propaganda e disinformazione

Xinjiang: così il “soft power” cinese plasma l’opinione pubblica a suon di (falsi) video sui social

Le tattiche di propaganda e disinformazione dei regimi autoritari, tra cui la Cina, evolvono in forme sempre più sofisticate. Al centro di questi sforzi globali di repressione e controllo dell’informazione ci sono sempre i social: Twitter, Facebook, YouTube, TikTok. Un esempio di come funziona il soft power di Pechino

Pubblicato il 23 Lug 2021

Barbara Calderini

Legal Specialist - Data Protection Officer

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Cresce di intensità il “soft power persuasivo” della propaganda cinese finalizzata a controbattere le accuse per crimini contro l’umanità provenienti da una parte della comunità internazionale, in particolare per plasmare la percezione internazionale di come vengono trattate le minoranze religiose ed etniche nello Xinjiang.

Non stupisce, pertanto, il contenuto della recente inchiesta giornalistica del New York Times e Pro Publica relativa alla campagna di disinformazione orchestrata dal regime cinese: oltre 3000 videoclip, diffusi su YouTube e Twitter, che riprendono membri di minoranze etniche – uiguri nello specifico- impegnati a negare la veridicità delle notizie sulle politiche repressive attuate dal governo contro le loro comunità nello Xinjiang, in Cina, e ad accusare severamente Mike Pompeo, ex segretario di Stato americano durante la presidenza di Trump, “colpevole” di aver utilizzato la parola “genocidio” per identificare le politiche di sicurezza in atto nella regione.

La Cina e i social network, un caso d’uso “geopolitico”?

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I video diffusi su YouTube e successivamente rimabalzati su Twitter- da quello del proprietario di un piccolo negozio nella Cina occidentale, a quello dell’operaio di un’azienda tessile, della pensionata di 80 anni, a quello del tassista – riportano elementi comunicativi, frasi e strutture linguistiche “curiosamente” ricorrenti, al punto da far apparire piuttosto “evidente” il coordinamento strategico alla base della condivisione degli stessi.

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Molti gli indizi rilevati dal NYT e da Pro Publica: a cominciare dalla presenza dei sottotitoli in inglese aggiunti ad ogni clip diffusa su YouTube e Twitter, dopo che i medesimi video erano già apparsi per la prima volta in lingua cinese o uiguro su un’app chiamata Pomegranate Cloud, di proprietà del quotidiano ufficiale del Partito Comunista, People’s Daily, fino alla comunanza dello script di base di buona parte dei video. Il soggetto ripreso dopo l’iniziale presentazione si dilunga in elogi rivolti alla sua vita e a quanto questa sia felice e prospera. Le conclusioni ricorrenti sono anch’esse comuni a molti dei video esaminati e tutte incentrate sulla negazione di politiche repressive nello Xinjiang.

“Sono un uiguro nato e cresciuto nello Xinjiang.” è una frase ripetuta in almeno 280 degli oltre 3.000 video.

Le affermazioni di Mike Pompeo costituiscono l’incipit di oltre 1.000 video: “Su Internet, ho visto alcune osservazioni inappropriate di Pompeo sui diritti umani degli uiguri dello Xinjiang”.

Allo stesso modo l’espressione “Stai dicendo un’assurdità totale”, e varianti simili, viene pronunciata in più di 600 video.

Non ultimo, l’abile e sofisticato tam tam mediatico messo in atto con la complicità dei diplomatici e degli influencer cinesi, divenuti ormai interpreti esperti delle politiche di moderazione dei contenuti stabilite dalle piattaforme occidentali che, dal canto loro, non pare si facciano particolari scrupoli a mostrare il fianco alle mire di controllo e disinformazione del governo cinese e anzi proprio in virtù di questo rivestono un ruolo cruciale particolarmente incidente.

