la società-fabbrica

Siamo tutti operai delle big tech: ecco gli effetti dell’human engineering digitale

Il nuovo saggio di Lelio Demichelis, “La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering” (Luiss University Press, pag. 368) si sofferma sulle nuove forme di ingegnerizzazione comportamentale che trasformano ciascuno di noi operaio-massa della fabbrica diffusa/digitale. Ecco alcuni estratti

Pubblicato il 23 Mar 2023

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

demichelis

Nel nuovo saggio dal titolo: “La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering” (Luiss University Press, pag. 368), rovesciando l’ideologia e la pedagogia neoliberale e quella tecnologica, provo a dimostrare che è la fabbrica e non l’impresa (start-up comprese) il vero e totalitario modello di organizzazione del mondo e del dover vivere degli uomini e delle società. E quindi il dover essere imprenditori/start-up di se stessi – mantra del neoliberalismo e della Silicon Valley – serve solo a mascherare una realtà ben diversa, dove tutti siamo non imprenditori ma operai/forza-lavoro del tecno-capitalismo.

Cosa ci salverà dal tecno-capitalismo? Due esempi di cosa rischiamo col “governo” degli algoritmi

Siamo tutti forza lavoro delle Big Tech

Forza-lavoro quando produciamo, quando consumiamo, quando generiamo dati per il BIG Data e il capitalismo della sorveglianza, quando cerchiamo informazioni sui motori di ricerca e quando deleghiamo a ChatGpt il compito di scrivere un testo. Forza-lavoro sempre più spesso gratuita, cioè a pluslavoro totale. Operai (e non certo imprenditori), quindi mera forza-lavoro alienata di una società-fabbrica organizzata, comandata e sorvegliata secondo le forme e le norme di funzionamento dettate dal tecno-capitale. E a governare/ingegnerizzare la società trasformata in una fabbrica integrata a ciclo continuo, globale e connessa oggi grazie al digitale e a mobilitazione totale sono imprenditori e manager, finanza e tecnocrati e oggi sempre più gli algoritmi, i nuovi meneur des foules con le loro tecniche sempre più raffinate di human engineering – e management e marketing e algoritmi e i.a. e le retoriche di rete (tipo: “il nuovo che avanza non si può fermare”) sono appunto forme di ingegnerizzazione comportamentale di ciascuno di noi operaio-massa della fabbrica diffusa/digitale.

Il potere tecno-capitalista è in tutto e in niente

E quindi: se ci si domandasse di nuovo cos’è e dov’è il potere, bisognerebbe rispondere che il potere tecno-capitalista – il potere della razionalità strumentale/ calcolante-industriale – è in tutto e in niente; “e in questa mancanza tutti vedono la giustificazione della loro incapacità di resistenza e la fonte giuridica della loro buona coscienza” come scrivevano Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca. Ovvero, come sintetizzava magistralmente il filosofo Günther Anders: “Il deus del sistema resta muto e absconditus e [gli uomini] fraintendono come non-esistenza questa impercettibilità del loro dio”. E questo dio/tecnica – o come noi lo abbiamo chiamato: dio della religione tecno-capitalista (2015) – resta per Anders absconditus e quindi impercettibile “perché sa di essere al colmo della sua potenza proprio se resta celato dietro le quinte e che, se non si fa percepire [come potere] assicura nel modo migliore la totalità del suo dominio”. […] Perché, ancora Anders, “tanto più è totale un potere, quanto più muto è il suo comando. […] Questo è il processo circolare, o a spirale, che la società conformistica mantiene e che, appena si è messa in moto, continua automaticamente a perfezionare” (Anders 2003, II); conseguentemente, più naturale è la nostra obbedienza [oggi agli algoritmi, al Gafam, al capitalismo della sorveglianza] e meglio è assicurata la nostra illusione di libertà (ovvero: tanto meno vediamo/percepiamo il potere, tanto meno il potere reale – oggi appunto quello della tecnica, degli algoritmi, della razionalità strumentale/calcolante-industriale – si fa vedere da noi, tanto più ci illudiamo di essere liberi). Ma così, ancora più totale (totalitario) si fa – è – il potere.

