Per oltre 45 anni ho operato in ricerca ed innovazione. Questo è più che sufficiente a classificarmi tra le persone che non dovrebbero parlare di Innovazione, in quanto troppo influenzate da esperienze che se pur hanno insegnato qualcosa non hanno insegnato a vincere la sfida della innovazione.
Ne sono conscio e quindi non intendo proporre ricette, ma permettetemi di guardare al passato e lasciare a voi giudicare se quanto viene oggi prospettato possa portare ad un successo che ci è sfuggito di mano negli ultimi 40 anni.
In effetti, ad inizio anni 70 l’Europa, e l’Italia era in prima linea, non aveva nulla da invidiare in termini di innovazione agli US, anzi! Il Programma 101 di Olivetti, il mio primo computer, era un antesignano del personal computer (peccato per il costo e l’assenza di applicazioni che ne restringevano l’utilizzo a poche persone), le aziende italiane ed europee competevano sul mercato mondiale portando innovazione. A metà anni 70 la situazione iniziava a presentare delle crepe. Gli US stavano prendendo il sopravvento, probabilmente anche in seguito alla innovazione derivata del programma lunare che stava portando ricadute nell’elettronica, nell’elaborazione dei dati, nei materiali e soprattutto nel coinvolgimento di molte università spingendole a fare ricerca che potesse portare ad applicazioni in tempi brevi.
La risposta dell’Europa fu il lancio di progetti di ricerca comunitari per stimolare la collaborazione tra i centri di ricerca europei (programma ESPRIT), a quel tempo sostanzialmente inglobati nelle grandi aziende europee.
Perché l’Europa perde colpi nell’innovazione
A 30 anni di distanza e dopo centinaia di miliardi di investimenti, nel 2005 il Parlamento Europeo si pose la domanda di quale fosse il motivo per cui non solo l’Europa non aveva colmato il divario tra la sua capacità innovativa e quella degli USA ma nel frattempo aree come il Giappone e la Corea del sud avessero sopravanzato l’Europa in termini di capacità innovativa e all’orizzonte si intravvedessero l’avanzata di Cina e India (oggi la Cina ci è passata davanti…).
La risposta fu che l’Europa era al pari delle altre aree mondiali più avanzate per quanto riguardava la ricerca e i risultati che questa produceva mentre era indietro nella capacità di convertire questi risultati in innovazione.
Un equivoco che spesso è presente quando si parla del legame tra ricerca (generare conoscenza) e innovazione (convertire la conoscenza in una offerta vincente sul mercato) è che dando soldi ad un ricercatore si produce conoscenza (know how) e dando conoscenza ad un innovatore questo produce soldi. L’equivoco sta nel pensare che questo sia un circolo virtuoso: in realtà la conoscenza che serve all’innovatore per produrre innovazione/soldi non è quella generata dal ricercatore. O meglio:
- uno -esiste un notevole lasso temporale in cui la conoscenza prodotta da un ricercatore non è utilizzabile da un innovatore. Perché? Perché in genere quanto esce dalla ricerca non funziona (al livello che è richiesto da un prodotto, diverso dal fare una demo…) e costa troppo (il costo della tecnologia scende, spesso rapidamente, con il passare degli anni).
- Due- per fare innovazione occorre molta conoscenza diversa da quella prodotta dalla ricerca.
Questo equivoco è alla base di iniziative recenti della EU che spingono per la conversione tout court in innovazione di risultati di ricerca, con risultati deludenti.
Un altro fattore che rende difficile innovare in Europa è che si punta sulle grandi industrie, sollecitando la loro partecipazione ai programmi quadro, per fare innovazione. Negli ultimi 20 anni, e in alcuni settori anche 30, però l’innovazione non viene creata all’interno dei grandi gruppi industriali, bensì da piccole realtà che o crescono (in pochi casi) o vengono inglobate dalle grandi aziende. Queste ultime comprano innovazione, non la sviluppano.
Pensiamo alla enorme quantità di innovazioni nel settore telecomunicazioni. Abbiamo avuto una vera e propria rivoluzione in termini di servizi negli ultimi 10 anni. Quanti dei servizi che oggi utilizzate, ogni giorno, sono stati prodotti da una azienda di telecomunicazioni? Un numero molto piccolo, vicino a zero.
In queste ultime decadi abbiamo visto una enorme diminuzione dei costi di produzione, commercializzazione e gestione dei servizi: questo ha reso possibile a piccolissimi imprenditori, inclusi ragazzini, di entrare nel mercato a centinaia di migliaia (e anche di scomparire dal mercato altrettanto rapidamente). Questo enorme incremento dell’offerta si autoalimenta, portando ad una evoluzione continua, una rapidità che taglia fuori le grandi imprese che hanno costi di base elevati e non sono in grado di aggredire mercati a bassi ritorni (per restare nell’esempio, una app può generare qualche centinaio di migliaio di euro, una cifra enorme per un piccolissimo imprenditore, un introito risibile che non paga neppure i costi per una grande azienda).