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Il riferimento specifico è a oltre 300 account Twitter, registrati solo negli ultimi mesi, caratterizzati da scarso numero di followers (molti meno di cinque), ma dediti alla fervente creazione di contenuti nella fascia oraria tra le 10 e le 20, ora di Pechino (il sistema utilizzato è stato quello di postare collegamenti a video su YouTube, oppure di ritwittarli dopo che erano stati pubblicati da altri account), contenenti messaggi più o meno identici, tutti corredati da una stringa casuale di caratteri speciali, senza apparente significato, ma utili per aggirare i filtri automatici anti-spam: quattro lettere romane, cinque caratteri cinesi, o tre simboli come percentuale o parentesi.

E, infatti, sia YouTube che Twitter non manifestano particolare solerzia nell’etichettare gli account e i post ad essi associati come propaganda di governo: se YouTube ha affermato che le clip non risultavano aver violato le linee guida della sua community, Twitter ha invece rifiutato di commentare i video, celandosi dietro al mero rinvio alla pubblicazione dei dati sulle campagne di Stato.

Tanta indifferenza è servita a far si che, a distanza di pochi mesi, un’altra serie di video clip dello stesso stile fosse distribuita, su YouTube e Tik Tok, ma questa volta prendendo di mira noti marchi di abbigliamento internazionali invisi al governo di Pechino per aver preso posizione sui possibili abusi perpetrati nelle industrie tessili dello Xinjiang.

Non va meglio neppure per giornalisti e attivisti influenti come Rebiya Kadeer, in esilio negli Stati Uniti dal 2005 dopo essere stata accusata dal governo cinese di favoreggiamento al terrorismo, costretta a subire forti pressioni emotive da quei video propagandistici che riprendono i suoi familiari (due delle nipoti della signora Kadeer) mentre pronunciano frasi di denuncia contro Pompeo e rinnegano severamente l’operato della stessa “nonna attivista”.

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A tal riguardo sono significative le recenti performance video dell’influencer contadina Li Ziqi (29 anni, più di 8 milioni di followers solo su YouTube, nominata nel 2019 icona della promozione della cultura e delle bellezze della Cina dalla rivista People’s Choice Award), intenta a diffondere, sempre su YouTube, le meraviglie bucoliche della campagna di Sichuan e il musical intitolato “The Wings of Songs”: più che capolavori artistici, direi piuttosto “ dei classici della propaganda del Partito Comunista Cinese al potere”.

Il ruolo delle piattaforme social in chiave propagandistica e di intelligence

La Cina impedisce ai normali utenti di accedere a Twitter. YouTube è limitato per gli utenti cinesi dal marzo 2009. Tuttavia entrambi gli staff di Twitter e TouTube si sono guardati bene dal contrastare con fermezza la plateale disinformazione diffusa da Pechino tramite i loro canali social, mostrando in tal modo il fianco alla propaganda di stato e segnando un punto a vantaggio delle mire egemoniche del partito comunista, oltre a rendere evidente una certa incapacità nel saper gestire le tecniche di disinformazione coordinata dei regimi autoritari.

Prima delle inchieste di ProPublica e del NYT, il report pubblicato dal programma di ricerca sulla disinformazione dell’ASPI International Cyber Policy Centre, aveva già offerto una fotografia estremamente dettagliata di come il Partito Comunista Cinese si stesse servendo sia di utenti proxy che di siti alternativi di notizie sul web, oltre che di una serie di attori online pro-PCC, per mettere in piedi una regia coordinata volta a plasmare e influenzare le percezioni internazionali su quanto stesse succedendo nello Xinjiang.

Emerge dalla lettura del documento di analisi come la Xinjiang Audio-Video Publishing House (un’organizzazione editoriale di proprietà di un ufficio del governo regionale) affiliata al dipartimento del lavoro del PCC, avesse finanziato una società di marketing per creare video in cui gli uiguri potessero sostenere le politiche del governo cinese nello Xinjiang. Gli stessi video destinati ad essere diffusi e ricondivisi su Twitter e YouTube da una rete di account fake, influencer pro-PCC, diplomatici e profili social dei media statali.

