competenze digitali

Software e disuguaglianza digitale: le colpe della politica, l’importanza dell’open source

In tutte le classifiche digitali, l’Italia è penalizzata dalla mancanza di competenze, a tutti i livelli. Un gap riconducibile all’assenza della politica nell’era pre-interent, quando si dovevano indirizzare scelte fondamentali. Invece, a livello globale, si è lasciato campo libero alle Big tech. Ecco le conseguenze

Pubblicato il 22 Mar 2022

Italo Vignoli

Hi-Tech Marketing & Media Relations

La crisi delle competenze cyber e digital: stato dell’arte e sfide future

L’Italia ha un significativo problema legato alla mancanza di competenze digitali, a tutti i livelli, dagli insegnanti che dovrebbero educare le nuove generazioni a una vita dove il digitale – in tutte le sue declinazioni – ha un ruolo fondamentale, agli adulti che dovrebbero utilizzare le tecnologie digitali sia al lavoro che in casa (possibilmente in linea con quello che viene insegnato), ai politici che avrebbero il ruolo fondamentale di indirizzare la crescita delle competenze digitali in modo da ridurre le potenziali disuguaglianze tra cittadini.

Ma cosa sarebbe successo se, a suo tempo, si fosse data la necessaria attenzione anche ai formati open source?

Le dimensioni del problema

Ogni anno, la Commissione Europea ci ricorda le dimensioni del problema con la pubblicazione dell’indice DESI (Digital Economy and Society Index). Nel 2021, l’Italia è al ventesimo posto fra i 27 Stati membri dell’Unione Europea, con 45,5 punti rispetto a una media di 50,7 punti.

Il commento ai dati evidenzia in modo particolare due lacune:

  • L’Italia è significativamente in ritardo rispetto ad altri paesi dell’UE in termini di capitale umano. Rispetto alla media UE, registra infatti livelli di competenze digitali di base e avanzate molto bassi.
  • La percentuale di utenti online italiani che utilizzano servizi di amministrazione online (e-government) è aumentata dal 30 % nel 2019 al 36 % nel 2020, ma è ancora nettamente al di sotto della media UE. Anche l’uso dei fascicoli sanitari elettronici da parte dei cittadini e degli operatori sanitari rimane disomogeneo su base regionale.

Il capitale umano freno anche dei servizi pubblici digitali

In particolare, è il capitale umano – ovvero, le competenze digitali dei singoli individui – a rimanere significativamente al di sotto della media UE, e ben lontano dalla sufficienza:

“Per quanto riguarda il capitale umano, l’Italia si colloca al venticinquesimo posto su 27 paesi dell’UE. Solo il 42 % delle persone di età compresa tra i 16 e i 74 anni possiede perlomeno competenze digitali di base (56 % nell’UE) e solo il 22 % dispone di competenze digitali superiori a quelle di base (31 % nell’UE). La percentuale di specialisti TIC in Italia è pari al 3,6 % dell’occupazione totale, ancora al di sotto della media UE (4,3 %). Solo l’1,3 % dei laureati italiani sceglie discipline TIC, un dato ben al di sotto della media UE. Le prestazioni dell’Italia sono più vicine alla media UE per quanto riguarda invece gli specialisti TIC di sesso femminile, che rappresentano il 16 % degli specialisti TIC (la media UE è del 19 %). Solo il 15 % delle imprese italiane eroga ai propri dipendenti formazione in materia di TIC, cinque punti percentuali al di sotto della media UE.”

Queste scarse competenze influiscono in modo negativo anche in aree dove la posizione dell’Italia rispetto alla media europea è migliore, come i servizi pubblici digitali, dove ci troviamo al 18° posto con un punteggio di 63,2 contro una media europea del 68,1. Purtroppo, avere i servizi pubblici digitali serve a poco se i cittadini non hanno le competenze necessarie per utilizzarli.

E infatti, il giudizio finale del rapporto DESI 2021 è abbastanza chiaro:

“In conclusione, l’Italia deve far fronte a notevoli carenze nelle competenze digitali di base e avanzate, che rischiano di tradursi nell’esclusione digitale di una parte significativa della popolazione e di limitare la capacità di innovazione delle imprese”.

La colpevole assenza (globale) della politica

Paghiamo, e rischiamo di pagarla molto cara, la colpevole assenza della politica durante tutto il periodo pre-internet – ovvero dal 1981, anno dell’annuncio del PC IBM, fino alla metà degli anni ’90 –, quando alcune delle attuali Big Tech hanno posto le basi della situazione di cartello, o addirittura di monopolio, che ha portato all’attuale configurazione del mercato.

E quando parlo di assenza dei politici, mi riferisco a un’assenza globale, dagli Stati Uniti – che all’epoca erano al centro dell’innovazione tecnologica – fino alla periferia dell’impero. Assenza che in Europa è terminata nei momenti e nei modi più diversi – per una presa di coscienza, un movimento d’opinione, un politico particolarmente sensibile o la rivelazione del fatto che i cittadini europei venivano profilati e controllati da un programma del governo degli Stati Uniti – e in Italia non è mai terminata.

Forse è solo una coincidenza, ma i Paesi dove la politica ha intrapreso una propria strada, indipendente – almeno in parte – da quella delle Big Tech, sono quelli che si trovano nelle prime posizioni dell’indice DESI, e dove la presenza e l’uso degli strumenti digitali è più diffusa a tutti i livelli.

