società digitale

Smart working, gli errori più comuni: ecco i rimedi per le aziende

Quali conseguenze può avere questo nuovo modo di lavorare da remoto, in cui tutte le nostre attività (e le nostre non-attività) sono alla mercè di tutti i nostri collaboratori? Serve un cambio di cultura, un aggiornamento del mindset aziendale e manageriale per evitare che il digitale sia solo un’aggiunta di strumenti

Pubblicato il 24 Feb 2022

Laura Cavallaro

Partner P4I

Beatrice Medved

Consultant di P4I-Partners4Innovation

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Negli scorsi due anni, sulla spinta della pandemia di Covid-19, diverse organizzazioni si sono trovate ad affrontare una digitalizzazione forzata.
Ciò ha significato lavoratori in smart working, turnazioni tra lavoro in ufficio e lavoro da casa, inserimento degli strumenti digitali e delle piattaforme di collaborazione e condivisione (più o meno conosciute a seconda che nell’azienda si usassero già oppure ne fosse sprovvista).

Il lavoro da remoto ha sicuramente portato numerosi vantaggi, come minore pendolarismo (con un conseguente guadagno di tempo sia per il lavoro che per la vita privata), minore stress da spostamento, maggiore produttività, maggiore vicinanza a casa e alla famiglia, gestione più indipendente del tempo a disposizione.

Adottare lo smart working senza stress: guida pratica per capi “controllori” (ma non solo)

Le caratteristiche del remote working

Allo stesso tempo però, non per tutti i lavoratori sono stati riscontrati questi vantaggi e soprattutto, al di là della narrativa positiva, il lavoro da remoto ha assunto diverse caratteristiche, con risvolti negativi a seconda delle modalità di realizzazione delle diverse aziende.

Generalmente, le tre caratteristiche che si possono individuare sono:

  • Giornate più lunghe, con il rischio dell’infinite work, ovvero del lavoro infinito che non permette la disconnessione a fine giornata;
  • Necessità per i dipendenti di essere sempre costantemente “visibili” e quindi “controllabili”;
  • Lavoro più “performativo”, caratterizzato dalla mancanza di pause e dal calendario pieno di videochiamate e appuntamenti che non permettono di alzarsi dalla scrivania fino a sera tardi.

In più, tutto ciò che riguarda il nostro lavoro e le nostre attività diventa pubblico e facilmente controllabile.
Ad esempio:

  • È pubblico il momento in cui non solo entriamo in ufficio, ma in cui entriamo in chat, entriamo in un documento, in cui ci stacchiamo dal pc (che poi sia per fare una telefonata, andare semplicemente al bagno o fare altro è indifferente);
  • I calendar sono condivisi, e quindi è virtualmente visibile chi è “più occupato” e chi “meno occupato” col rischio di utilizzare il riempimento del calendario come misura di produttività e “impegno”;
  • I canali di comunicazione sono aperti e multidirezionali ed è visibile a tutti chi interviene e con che frequenza e chi no;
  • Le stesse e-mail, gli orari e i giorni in cui vengono mandati sono “pubblici”;
  • I meeting, facilitati dal digitale sono proliferati: tutte le interazioni tra i partecipanti sono sotto gli occhi di tutti, dai messaggi in chat, spesso sostituiti e facilitati dalle emoticon, fino agli interventi e persino alle espressioni. Per chi accetta di tenere la videocamera accesa, ovviamente;
  • Anche i documenti condivisi sono tracciabili e pubblici: possiamo vedere chi sta lavorando su un documento, quando, e se lo commenta vediamo anche l’ora in cui è intervenuto sullo stesso documento, anzi spesso riceviamo quasi in tempo reale una e-mail che ce lo notifica.

A questo punto quindi sorge spontanea una riflessione: l’estrema tracciabilità e trasparenza è davvero solo efficienza e orientamento all’obiettivo? Oppure per alcuni questo continuo “Grande Fratello Orwelliano” può generare ansia e rendere il lavoro a distanza un incubo?

Le conseguenze negative dell’estrema tracciabilità

Quali conseguenze può avere questo nuovo modo di lavorare, in cui tutte le nostre attività (e le nostre non-attività) sono alla mercè di tutti i nostri collaboratori?
Prima di tutto l’eccesso di comunicazione aperta rischia di farci perdere l’oggetto della comunicazione; nell’ansia di di-mostrare, e di di-mostrarci rischiamo di non essere visti e di non guardare ciò che conta (ossimoro della comunicazione digitale?).
Ciò significa che nell’ansia di comunicare presenza, rischiamo di dimenticare di comunicare contenuto.
La tendenza dei dipendenti, infatti, è quella di continuamente mostrare quanto sono occupati, quanto lavorano, quanti appuntamenti hanno in agenda, per non essere esplicitamente o implicitamente accusati di non lavorare abbastanza.

Allo stesso tempo, sappiamo che la comunicazione aperta e trasparente è un prerequisito necessario e auspicabile in tutte le forme di comunicazione moderna, digitali e no, e il bisogno dei manager di controllare le attività e quello dei dipendenti di dimostrare ciò che fanno è naturale.
Tuttavia, se la necessità di controllare attività sfocia anche nel lavoro in presenza in controllo ossessivo della persona, in ansia da micro-management, nel digitale assistiamo a una esasperazione di questi comportamenti che di fatto ha come risultato bloccare la capacità critica e la creatività dei dipendenti.

Certamente anche nel lavoro in presenza la “teatralità” delle azioni, il bisogno di dimostrare erano e sono aspetti cruciali, non per forza negativi, proprio perché il lavoro stesso ha bisogno delle sue ritualità e dei gesti ripetuti come tutte le attività umane.

Ma al contrario che in ufficio o sul proprio luogo di lavoro, in digitale un controllo eccessivo dei dipendenti può davvero essere controproducente, prima di tutto in termini di produttività ( visto che creatività e pensiero critico infatti necessitano di spazi e tempi “morti”, di una fase di ricerca e maturazione, di lavoro in solitaria, che non per forza deve essere costantemente tracciato), e successivamente anche in termini di engagement, soddisfazione e fiducia del dipendente nei confronti del proprio manager e più in generale dell’azienda, che percepisce come ostile.

I rimedi per una cattiva gestione del lavoro da remoto

Abbiamo compreso quindi che è pericoloso trasferire logiche “vecchie” su strumenti nuovi.
Il passaggio al digitale deve essere visto non solo come un’aggiunta di strumenti, ma anzi come un cambio di cultura, un aggiornamento del mindset aziendale e manageriale e un’occasione per colmare gap di competenze attraverso l’apprendimento continuo.

Quali sono i cambiamenti necessari al fine di rendere la propria azienda digitale senza inficiare sulla produttività e sulla soddisfazione dei propri collaboratori?

  • Deve cambiare la cultura dei manager e dei leader, che devono rinunciare alle passate posizioni di controllo e ai vecchi metodi per muoversi verso una leadership basata sulla fiducia e sulla motivazione delle persone;
  • deve cambiare la cultura aziendale, che non deve promuovere il numero di ore lavorate, il numero di e- mail inviate, il numero di appuntamenti in calendario, come indici di produttività (che oramai sono considerate vere e proprie “fake metrics”), ma deve orientarsi sempre più nel misurare la produttività sugli obiettivi di business (e non) raggiunti;
  • deve cambiare la cultura del dipendente che non deve misurare il proprio effort solo in ore lavorate, ma in contributo effettivamente offerto all’azienda, anche in termini di innovazione e di disponibilità alla crescita.

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