tra le parti : “L’accordo relativo alla modalità di lavoro agile è stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova, e disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore. L’accordo individua altresì i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro” (art. 19 legge n. 81/2017).

La disposizione in esame comporta tuttavia un problema di effettività della tutela laddove la formulazione generica e l’eccessivo rimando alla negoziazione tra le parti non producono elementi oggettivi minimi e cogenti, necessari per costituire un diritto incontestabile e direttamente invocabile dal titolare. D’altro canto, per risultare effettivo e applicabile, il diritto alla disconnessione richiede un’operazione normativa su due piani paralleli (uno attivo e l’altro passivo) laddove al “diritto di non rispondere”, in capo al lavoratore, deve corrispondere il venire meno dei poteri e delle prerogative datoriali in ordine alla facoltà di contestare – ed eventualmente sanzionare – la mancata disponibilità. Per potere serenamente spegnere i dispositivi in dotazione, o banalmente non rispondere, il lavoratore deve, infatti, avere la certezza che tale condotta legittima non comporti ripercussioni negative di alcun genere sul rapporto di lavoro.

I paletti del Garante della Privacy

Nell’anno 2020, lo stesso Garante della Privacy, autorità di controllo nazionale, ha confermato al legislatore, in ottica de iure condendo, l’esigenza di garantire in modo più marcato la tutela, nell’ottica di proteggere la necessaria separazione tra lavoro e vita privata.

In tale contesto di sensibilizzazione sulla tematica, forzosamente collocata al centro dell’agenda in ragione del persistere dell’emergenza epidemiologica, nel 2021 (Legge del 6 maggio 2021, n. 61 che ha convertito il D.L. N. 30 del 13.03.2021), il diritto in questione è stato recepito e dunque espressamente previsto con Legge: “è riconosciuto al lavoratore che svolge l’attività in modalità agile il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati. L’esercizio del diritto alla disconnessione, necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”. Sussiste dunque l’elemento attivo costituito dal diritto soggettivo (con il limite degli accordi intrapresi e di eventuali periodi di reperibilità concordati) confortato dalla concomitante preclusione in ordine a qualsivoglia conseguenza pregiudizievole per il rapporto di lavoro, inclusi i trattamenti retributivi.

La tutela della riservatezza

Va poi da sé la rilevanza del tema nell’ambito della tutela della riservatezza laddove, come sottolineato dal Garante della Privacy, la tecnologia può costituire l’occasione per predisporre un sistema di controllo e monitoraggio, talora pervasivo, della risorsa umana. È dunque fondamentale che i dispositivi tecnologici assegnati e i programmi informatici che li presidiano rispettino lo statuto dei lavoratori e le legittime aspettative di autodeterminazione del lavoratore.

Il datore è dunque tenuto a redigere informativa ai sensi dell’art. 13 GDPR (General Data Protection Regulation) con particolare attenzione alla descrizione dei dati trattati, delle modalità e delle finalità del trattamento. Nel caso di utilizzo di software aziendali propri del datore, vengono necessariamente trattati i cosiddetti dati di navigazione, con la conseguente esigenza di predisporre una policy specifica. Anche nel caso di software forniti da terzi, sono necessarie verifiche sulla conformità delle informative e delle misure Privacy applicate dall’erogatore del servizio.

Il trattamento di tali dati deve poi ispirarsi ai principi di cui all’art. 5 dello stesso GDPR (liceità, correttezza e trasparenza); ne discende che i dati raccolti dal datore non possono essere utilizzati, in contrasto ai suddetti principi, per effettuare un controllo a distanza continuativo sulla prestazione del lavoratore. A titolo esemplificativo, la Sezione Lavoro della suprema Corte di Cassazione ha dichiarato illegittimo, con giurisprudenza divenuta costante nel tempo, il licenziamento fondato su prove emerse a seguito della verifica continuativa della condotta del dipendente attraverso tecnologia di geolocalizzazione.

Conclusioni

È tuttavia evidente che la materia, in un contesto di libera circolazione delle persone anche e soprattutto sotto il profilo virtuale, meriti una tutela unitaria a livello UE; può, infatti accadere – ed accade – che un lavoratore in smart working dalla propria abitazione in Francia svolga mansioni lavorative per un datore con sede in Germania.

Il Parlamento europeo ha dunque approvato una risoluzione rivolta alla Commissione, proponendo una direttiva specifica in materia di “disconnessione” da intendersi quale diritto fondamentale dei lavoratori in quanto strettamente legato alla tutela della persona, sia in termini di salute mentale e fisica sia in termini della salvaguardia della qualità di vita e delle prerogative di autodeterminazione.

Come spesso accade, il diritto insegue una realtà che, in certi ambiti, non cessa mai di mutare e aggiornarsi; la problematica del diritto alla disconnessione resta dunque aperta sul piano sostanziale.

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