I danni del monopolio delle big tech

L’assenza della politica dal 1981 alla metà degli anni ’90 ha permesso alle Big Tech dell’epoca di creare una situazione di monopolio rispetto alle tecnologie che ha avuto, tra le altre, due conseguenze che stiamo pagando ancora oggi: un’influenza non proporzionale nel mondo dell’istruzione, che dovrebbe garantire un accesso e un’educazione completamente slegate dagli obiettivi commerciali di qualsiasi azienda, e dalle possibilità economiche di qualsiasi nucleo familiare, e livelli di fatturato tali da poter consentire attività di lobby focalizzate sul mantenimento di questa situazione.

Ovviamente, le Big Tech nate da internet, che sono arrivate successivamente, non hanno fatto altro che riprodurre le stesse strategie. E se da un lato questo ha spinto a una gara al ribasso per la fornitura di soluzioni sempre più complete alle scuole di ogni ordine e grado, per formare sugli strumenti che gli stessi individui avrebbero poi utilizzato per lavoro, dall’altro ha spinto a una gara al rialzo negli investimenti in attività di lobby.

Oggi, secondo la ricerca “The Lobby Network: Big Tech’s Web of Influence in the EU“, pubblicato da Corporate Europe Observatory and LobbyControl e.V nel mese di agosto 2021, le Big Tech spendono più di 32 milioni di euro solo a Bruxelles, con più di 140 professionisti a tempo pieno. Il sospetto che questa cifra enorme venga usata solo per difendere gli interessi commerciali presenti e futuri delle aziende – che non coincidono con quelli dei cittadini europei – è più che legittimo.

Mancano dati altrettanto precisi per l’Italia, ma non ci sono motivi per pensare che la situazione sia diversa da quella dell’UE, se non addirittura peggiore, visto che i ministeri sottoscrivono protocolli con le Big Tech, a cui affidano addirittura anche la formazione (che ovviamente non sarà mai una formazione alle tecnologie digitali, ma sempre alle specifiche soluzioni della Big di turno). Con buona pace dei risultati dell’indice DESI, visto che l’utilizzo di uno specifico software non rende automaticamente competenti sulle tecnologie digitali.

Le conseguenze della mancanza di competenze dei decisori

La mancanza di competenze fa sì che siano in molti, tra i decisori, pa non conoscere la differenza tra un “concetto” come il foglio elettronico e un file di Microsoft Excel, un documento in formato standard aperto e un file proprietario, e così via. Il problema è che questo, poi, si traduce nell’attuale incompetenza digitale diffusa.

Faccio un esempio: quando il MIUR ha deciso che dal registro cartaceo si doveva passare al registro elettronico, la prima cosa che avrebbe dovuto fare era quella di definire – e imporre – un formato standard dei dati, in modo tale che fossero le scuole e non i produttori di software a controllare i dati stessi.

Oggi, se una scuola vuole passare da un fornitore di registro elettronico a un altro, deve prima convertire i dati in un formato come il CSV, e poi importarli, con tutti i problemi del caso (chi ha un po’ di esperienza sa che nell’importazione di grandi quantità di dati c’è sempre qualcosa che non funziona come dovrebbe).

Se il formato dei dati fosse standard, basterebbe configurare il nuovo software in modo tale da agire sullo stesso database, che ovviamente è e deve essere proprietà della scuola, e deve rimanere tale senza mai passare dalle mani del produttore del software, per effettuare la migrazione e avere una soluzione funzionante.

L’educazione alle tecnologie digitali dovrebbe essere tale, ovvero agnostica rispetto al produttore delle tecnologie stesse. Un documento di testo, un database, un foglio elettronico, un disegno o una presentazione dovrebbero essere spiegati a prescindere dal software con cui sono stati elaborati, perché le caratteristiche sono sempre le stesse (anche se talvolta cambia il numero e il tipo di funzionalità), e i file dovrebbero essere sempre in formato standard, in modo da essere gestiti anche essi in modo agnostico rispetto al software.

L’importanza del software open source

Ovviamente, essendo un sostenitore del software open source, sono certo che se l’educazione alle tecnologie digitali venisse fatta utilizzando questi programmi ci sarebbero degli evidenti vantaggi rispetto al software proprietario, come la possibilità di utilizzare le applicazioni anche da parte di chi ha possibilità di spesa inferiori alla media (una volta acquisito un PC, anche datato, il costo del software sarebbe pari a zero, a partire dal sistema operativo), e l’adozione di formati aperti e standard (perché il software open source predilige i formati aperti e standard).

In ogni caso, è l’utilizzo di formati aperti e standard a fare la differenza (d’altronde, gli standard sono nati per difendere gli utenti, così come sottolinea ISO: gli standard ISO toccano tutti: dall’uso delle carte di credito a livello globale alla garanzia che i giocattoli non abbiano bordi taglienti, vengono usati ovunque e sono rispettati dalle aziende per garantire che prodotti e servizi siano come desiderano gli utenti), per cui potrebbe andar bene anche la formazione su software proprietario – purché sia chiaro che l’applicazione è solo un esempio e non il riferimento assoluto – basata su formati aperti e standard.

Probabilmente, un’educazione alle tecnologie digitali basata su questi presupposti riuscirebbe a sollecitare la curiosità degli individui più aperti alle tecnologie, e far comprendere agli altri che non esistono solo le Big Tech ma anche altre realtà che magari vale la pena di conoscere. Naturalmente, tutto questo non farebbe piacere ai colossi della tecnologia, ma svilupperebbe quel minimo di conoscenza che oggi purtroppo non esiste, e tiene l’Italia saldamente ancorata al venticinquesimo posto dell’indice DESI.

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