automazione

Il made in Italy con i robot: è il futuro degli “artigiani digitali”

L’avvento dei robot apre foschi scenari per l’occupazione? Per molti versi l’assunto può essere vero soprattutto per le mansioni “routinarie”, come è vero, però, che nessun robot potrà mai sostituire l’uomo in quanto a intuito e design. Ed è per questo che si apre una nuova era per gli artigiani “digitali”

Pubblicato il 25 Lug 2017

Giuseppe Vaciago

Partner 42 Law Firm e Docente di Data Ethics e Data Protection al Politecnico di Torino

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È indubbio che l’intelligenza artificiale stravolgerà lo scenario attuale del lavoro “routinario”, ma non sono certo che sarà in grado di sostituire alcune caratteristiche dell’intelligenza che più che mai in Italia sono presenti: l’intuito e il design. Andiamo verso l’alba di nuovi “artigiani digitali”.

Vediamo perché.

Lo scenario

All’inizio di quest’anno il Rapporto McKinsey sull’impatto dell’automazione nel mondo calcola che solo negli Stati Uniti il 51% delle attività lavorative (in particolare quelle che hanno a che fare con mansioni puramente fisiche o di raccolta e analisi dati) e che valgono circa 2,6 trilioni di dollari, potrebbero essere sostituite – anche se non completamente – da mano non-umana.

L’IBA (International Bar Association) in suo recente studio sull’impatto dell’Intelligenza artificiale ha confermato l’analisi della OECD secondo cui, oltre ai classici lavori manuali, anche le “high routine occupation” ossia i classici “lavori di sportello” (dall’impiegato di banca, alla cassiera del supermercato fino al cancelliere in un tribunale) hanno una probabilità di scomparire nei prossimi 20 anni pari all’89% (NDR dovete ammettere che non si può non rimanere affascinati dalla precisione di queste percentuali).

Sempre secondo l’IBA anche i liberi professionisti considerati “intoccabili” fino a qualche tempo fa (avvocati, notai, medici…), sono destinati ad essere sostituti dall’intelligenza artificiale. Il progetto ROSS impiegato inizialmente nella prestigiosa law firm Baker & Hostetler e ora utilizzato da molte altre law firm statunitensi promette di sostituire il lavoro di ricerca legale (solitamente affidato ai giovani avvocati) con una performance in termini di risultato che consentirebbe un guadagno immediato fin dal primo anno di utilizzo. Siamo chiaramente di fronte a una rivoluzione copernicana del diritto, dove la scelta di affidarsi ad algoritmi per migliorare l’efficienza della professione legale può avere conseguenze imprevedibili. Da lì il passaggio a sostituire anche i giudici è breve: alcuni ricercatori della University College London attraverso un sistema di Machine Learning e di NLP (Natural Language Processing) ha fatto analizzare e previsto, con un’accuratezza del 79%, le decisioni dell’ECHR (Corte Europea dei Diritti Umani).

Lo stesso tipo di algoritmi si potrebbero applicare al settore sanitario o a quello finanziario generando una potenziale (e in Italia ulteriore) riduzione dell’accesso al mondo del lavoro da parte dei giovani. Tuttavia, Antonio Casilli sostiene che “l’Intelligenza Artificiale non farà perdere posti di lavoro perché la robotizzazione non è un processo lineare ma una scelta manageriale: è chi decide in azienda che sceglie di rimpiazzare il lavoratore, non il robot che non può fare scelte”. Inoltre, in una sua presentazione estremamente interessante, ci racconta di un mercato del lavoro poco noto agli Europei: quello dei “cliccatori” professionisti. Servizi come Amazon Mechanical Turk o Zhubajiie in Cina permettono, con una retribuzione estremamente poco appetibile per i lavoratori Europei, di effettuare lavori apparentemente superflui di data entry (ad esempio distinguere un colore dall’altro o una immagine dall’altra) per poter educare l’Intelligenza Artificiale a ragionare come un umano. Questo fatto è dovuto, in parole semplici, alla superiorità del cervello umano su quello formato da schede di silicio, per tutti gli aspetti che comportano discernimento (di immagini, di colori, di sapori, di odori, di rumori) immediatamente connessi all’azione. In definitiva, il luogo comune della macchina che sostituisce l’uomo non costituirebbe più quel rischio paventato da Ricardo e dai luddisti. Piuttosto la macchina “userebbe l’uomo”, asservendone alcune capacità superiori, come a suo tempo l’uomo aveva fatto con il cavallo.