Il ruolo degli Stati
Alle grandi imprese, agli stati, rimane il compito di creare le “Infrastrutture”, hard come la fibra ottica, e soft come il contesto regolatorio. Aspetti fondamentali se si vuole che l’innovazione arrivi al mercato locale. Ma non è quello che serve per creare innovazione (peraltro, avere un contesto che crea innovazione ma che non permette di farla arrivare al mercato –per mancanza delle infrastrutture necessarie- porta l’innovazione altrove).
Ricordo circa 5 anni fa un insieme di analisi sul fenomeno Silicon Valley che mettevano in luce come non fosse semplice, anzi alcuni sostenevano che fosse impossibile, replicare quel fenomeno in altre aree. Quello che è difficile da replicare è il mix, la cultura che permea la Silicon Valley e questa non è costruibile a comando.
Nella mia frequentazione di studenti post doc in US e in Europa continuo a vedere una notevole differenza di approccio, che ha anche radici culturali: quando chiedo ad uno studente di una università americana cosa sta facendo mi sento spiegare come con quel progetto riuscirà a far soldi, a vendere, come il suo risultato sia migliore di quanto esiste perché costa meno… Solo alla fine si ricorda di spiegarmi come è riuscito a farlo. Invece, quando parlo con un nostro studente questo si entusiasma nel raccontarmi quanto sia complicato quello che fa, le meraviglie che sarebbe in grado di fare… Quando gli chiedo quando pensa di venderlo mi guarda con stupore, se gli chiedo quanto costa e quanto pensa che un utilizzatore sarebbe disponibile a pagare mi dice che non ci ha pensato.
Ovviamente ci sono delle eccezioni, ma il problema è proprio qui: quello che negli US è la norma da noi è l’eccezione.
Per diverso tempo ho pensato che il problema fosse nella nostra università, basata molto più sulla teoria che sulla pratica. Ricordo al MIT un ragazzo che costruiva una impalcatura su di un bigliardino. Mi fermai incuriosito ad osservarlo e poi gli chiesi cosa stesse facendo. La risposta: ho seguito un corso di matematica sui frattali e come per ogni corso che seguiamo dobbiamo portare all’esame una applicazione pratica di uso di quello che abbiamo imparato. Ora sto montando una impalcatura per reggere una telecamera con cui filmerò la pallina e applicherò la teoria dei frattali per studiarne i movimenti.
Negli US si studia per applicare, da noi, in genere, l’applicazione non è rilevante.
Il ruolo della Scuola
In realtà credo che il problema, specie in Italia, abbia radici nella scuola superiore. E’ da questa che occorre partire per creare una cultura di “innovazione” e stimolare i giovani a diventare innovatori/imprenditori. I valori in molte delle superiori che conosco in Italia sono legati ai “classici” alla “conservazione”.
Concordo con la recente dichiarazione di Macron che l’Europa abbia una sua via alla Intelligenza Artificiale, basata sul modello europeo che possa –cito testualmente- asservire bisogni collettivi articolandoli con valori universali. Tradotto: sviluppare applicazioni effettivamente utili per IA che tengano in conto i nostri valori quali privacy, valore della persona….
Tuttavia questo riguarda il risultato finale. Il nostro problema è a monte, come fare a raggiungere quel risultato. Abbiamo bisogno di persone che capiscano che i valori del mercato sono diversi da quelli di un ricercatore, che è egualmente bello sviluppare qualcosa che costi poco e funzioni bene, in modo che possa essere acquistato, quanto sviluppare dimostrazioni fantastiche in un laboratorio. E che la differenza tra le due è che la prima ha un impatto, non solo perché cambia il mondo attraverso l’utilizzo ma anche perché avendo impatto stimola ulteriori investimenti e ulteriori sviluppi innescando una spirale positiva.
Queste persone vanno formate e dobbiamo iniziare dalla scuola, e dagli insegnanti. Ovviamente stimolare la domanda indirizzando la pubblica amministrazione, rendere disponibili capitali di rischio industriale, fare politiche fiscali per stimolare l’adozione di innovazioni nelle imprese, fare evolvere la regolamentazione guardando al futuro e non al passato … tutto questo è importantissimo e va fatto subito. Se non si interviene a livello culturale, e scolastico, però credo non basti, come gli ultimi 40 anni hanno dimostrato.
Nel mondo odierno operare sul versante delle infrastrutture, con il coinvolgimento delle istituzioni e di grandi aziende che possono mettere i grandi capitali e risorse necessarie, e contemporaneamente sul versante dei giovani che creino innovazione.