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Dalla ricerca all’impresa: il “tech transfer” leva strategica per la competitività



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Il Made in Italy è una solida garanzia per la competitività dell’Italia, non solo nel manufatturiero, ma anche nel Deep Tech. Nonostante l’eccellenza della ricerca scientifica italiana, esiste però un gap tra mondo accademico e imprese. Il PNRR rappresenta perciò un’opportunità per favorire il trasferimento tecnologico

Pubblicato il 8 nov 2023

Emilia Garito

Founder e CEO di Quantum Leap, Founder e Chairman di Deep Ocean Capital SGR Spa



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Nell’epoca in cui i grandi avvenimenti geopolitici e le tendenze protezionistiche rendono i mercati sempre più instabili, il Made in Italy, ovvero la specializzazione internazionale del sistema produttivo nazionale, funge da garanzia per la competitività dell’economia italiana. Il termine, molto spesso a causa di una distorsione prospettica, è vittima di un pregiudizio in quanto ricondotto meramente ai prodotti di consumo nei settori del cibo, della moda, del design, e, più in generale, della manifattura.

Il Made in Italy, tuttavia, racchiude in sé potenzialità che vanno oltre le semplici filiere tradizionali. Da qui, la quarta ondata dell’innovazione italiana indica il settore del Deep Tech quale leva strategica fondamentale del Made in Italy per il rilancio della competitività delle imprese e dell’intero sistema paese.

La centralità dell’industria Deep Tech in Italia

Di fatti, se guardiamo ai dati delle esportazioni dei beni italiani e agli ecosistemi produttivi industriali, ci rendiamo conto che le opportunità di crescita del nostro Paese nel futuro – così come nel passato – risiedono soprattutto in quella che chiamiamo l’industria del Deep Tech, ovvero l’insieme di tecnologie innovative e di frontiera, originali – fondate su scoperte scientifiche, sull’ingegneria, la matematica, la fisica e la medicina – che possono avere un impatto profondo nella vita delle persone e della società.

Lo stesso Boston Consulting Group nel report Deep Tech and the Great Wave of Innovation stimava come gli investimenti su start up fondate su una scoperta scientifica o un’innovazione ingegneristica significativa sarebbero arrivati a toccare quota 200 miliardi di dollari entro il 2025.

Anche in Italia, la centralità dell’industria Deep Tech è confermata dai dati relativi alle esportazioni complessive di beni per raggruppamento, elaborati da SACE.

Figura 1: Esportazioni italiane di beni per raggruppamento

I dati dell’export italiano

In generale, nonostante le spinte inflazionistiche, le esportazioni italiane di beni sono cresciute del 20% in termini tendenziali, permettendo, con un incremento di oltre 100 miliardi in un solo anno, il raggiungimento di oltre 600 miliardi di euro di beni esportati. L’export d’oltralpe, a conferma dell’errato pregiudizio citato in precedenza, viene trainato dai Beni di Investimento (34,9%) e dai Beni Intermedi (32,5%) seguiti dai Beni di Consumo (21,4%) e infine da Agricoltura e altri alimentari (9,8%). L’analisi dei dati rivela che su oltre 600 mld di esportazioni complessive rispetto a tutti i comparti produttivi italiani, solo 36,7 miliardi appartengono alla filiera alimentare e 51,8 miliardi al comparto tessile e abbigliamento; se analizziamo l’andamento dei Beni intermedi – chimica, metalli, materiali plastici e industria estrattiva – e dei Beni di Investimento – meccanica strumentale, mezzi di trasporto (tra cui automotive), elettronica e altri comparti tecnologici minori – il valore delle esportazioni supera i 420 miliardi; è grazie a questi numeri, e non solo a quelli relativi ai settori del fashion e del food, che l’Italia è leader in Europa per produzione ed esportazione di beni industriali, seconda solo alla Germania.

Puntare tutto sulla nostra ricerca scientifica

Se leggiamo ancora l’Italia solo attraverso tre delle 4A – abbigliamento, alimentare, arredamento – è evidente che qualcosa non funziona nella comunicazione delle eccellenze del nostro Paese, ma soprattutto è necessario chiedersi quali e quante competenze tecnico-scientifiche debba avere il Bel Paese per riuscire a competere con i colossi industriali europei e, soprattutto in alcuni settori per noi strategici, extra europei. La risposta è tutta qui: nell’eccellenza della nostra ricerca scientifica e nella capacità di disinnescare il corto circuito tra questo mondo e quello delle imprese, per permettere alle grandi innovazioni di trasformarsi in prodotti competitivi sul mercato.