La nostra storia ci ha permesso di crescere in un ambiente dove il pensiero alternativo è l’unica forma di sopravvivenza e la qualità della vita in termini di “food, art e fashion” ci ha permesso di essere un modello a livello internazionale. È ragionevole pensare che, perlomeno nel prossimo futuro, l’intelligenza artificiale non sia in grado di sostituire queste caratteristiche.

Se questo assunto fosse vero, i nuovi mestieri nell’era del machine learning e degli oggetti intelligenti saranno svolti da lavoratori in grado di sfruttare le infinite potenzialità dell’algoritmo per migliorare la qualità della vita della persone.

Mi immagino, ad esempio, una nuova generazione di chef che grazie all’aiuto di Flippy (un robot già sul mercato in grado, per ora, di cucinare ottimi hamburger) possano avere la possibilità di aprire nuove frontiere dell’arte culinaria o di noti chirurghi che, grazie all’aiuto di Raven (un robot chirurgo comandabile a distanza), possano fare un’operazione chirurgica estremamente complessa sia negli Stati Uniti che nel Bangladesh nell’arco della stessa giornata.

Gli artigiani digitali

Ma, oltre a queste nuove prospettive per i liberi professionisti del futuro, ritengo che si debba ragionare – soprattutto in Italia – su un’altra categoria: gli “artigiani digitali”.

L’artigiano in Italia ha vissuto un momento di crisi negli ultimi anni dettato principalmente dall’abbattimento dei costi (il falegname sotto casa sarà sempre fuori mercato rispetto ad IKEA) e dalla mancanze delle risorse umane (nessuno ha più voglia di imparare un mestiere manuale e la formazione professionale in Italia risente di un’organizzazione adatta esclusivamente al mondo precedente alla rivoluzione digitale).

Oggi la robotica può sopperire a questi due gap e permettere all’artigiano di concentrarsi su quello che gli riesce meglio: qualità e personalizzazione nel servizio.

Gli artigiani digitali porterebbero con sé una nuova esigenza: quella di colmare un “digital divide” sempre più marcato. Essendo sempre più vincolati allo strumento digitale essi richiederebbero inevitabilmente di essere formati all’utilizzo di tali strumenti.
Oggi un utente medio di uno smartphone sfrutta in minima parte le sue effettive potenzialità.

L’IoT ha lo stesso tipo di problema (basti pensare all’utilizzo che viene fatto delle “smart-tv”) e ho la netta sensazione che la robotica e l’intelligenza artificiale non faranno che aumentare questo divario tra potenzialità del device e reale utilizzo dello stesso. Un altro mestiere del futuro potrebbe quindi essere quello del “personal trainer digitale” che permetterà di conoscere e sfruttare appieno tutte le funzionalità di una determinata tecnologia.

Tutto questo, con un’attenzione particolare alla security, perché se è noto il paradigma “security vs usability”, lo è altrettanto quello della “security vs complexity”. Pertanto, più lo strumento è complesso, più i rischi in termini di sicurezza informatica aumentano. E con oggetti come il citato Raven, non possiamo davvero più ritenere la sicurezza informatica una noiosa “paranoia da nerd”.

Sto sognando? Forse si, ma qualche volta sognare, non è poi così sbagliato: consente di scommettere sul domani

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