La nostra relazione di dipendenza dalla tecnica

Di più, e approfondendo ulteriormente questo processo psichico così fondamentale per comprendere la nostra relazione di dipendenza dalla tecnica (e dal capitale) e il nostro adattamento indotto [ingegnerizzato, appunto] alle esigenze della rivoluzione industriale e del capitale: quando “un mondo riesce a farsi passare come l’unico mondo [“non ci sono alternative”], l’omologazione degli individui raggiunge livelli di perfezione tali che i regimi assoluti o dittatoriali dell’era pre-tecnologica neppure lontanamente avrebbero sospettato di poter realizzare. […] nell’età della tecnica il vincolo non è avvertito come un atto esplicito di coercizione, né come uno sforzo esplicito di adattamento, ma come semplice condizione del vivere e dell’agire che sarebbero impossibili senza una omologazione:

1) al mondo dei prodotti che ci circonda e da cui dipendiamo come produttori e come consumatori;

2) al mondo dello strumentario tecnico e amministrativo che serviamo e di cui ci serviamo;

3) al mondo dei nostri simili retrocessi al secondo posto, perché ad essi ci rapportiamo in quanto rappresentanti del mondo delle cose. […] Parliamo di illusione e non di libertà, perché di libertà si può parlare propriamente quando si dà una scelta tra scenari diversi, tra mondi possibili, e non all’interno di un unico mondo. […] e se nell’età pre-tecnologica […] si diceva che la maggioranza dell’umanità non aveva niente da perdere tranne le sue catene, oggi si dovrebbe dire che senza queste catene non avrebbe di che sopravvivere. Questa è la ragione per cui, quando le catene si spezzano [oggi diremmo: quando la connessione alla rete e a un social viene a mancare; N.d.A.], da parte di tutti ne viene invocata subito la saldatura. Questa richiesta è l’indice non solo del tasso di dipendenza di ciascun individuo dal mondo della tecnica, ma anche del tasso di collaborazione spontanea, quindi di omologazione e di conformismo, affinché questo mondo permanga il più possibile garantito e assicurato senza interruzioni, rischi o possibilità di cedimento” (Galimberti, 1999).

E questo spiega – ancora Galimberti – “perché egemoni diventano nell’età della tecnica quelle psicologie dell’adattamento il cui implicito invito è di essere sempre meno se stessi e sempre più congruenti con l’apparato [come dover essere imprenditori di se stessi e/o capitale umano]. Non diversamente si spiega il declino della psicoanalisi come indagine sul proprio profondo e il successo del cognitivismo e del comportamentismo [a cui ora si aggiunge l’affettivismo]. Il primo per aggiustare le proprie idee e ridurre le proprie dissonanze cognitive in modo da armonizzarle all’ordinamento funzionale del mondo; il secondo per adeguare le proprie condotte, indipendentemente dai propri sentimenti e dalle proprie idee che, se difformi, sono tollerati solo se confinati nel privato e coltivati come tratto originale della propria identità, purché non abbiano ricadute pubbliche. […] Si viene così a creare quella situazione paradossale in cui l’autenticità, l’essere se stesso, il conoscere se stesso che l’antico oracolo di Delfi indicava come la via della salute dell’anima diventa, nel regime della funzionalità dell’età della tecnica, qualcosa di patologico”. […]

Democratizzare la tecnica, per salvare la democrazia dal tecno-capitalismo

La psicologia dell’adattamento

Il management è allora la tecnologia motivazionale, la psicologia dell’adattamento con cui il capitale organizza, comanda, controllaintegra, sussume e sincronizza – il lavoro di uomini e macchine dentro una fabbrica. E oggi nella società-fabbrica perché, come scriveva già nei primi anni Sessanta del ‘900 Raniero Panzieri, la fabbrica (come organizzazione, comando e controllo), esce dalla fabbrica e pervade la società intera. E quindi, come scriveva Max Horkheimer, oggi “il regolamento aziendale si è esteso alla società intera”. E se nel fordismo-taylorismo il management era basato soprattutto sul condizionamento mediante un comando esplicito e una rigida disciplina dei lavoratori (per un lavorare other directed, tra mansionari e controllo dei tempi e dei metodi – anche se iniziava ad affacciarsi l’uso della psicologia), sempre più oggi il management si basa sulla motivazione e sul consenso del lavoratore/consumatore e quindi sull’attivazione di una sua auto-motivazione e sull’auto-comando-implicito/interiorizzato (un lavorare e consumare e generare dati apparentemente autonomo e inner directed, ma in realtà sempre other directed). Questo porta a credersi collaboratori dell’impresa, al limite aiutati da un manager che non è più un capo che impone, ma un leader carismatico che motiva. […]