Si evince, quindi, la necessità di nuovi modelli di business fondati su consistenti investimenti di livelli di PIL in Ricerca e Sviluppo, segnatamente nei settori trainanti della transizione energetica, dell’Aerospazio, della Salute e della Sostenibilità in generale, per consentire all’Italia di reggere la competizione con gli altri paesi della zona OCSE (Germania e Francia in primis), rafforzando la capacità delle imprese di presidiare i mercati esteri, grazie alla collaborazione con le eccellenze del mondo accademico e della ricerca scientifica. (L’Italia è il settimo paese al mondo per numero di pubblicazioni scientifiche – Dynamics of scientific production in the world, in Europe and in France, 2000-2016).

Tutto ciò ovviamente con l’obiettivo di consolidare, in prospettiva, la ricerca e sviluppo nei vari Stati membri dell’Unione in un’ottica di bilanciamento sia dei paesi del continente asiatico che degli Stati Uniti. Ma la strada è in salita.

Trasferire i risultati della ricerca alle imprese: il corto circuito italiano

Infatti, nonostante l’eccellenza della nostra Ricerca (evidenziata dal fatto che l’Italia si posiziona all’interno del 10% dei Paesi le cui pubblicazioni scientifiche sono tra le più citate al mondo, pur esprimendo bassi investimenti in ricerca e sviluppo – meno della media europea – e un numero di ricercatori decisamente inferiore agli altri paesi di punta dell’Europa), non troviamo però la capacità di inserirci nel mondo competitivo delle aziende, ovvero di trasferire il risultato della ricerca scientifica nel mondo imprenditoriale.

Le ragioni non riguardano soltanto l’approccio comunemente usato dalle accademie rispetto alla missione della ricerca stessa, bensì ne è causa l’intero sistema industriale italiano poco incline a collaborazioni con il mondo scientifico e, soprattutto, sempre più restio a investimenti in R&D proveniente dall’esterno della propria azienda. Infine, anche la debolezza strutturale del sistema finanziario italiano nel settore del Venture Capital è un tema rilevante che concorre a rallentare il processo di trasferimento tecnologico nel nostro Paese. È chiaro che tutto ciò crea un effetto domino sul valore della produzione di brevetti industriali, che continua ad essere al di sotto di Paesi come Germania e Francia (4.600 brevetti di aziende italiane depositati all’Ufficio Europeo dei Brevetti nel 2020, contro i 25.954 della Germania e i 10.554 della Francia).

Figura 2: Spesa interna lorda in R&S, 2011 e 2021

Da qui l’importanza strategica di rafforzare la filiera del trasferimento tecnologico, definibile come “l’insieme delle attività svolte dai centri di ricerca e finalizzate alla valutazione, alla protezione, al marketing e alla commercializzazione di tecnologie e, più in generale, alla gestione della proprietà intellettuale sviluppata nell’ambito dei progetti di ricerca e sviluppo, condotti dal mondo accademico”.

Tech transfer e innovazione

Il Tech Transfer, in tutto il mondo, viene percepito come uno strumento in grado di produrre innovazione per le imprese, dove le strutture scientifiche ricoprono un ruolo di primo piano nello stimolare la competitività del sistema economico ed industriale nazionale nella trasformazione della conoscenza in prodotti, metodologie e servizi innovativi. A livello europeo il trasferimento tecnologico è disciplinato dalla Strategia di Lisbona, programma di riforme economiche volte alla creazione di un’area europea della conoscenza che consenta una moltiplicazione degli investimenti nella ricerca e nella conoscenza per incentivare la competitività e l’occupazione. Tuttavia, per essere efficaci, oltre ad aumentare in quantità, gli investimenti in ricerca e sviluppo devono tradursi in nuove tecnologie direttamente trasferite e capitalizzate dall’industria.

PNRR occasione unica

L’Italia può giocare un ruolo chiave in questo contesto con la sfida del PNRR. L’obiettivo della Misura 4, “Dalla Ricerca all’Impresa” è proprio questo, ovvero costruire un ponte solido tra ricerca e impresa favorendo la creazione di ecosistemi dell’Innovazione in tutti i territori d’Italia. In aggiunta, anche l’Investimento 2.3 Potenziamento ed estensione tematica e territoriale dei centri di trasferimento tecnologico per segmenti di industria, è un interessante segnale positivo, in quanto prevede una dotazione finanziaria di 350 milioni di euro per sostenere, attraverso un processo di riorganizzazione e razionalizzazione, una rete di 50 centri (Centri di Competenza, Digital Innovation Hub, Punti di Innovazione Digitale e altri) incaricati dello sviluppo progettuale e dell’erogazione alle imprese di servizi tecnologici avanzati e di servizi innovativi.

Conclusioni

Il Trasferimento Tecnologico per l’Italia, come per i principali Paesi al mondo (Usa e Israele in primis), rappresenta un’opportunità importante di accelerazione tecnologica e, oggi più che mai, è lo strumento principale per “mettere a terra” concretamente i progetti finanziati dal PNRR italiano, occasione unica e mai più ripetibile per la ripresa post-Covid e lo sviluppo del nostro Paese.

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