il dibattito

Direttiva Ue sul copyright, Scorza: “Minaccia alla libertà di espressione, ecco perché”

Sono molti i motivi che inducono a ritenere che la proposta di direttiva Ue sul diritto d’autore sia sciatta nell’impostazione e approssimativa negli effetti e che quando sarà approvata, presumibilmente nel 2021, sarà già vecchia. Ecco le principali ragioni a supporto di un giudizio tanto severo

Pubblicato il 21 Giu 2018

Guido Scorza

Autorità Garante Privacy

giornali intelligenza artificiale

La commissione giuridica del Parlamento europeo ha appena dato luce verde alla proposta di direttiva europea sul diritto d’autore nel mercato unico digitale che dovrebbe, ora, approdare in aula il prossimo 4 luglio per la definitiva approvazione.

Il dibattito sulla proposta di direttiva

La proposta di direttiva sul copyright è al centro di un accesissimo dibattito che vede, sostanzialmente, contrapposti i titolari dei diritti d’autore, sponsor dell’iniziativa e un fronte variegato che va dalle grandi internet company sino ad arrivare ad alcuni dei padri nobili di Internet, convinti antagonisti della proposta di direttiva.

I primi vedono nella direttiva un indispensabile rafforzamento della tutela dei propri diritti e un prezioso ed equo strumento di ri-bilanciamento del celeberrimo value gap che avrebbe sin qui consentito alle Internet company di mettere le ali anche grazie a un trattamento normativo di favore mentre i secondi vedono nella proposta una grave minaccia alla libertà di informazione online e, naturalmente, in alcuni, casi al proprio business.

Non schierarsi in un dibattito tanto acceso e con posizioni così estreme è un esercizio pressoché impossibile. Così come è impossibile provare a raccontare in una manciata di caratteri i tanti profili che dividono gli addetti ai lavori e animano il dibattito.

Ci sono, tuttavia, alcune considerazioni, vien da dire di buon senso, che, forse, meritano di essere condivise prima che sia troppo tardi ovvero prima che il Parlamento europeo approvi definitivamente il testo della Direttiva.

E, probabilmente, vale la pena concentrarsi su un aspetto per volta.

Il principio della responsabilità degli intermediari

Una delle questioni certamente più dibattute della proposta di direttiva riguarda il principio della responsabilità degli intermediari della comunicazione per eventuali violazioni dei diritti d’autore connesse alla pubblicazione di contenuti da parte dei propri utenti.

Senza troppi giri di parole la Direttiva, nella sostanza, mira a trasformare i gestori delle piattaforme di condivisione di contenuti audiovisivi in grandi televisioni e a rendere loro applicabile un insieme di norme analoghe a quelle che governano la vecchia TV.

Secondo il testo della proposta di direttiva, infatti, i gestori delle piattaforme user generated content per un verso dovrebbero procurarsi una licenza dai titolari dei diritti dei contenuti pubblicati dai propri utenti e, per altro verso, dovrebbero dotarsi di una serie di soluzioni di filtro automatico dei contenuti idonee a rendere inaccessibili i contenuti pubblicati senza autorizzazione.

Reticenze, incertezze e formule ambigue, al proposito, non sono d’aiuto e rischiano solo di inquinare un dibattito già, obiettivamente, compromesso dagli enormi interessi in gioco e dall’attività lobbistica dei rappresentanti di tali interessi.

E’, quindi, opportuno essere più diretti possibile a costo di peccare di sintesi; non tutte le questioni sono da bianco o nero e, quindi, l’unica cosa importante e non smettere fino alla fine di dialogare.

La disposizione della proposta di direttiva che riguarda tale profilo non può convincere nessuno che la guardi con sguardo scevro da posizioni precostituite: è una soluzione posticcia, sciatta nell’impostazione e nella formulazione e approssimativa negli effetti che è destinata a produrre.

E’ la classica cura peggiore del male.

Ecco le principali ragioni a supporto di un giudizio tanto severo.

Un errore di metodo

La proposta di direttiva, concepita nel suo impianto originario nel 2016 e destinata ad essere approvata nel 2018, nella migliore delle ipotesi, diventerà legge nei 27 Paesi membri dell’Unione nel 2021.

Cinque anni nel mondo del digitale, complice il vorticoso avvicendarsi delle soluzioni tecnologiche e dei modelli di business, rappresentano un’era geologica.

E’ pressoché impossibile che una regola – specie se di dettaglio come molte di quelle dettate nella proposta di direttiva in questione – concepita nel 2016 sia in grado di governare efficacemente i fenomeni che contraddistingueranno il mercato dei contenuti audiovisivi nel 2021.

E’, al contrario, altamente probabile che le nuove norme, che saranno vecchie cinque anni dopo, finiranno, appena entrate in vigore, con il creare pericolosi equivoci e difficoltà interpretative, imponendo agli addetti ai lavori di esercitarsi nell’applicazione analogica di norme pensate per un fenomeno con contorni completamente diversi rispetto a quelli che verranno.

Si sta, dunque, commettendo un errore di metodo: la disciplina europea sul diritto d’autore andrebbe certamente ripensata ma fermandosi ai principi e demandando poi a strumenti di soft law la loro declinazione in regole di dettaglio.

Una norma contro una manciata di soggetti

Bisogna essere franchi: la proposta di direttiva in questione è una classica norma-contro.

Gli innominati – nel testo della Direttiva – antagonisti ai quali il legislatore europeo ha guardato nello scrivere la proposta hanno precise denominazioni sociali, una sede, un’età e dei bilanci: sono Google e i suoi concorrenti, una manciata di soggetti in tutto il mondo.