Con il modello taylorista la fabbrica divenne ancora di più e sempre più rispetto alla prima metà dell’Ottocento, un sistema integrato e dunque sempre più totalizzante, dove ciascuno ha una propria funzione/funzionalità da rispettare, inserito e integrato nel tutto della fabbrica dentro la quale (funzione e fabbrica) deve imparare a stare (utile e docile) e a funzionare. Un sistema governato/amministrato dalla Direzione aziendale che si assumeva, secondo Taylor, il compito di organizzare, comandare, sorvegliare e far funzionare la fabbrica nel modo più efficiente e produttivo di profitto possibile; e che allo stesso tempo si costruiva/imponeva come autorità legittima. […] E i dirigenti [il management] si assumevano nuovi compiti, oneri nuovi e responsabilità mai sognate nel passato. Chi ha mansioni direttive si assume, ad esempio, l’incarico di raccogliere tutte le nozioni tradizionali [le informazioni] possedute in precedenza dalla mano d’opera e di classificarle, ordinarle in tabelle e sintetizzarle in prescrizioni, leggi e formule, che riescono immensamente utili al lavoratore nella sua attività quotidiana”. […]

Così accade anche oggi, quando però il management è integrato e incorporato sempre più con la tecnologia ed è una macchina, o un algoritmo, a dare le prescrizioni ai lavoratori della fabbrica (e della societa-fabbrica), specificando tempi e procedure e compiti da eseguire (ciò che si deve fare), il come eseguirli secondo i principi stabiliti dal sistema scientifico-algoritmico e dettati da dispositivi tecnologici che hanno rimosso/sostituito ogni forma di procedimento empirico e di intelligenza del lavoratore. Fondamentale – ieri e oggi – è appunto far eseguire i compiti assegnati, in fabbrica e nella società-fabbrica, dove il nostro compito principale è generare dati o comunque essere forza-lavoro gratuita. In realtà secondo un mix, presente già in Taylor, di massima prescrizione hard (oggi via schermo del Pc/smartphone/tablet), ma anche di lavoro manageriale di human engineering sulla psicologia dei lavoratori (cioè di soft power, come il nostro dover essere sempre connessi, realizzando la digitalizzazione delle masse); perché, scriveva Taylor, l’organizzazione scientifica è una rivoluzione mentale, che deve essere introiettata da ciascuno e dall’insieme; e analogamente avviene oggi, con la Fabbrica 4.0, il capitalismo delle piattaforme e della sorveglianza, il nuovo che avanza e che non si deve fermare, che devono essere introiettati da ciascuno ed essere l’unico mondo dove vivere. […]

I consumatori sono le risorse umane del sistema

Questo avviene anche nel (lavoro di) consumo, attraverso il management del lavoro di consumo/consumismo che si chiama marketing. […] Selezionati, organizzati, analizzati, personalizzati, i consumatori sono le risorse umane del sistema [della fabbrica] del consumo e devono essere gestiti con tecniche analoghe a quelle in uso nelle imprese di produzione: con lo studio delle personalità e dei comportamenti; con la socializzazione organizzativa al consumare; con stimoli adatti al condizionamento; con cluster di significati coerenti; con l’organizzazione e la produzione delle percezioni; con la tecnica motivazionale di far credere al consumatore di partecipare alla scelta dei propri consumi e alla selezione dei bisogni/desideri/capricci che lo devono coinvolgere, accrescendone la produttività di consumatore; con la pubblicità come autorità legittima e come ideologia nel determinare [e industrializzare] modelli e stili di vita, di lavoro e di consumo. […]

Conclusioni

Quindi, per essere liberi, occorre uscire da questa gabbia tecno-capitalista, dalla gabbia della razionalità strumentale/calcolante-industriale e non solo dal capitalismo; occorre riconoscere finalmente – rovesciando Marx – che lo sviluppo delle forze produttive, grazie a scienza e tecnologia, non è la premessa per il passaggio dal regno della necessita a quello della libertà, bensì al totalitarismo della razionalità strumentale/calcolante-industriale, alla fabbrica integrata globale, alla società automatizzata e amministrata come una fabbrica. Il vero cambio di paradigma da realizzare è appunto quello di uscire da questa (ir)razionalità strumentale/calcolante industriale e positivistica – antisociale ed ecocida per sua essenza – e costruire invece una ragione illuministica ma umanistica ed ecologica.

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