Altrettanto vale per lo studioChina’s Public Diplomacy Operations” condotto dal Programme On Democracy & Technology che dimostra come la Repubblica Popolare Cinese utilizzi le piattaforme social media globali per plasmare l’opinione pubblica internazionale: l’analisi si sostanzia in una sorta di audit dettagliato durato sette mesi, da giugno 2020 a febbraio 2021, che investiga sull’attività praticata sui social media dai diplomatici e degli organi di stampa cinesi.

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Alle medesime conclusioni era, peraltro, giunto anche lo studio dei ricercatori dell’Università di Harvard, Gary King, Jennifer Pan e Margaret E. Roberts che, già nel 2017, evidenziavano come la strategia di controllo dell’informazione preferita da Pechino fosse basata non solo sulla censura, bensì sulla distrazione mediante esaltazioni patriottiche, commenti positivi sulla storia rivoluzionaria del partito comunista e su altri “simboli” della bontà del regime da diffondere e pubblicare sui social network più popolari, per soli 50 centesimi a messaggio.

Lo studio del 2019 intitolato “Beyond Hybrid War: How China Exploits Social Media to Sway American Opinion” costituisce una buona base di approfondimento per comprendere le tattiche cinesi attuate nelle campagne di influenza via social, definite “influence operations” ovvero, come precisa il rapporto, “the collection of tactical information about an adversary as well as the dissemination of propaganda in pursuit of a competitive advantage over an opponent”. Tecniche tanto più efficaci quanto maggiore si rivela l’incapacità degli utenti di giudicare autonomamente la veridicità delle notizie veicolate.

E dunque, anziché proteggere la già flebile libertà di espressione delle minoranze etniche dello Xinjiang, le piattaforme social occidentali, a maggior ragione data la loro portata globale, sembrerebbero destinate più che altro ad agevolare la disinformazione e la censura delle testimonianze sugli uiguri scomparsi in Cina: come nel caso della ONG Atajurt Kazakh Human Rights che ha visto il suo canale YouTube completamente bloccato il 15 giugno scorso, successivamente riammesso e poi dinuovo limitato. Ed è stato sin troppo facile per la piattaforma americana giustificare il blocco del canale e l’oscuramento dei corrispondenti video con la violazione delle policy interne sulla tutela delle informazioni di identificazione personale: informazioni personali e documenti di identificazione diffuse dai familiari delle persone imprigionate nei campi di internamento cinesi proprio per sostenere la veridicità dei relativi video, osteggiati dai sostenitori del Partito Comunista Cinese.

“Abbiamo politiche rigorose che vietano le molestie su YouTube, incluso il doxing”, riferisce un rappresentante di YouTube al MIT Technology Review, aggiungendo in seguito: “Accogliamo con favore gli sforzi responsabili per documentare importanti casi di diritti umani in tutto il mondo. Abbiamo anche politiche che non consentono ai canali di pubblicare informazioni di identificazione personale , al fine di prevenire molestie”.

Ad ulteriore dimostrazione della familiarità della Cina con certe dinamiche comunicative può essere utile ricordare come sempre ProPublica e il New York Times rivelarono come il governo cinese avesse reagito alla morte del medico-eroe di Wuhan, Li Wenliang, attivando prontamente la macchina della propaganda sul coronavirus, particolarmente efficace sui social da Twitter a YouTube, servendosi di una rete di account internazionali rubati, bot, fake news e censura.

Le prove delle politiche di repressione nello Xinjiang

Come noto la popolazione uigura è una minoranza etnica musulmana (uno dei cinquantasei gruppi etnici riconosciuti dal Partito Comunista Cinese), presente nella regione cinese dello Xinjiang.

