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Lo streaming fa bene alla musica italiana, ecco perché



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La temuta standardizzazione imposta dalle piattaforme di streaming musicale non c’è stata e nemmeno l’omologazione della produzione e dei consumi, in danno dei mercati minori. Anzi, sembrerebbe si sia avuto l’effetto opposto, anche in Italia

Pubblicato il 8 giu 2023

Enzo Mazza

CEO F.I.M.I. (Federazione industria musicale italiana)



audiolibri- podcast- musica digitale
Photo by Firmbee.com on Unsplash

Negli scorsi giorni è stata pubblicata una ricerca realizzata da Will Page, ex Chief Economist di Spotify e oggi visiting professor alla London School of Economics e di Chris Dalla Riva, artista musicale ed economista.

Glocalizzazione della musica: lo studio

Lo studio, intitolato “Glocalization of music streaming within and across Europe” punta ad analizzare l’incredibile sviluppo che ha avuto il repertorio locale di alcuni Stati membri dell’Unione negli anni dello streaming.
Tra i paesi oggetto dello studio vi è ovviamente l’Italia, dove la crescita è stata importante e confermata ormai da diversi anni anche nei dati di FIMI.
L’analisi dei due studiosi ha preso spunto dal mercato britannico, dove negli ultimi anni si è assistito ad un forte incremento del repertorio inglese, con un deciso superamento del repertorio in lingua inglese ma di provenienza USA.

I mercati locali crescono grazie alle piattaforme globali

Queste osservazioni hanno spinto a porre una domanda pertinente: l’ubiquità dello streaming ha aumentato o diminuito la minaccia dell’omogeneizzazione? Dato che i consumatori accedono alla loro musica tramite piattaforme globali (non rivenditori locali), questo ha sostenuto od ostacola lo sviluppo dei mercati locali?
L’analisi ha coperto dieci mercati europei ed ha rilevato un fenomeno che i ricercatori hanno definito “glocalizzazione”, nel quale la maggior parte dei paesi analizzati ha registrato un aumento assoluto e relativo della quota nazionale dei dieci migliori brani e artisti nel 2022.
L’impatto della “glocalizzazione” è tanto importante per le industrie creative dei paesi quanto lo è per la politica, che spesso ha lamentato, anche in Italia, un dominio di repertorio internazionale, tanto da rilanciare, talvolta, una proposta di quote radio.
Dallo studio emerge che contrariamente a quanto immaginato come effetto perverso della globalizzazione in cui i grandi mercati spesso dominano i piccoli, molti mercati locali crescono nella loro identità domestica.

Com’è cresciuta in dieci anni la presenza degli artisti italiani in classifica album

In Italia, prima con l’apparire del digital download e poi con lo streaming, molti osservatori immaginavano un predominio del repertorio internazionale, in particolare anglosassone, a causa della forte presenza di star globali nelle playlist delle piattaforme. Per molti l’offerta globale, soprattutto americana e britannica avrebbe occupato le classifiche estromettendo il repertorio italiano, soprattutto dei giovani talenti. Secondo i critici, la standardizzazione imposta dalle piattaforme avrebbe portato all’omologazione della produzione e dei consumi, in danno dei mercati minori.
Come invece emerge molto bene dallo studio, l’innovazione tecnologica, il ricambio generazionale e i fan, sono stati protagonisti di questa rivoluzione che ha inciso profondamente sulle classifiche, anche in Italia.
Vale la pena di ricordare che nel nostro Paese, negli ultimi dieci anni la presenza degli artisti italiani in classifica album è passata dal 63% del 2013 all’83% del 2022
Anche Luminate, l’azienda di ricerche i cui dati sono stati alla base dello studio ha rivelato che, ad esempio nei singoli, nel 2012, solo 3 su dieci erano italiani nella classifica, mentre nel 2022 erano 7 su dieci ( dato che include streaming free e YouTube). Secondo i dati GfK, nel 2022, l’intera top ten singoli era italiana.


Le ragioni di questo radicale mutamento

Lo studio si sofferma poi sulle ragioni di questo radicale mutamento. Prima di tutto ovviamente l’assenza di fatto delle barriere all’ingresso dell’era del CD, dove tutto era più costoso, dalla produzione, alla distribuzione, con colli di bottiglia che impedivano a molto artisti di emergere. Il secondo importante aspetto riguarda il minor impatto dell’omologazione nei servizi streaming rispetto ai broadcast tradizionali. Molti immaginavano che le playlist editoriali delle piattaforme avrebbero plasmato gli ascolti in maniera uniforme. I dati di consumo raccontano invece un’altra storia.
Lo studio evidenzia una ricerca dell’autorità per la competizione britannica che prova come le playlist algoritmiche ed editoriali delle piattaforme abbiano perso terreno rispetto a quelle curate degli utenti. Cosa peraltro già emersa nello studio di IFPI, “Engaging with music”, dove, ad esempio in Italia, le playlist dell’utente rappresentano il 47% degli ascolti rispetto al 31% di quelle editoriali o algoritmiche.
Nello studio si evidenza anche come sia molto importante, in questo contesto, il ruolo delle case discografiche a livello locale, ovvero le filiali delle major, che operano facendo ricerca e sviluppo su talenti locali. Da aggiungere che per l’Italia dobbiamo anche citare il successo del tax credit statale, che ha sicuramente incentivato gli investimenti sulle produzioni nazionali.
Nelle conclusioni dello studio emerge anche come rispetto ai mercati regolati dell’audiovisivo, quello musicale, senza alcun intervento statale su quote o riserve di produzione, ha raggiunto un significativo successo nel promuovere i repertori locali.


Conclusioni

Infine, se i mercati locali europei stanno beneficiando della glocalizzazione, lo studio dedica un pensiero ai mercati di lingua inglese che tradizionalmente avevano un vantaggio comparativo nelle esportazioni di musica, poiché ora stanno lottando per far ascoltare il loro repertorio in lingua inglese all’estero in una forte competizione con i repertori locali.

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