L’obiettivo dichiarato della Direttiva, infatti, è richiamare all’ordine questi soggetti, imporgli il rispetto di regole analoghe a quelle che governano da decenni il mondo televisivo, “zavorrare” sotto il profilo competitivo i cosiddetti over the top così da rallentarne la corsa e la monopolizzazione dei mercati.

Guai a negare che una questione, in questo senso, in termini politici e economici, probabilmente, esiste davvero.

Ma il punto non è questo.

Il rischio (concreto) di favorire i grandi player

Il punto è che l’esperienza – anche quella europea – insegna che non si scrivono mai leggi-contro ovvero pensando a un soggetto specifico. Le leggi sono, per definizione, generali ed astratte e tradire questa regola significa innescare pericolose reazioni a catena suscettibili di produrre effetti collaterali di gran lunga peggiori rispetto alla situazione che si sarebbe ambito a governare.

Nel caso della proposta di direttiva questo scenario è palese, evidente e innegabile.

Le enormi responsabilità previste dalla nuova direttiva per la pubblicazione di contenuti pubblicati dagli utenti in capo ai gestori delle piattaforme user generated content e gli altrettanto importanti oneri tecnologici imposti a questi ultimi in termini di filtri e affini, naturalmente, sono destinati a trovare applicazione uniforme tanto da parte di Youtube che da parte dell’ultima della startup in erba che decida di sfidare la prima.

La differenza, però, è che la prima – e i suoi concorrenti più grandi –, pur preferendo, certamente, farne a meno, può permettersi uno stuolo di avvocati, ha le tasche sufficientemente profonde per confrontarsi con le responsabilità che dovessero arrivare e dotarsi delle tecnologie cui fa riferimento la direttiva mentre le seconde non riusciranno nell’impresa e saranno costrette a gettare la spugna.

I grandi, così facendo, diventeranno sempre più grandi e i piccoli si ritroveranno rapidamente esclusi dal mercato.

Il grande equivoco della responsabilizzazione degli intermediari

La proposta di direttiva o, almeno, la sua disposizione in materia di responsabilità dei fornitori di servizi user generated content, è basata sullo stesso drammatico equivoco che sembra orientare gran parte della politica europea digitale negli ultimi anni: responsabilizzare gli intermediari della comunicazione produce effetti positivi per i mercati e la democrazia, ridimensionando lo strapotere dei big della Rete.

Non c’è niente di più sbagliato e, dispiace constatare che si perseveri in un tanto evidente equivoco.

Identificare in Google il responsabile globale della memoria collettiva con la famosa Sentenza sul cosiddetto diritto all’oblio non ha rappresentato una vittoria dell’Europa su Google ma del secondo sulla prima: il risultato, infatti, è che a decidere cosa gli uomini di domani sapranno degli uomini di ieri dipenderà in larga misura proprio da Google, dai contenuti che deciderà di rimuovere in ossequio al ccosiddetto diritto all’oblio e da quelli che deciderà di continuare a indicizzare.

E, allo stesso modo, spingere in maniera crescente Facebook a fare di più contro le fakenews, minacciando – talvolta, come accaduto in Germania – persino per legge conseguenze e sanzioni milionarie non contribuisce a ripulire il web ma solo a consentire a Facebook & soci di dettare la “linea editoriale” dell’informazione globale.

Sono davvero vittorie?

La proposta di direttiva e, in particolare, la sua disposizione sulla responsabilità dei gestori delle piattaforme minaccia di produrre un effetto analogo: stiamo affidando a Google il compito di decidere in relazione a quale contenuto rischiare una causa per violazione della proprietà intellettuale e in relazione a quale contenuto procedere immediatamente alla rimozione senza rischiare. Il risultato, purtroppo, è scontato: in relazione ai contenuti degli utenti con le spalle larghe Google potrà anche sfidare le ire e gli avvocati dei titolari dei diritti mentre in relazione ai contenuti dei degli utenti meno strutturati non sarà disponibile a correre nessun rischio.

Ma la libertà di informazione anche attraverso il web – o, forse, soprattutto attraverso il web – dovrebbe essere eguale per tutti.

I (fantomatici) diritti degli uploader

La proposta di direttiva, sempre in relazione alla norma in materia di responsabilità degli intermediari della comunicazione, è ipocrita perché, in teoria, si preoccupa che agli utenti uploader dei contenuti sia garantita la possibilità di contestare l’eventuale erronea cancellazione del proprio contenuto ben sapendo, tuttavia, che, sfortunatamente, nessuno di noi ha un diritto – nel senso pieno del termine – a che YouTube o un’altra delle grandi piattaforme UGC ospitino i nostri contenuti consentendone la trasmissione globale.

Difficilmente, quindi, un utente – anche ammesso che abbia voglia, soldi e tempo per difendere il blocco automatico di un proprio contenuto – potrà vedere accolta dal giudice la propria richiesta di sblocco dell’accessibilità di un proprio contenuto contro la decisione opposta adottata dal gestore della piattaforma, non dopo aver accettato le condizioni generali di uso della piattaforma medesima.

Ci sarebbero anche una quinta, una sesta, una settima ragione ma temo di aver già approfittato di più tempo di quello che la più parte dei lettori, oggi, è disponibile a concedere a un tema dal quale, pure, dipende in larga misura la sopravvivenza dell’Internet che conosciamo.

Un messaggio ai titolari dei diritti

Un ultimo messaggio nella bottiglia ai titolari dei diritti per evitare fraintendimenti: i problemi da loro sollevati sono reali e vanno affrontati e, anzi, probabilmente, andavano affrontati da tempo ma la soluzione non è questa, va cercata altrove, ridiscutendo il sistema della direttiva e-commerce a quasi 20 anni dal suo concepimento, esigendo e facendo investimenti importanti nell’educazione alla produzione e consumazione dei contenuti digitali, semplificando – e molto – il regime di licensing dei propri contenuti.

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