Lo Xinjiang a sua volta è una regione autonoma della Cina nordoccidentale tra le più grandi della Cina disposta tra Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan, India, la regione autonoma del Tibet e le province del Qinghai e del Gansu, che il governo centrale di Pechino da decenni reputa uno dei maggiori pericoli per l’unità nazionale cinese.

E non è una novità che il controllo dello Xinjiang, almeno dal momento del crollo dell’Unione Sovietica, all’istituzione delle repubbliche indipendenti di Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan lungo i confini della regione, rappresenti per il governo cinese una delle priorità strategiche da perseguire al fine di “estirpare” le tendenze secessioniste del gruppo etnico e l’ideale “panturco” degli esponenti uiguri. Ciò a maggior ragione dopo gli attentati di New York dell’11 settembre 2001, a seguito dei quali molti gruppi anti-statali, tra cui gli uiguri, vennero fatti rientrare nello scenario della “guerra globale al terrorismo” e , dunque, ritenuti veri e propri “gruppi terroristici[1]”, la cui minaccia per il benessere della società cinese era tale da doverne giustificarne il discredito, la repressione e anche la rieducazione: secondo le Nazioni Unite, dei 12,5 milioni di uiguri in Cina sarebbero un milione quelli internati in un totale di 380 centri di “rieducazione”.

Un’inchiesta del 2020 del ricercatore Adrian Zenz per l’Associated Press avrebbe mostrato come il governo cinese stia conducendo nello Xinjiang un programma di ingegneria sociale teso al controllo della crescita della popolazione uigura, attraverso sterilizzazioni, aborti forzati e l’imposizione dell’uso di contraccettivi quali le spirali intrauterine. Circostanze confermate anche dal report The Uyghur Genocide” del Newlines Institute, condotto da esperti internazionali che hanno potuto esaminare una serie cospicua di prove documentali, comunicazioni trapelate dallo Stato cinese, testimonianze oculari, metodi di ricerca open source come l’analisi di immagini satellitari pubbliche, informazioni reperibili in rete e altro.

Non ultimo, il rapporto dell’Università di Nankai, diffuso accidentalmente online e prontamente ripreso dai media internazionali (il rapporto è stato rimosso a metà 2020 anche se una copia sembrerebbe essere stata archiviata dal ricercatore tedesco Adrian Zenz, uno dei massimi studiosi mondiali sulle politiche del governo della Repubblica popolare cinese nelle regioni occidentali del Tibet e dello Xinjiang), ha reso ulteriormente chiara l’esistenza dei “campi di internamento e rieducazione” destinati ai membri delle minoranze islamiche nella regione uigura, ma anche kazaka e kirghisa (almeno cinque principali intorno a Hotan) e gli intenti di ingegneria del controllo sociale e della campagna di “sinizzazione” lanciata con particolare vigore dal governo di Xi Jinping.

Eppure, malgrado le numerose evidenze documentali e le testimonianze dei cittadini kazaki residenti nello Xinjiang sulle politiche di repressione culturale e religiosa attuate fin dal 1949 ad oggi – peraltro aggravatesi dopo il lancio della Belt & Road Initiative (lo Xinjiang è infatti attraversato da tre dei cinque corridoi economici che caratterizzano la componente infrastrutturale dell’ambizioso progetto cinese) – YouTube ha inteso “prendere posizione” e rimuovere una parte degli account citati nel reportHow China Spreads Its Propaganda Version of Life for Uyghurs”solo dopo la pubblicazione dell’inchiesta di ProPubblica e del NYT, ammettendo per alcuni di essi l’intento propagandistico “coordinato”, per altri la violazione delle politiche della piattaforma contro lo spam e le pratiche ingannevoli.

Ed è questa una reazione piuttosto tiepida e tardiva rispetto agli effetti immediati importanti veicolati dalle tecniche della propaganda cinese tese alla trasmissione di valori politici e sociali capaci di influenzare il pensiero, le emozioni, e il comportamento delle comunità. Ed è questo un lavoro psicologico complesso che la Cina ha dimostrato di padroneggiare da tempo pemettendo al governo di “toccare i punti giusti” e di usare a regola d’arte i sistemi di comunicazione digitale propri del XXI secolo.

Conclusioni

L’infosfera è compromessa, inquinata, inaffidabile, l’informazione è troppo spesso “cattiva”, altre volte è sorvegliata da spyware di Stato sempre più invasivi, forieri di vere e proprie persecuzioni giudiziarie, campagne di diffamazione e disinformazione a suon di reti di troll e bot su social media. L’opinione pubblica globale, ormai assuefatta al concetto di social network come strumento di rappresentazione e interpretazione dei problemi della società, ignora o subisce le strumentalizzazioni economiche e politiche e i rischi che da tanto derivano in termini di democrazia, libertà e universalità dei diritti umani.

Manca completamente l’affermazione del concetto di “civiltà digitale” ovvero quella bussola che sta ad indicare non tanto una direzione ma una posizione che punta “al diritto alla conoscenza”.

In questo contesto, sfruttare abilmente le maglie larghe delle normative sul copyright e le policy di moderazione dei contenuti dei social media per “legittimare” o semplicemente favorire pratiche discutibili di censura politica e disinformazione rappresenta un modello consolidato, non solo cinese, bensì tipico dei regimi dispotici e autoritari: tanto è già avvenuto per la legge statunitense sul copyright utilizzata per abbattere i critici di Correa in Ecuador ,come riporta il reportage realizzato da The Committee to Protect Journalists, la nota organizzazione indipendente in difesa della libertà di stampa, composta da circa 40 esperti in tutto il mondo con sede a New York City. O anche in Vietnam dove, tra l’indifferenza, l’inerzia e l’impotenza di Facebook, The Intercept ha reso noto come alcuni gruppi privati tra cui E47 collaborino con l’esercito vietnamita cospirando per far sparire dal social i post dei dissidenti e coordinando vere e proprie truppe di “pseudo-segnalatori” addestrati a segnalare la violazione delle regole sui contenuti applicate da Facebook di quei contenuti sgraditi all’elitè al potere, come se si trattasse di incitamento all’odio, alla violenza o video cruenti. Entrambi i report giornalistici meritano un’attenta lettura.

Nel frattempo, mentre da una parte le reazioni della comunità internazionale sulla questione dei diritti umani nello Xinjiang e di altri crimini umanitari nel mondo rimangono piuttosto deboli e poco coordinate, rivelando ben più di una frattura[2] a seconda degli interessi economici con Pechino, dall’altra, le tattiche di propaganda e disinformazione dei regimi autoritari, tra cui la Cina, evolvono in forme sempre più sofisticate, e al centro di questi sforzi globali di repressione e controllo dell’informazione ci sono sempre i social media: Twitter, Facebook, YouTube, oltre naturalmente a TikTok.

Luoghi virtuali di condivisione in cui l’utilizzo di contenuti di terze parti rivela un potenziale di amplificazione ed effetti di rete talmente appetibili da porsi in perfetta sinergia con l’operato interno dei media governativi, strategicamente coordinati per orientare il discorso pubblico e la governance internazionale, a scapito dei diritti e delle libertà fondamentali universali.

Note

  1. Crf. https://www.hrichina.org/sites/default/files/PDFs/CRF.1.2004/b1_Criminalizing1.2004.pdf dove è possibile osservare come tutti i gruppi associati a movimenti di tipo separatista e nazionalista, siano essi ritenuti violenti ma anche nel caso di quelli pacifici, vengano catalogati alla stregua di “gruppi terroristici”.
  2. Denunciano paesi come Australia, Canada, Francia, Germania, Giappone e Regno Unito, Usa ed Europa mentre non prendono una posizione chiara Arabia Saudita, Nigeria, Egitto, Russia, Corea del Nord, Filippine, Pakistan, Iran, Siria e Palestina

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