“E’ il momento in cui potete essere eroi, come avrebbe detto David Bowie”. Con queste parole la vicepresidente della Commissione europea Margrethe Vestager ha spronato i parlamentari europei che dovranno esaminare i due pilastri della nuova regolazione sulle piattaforme digitali, il Digital Markets Act (DMA) e il Digital Service Act (DSA). Il riferimento “eroico” – per quanto mitigato dalla citazione pop – non è casuale. L’Europa avanza un imponente e ambizioso corpo di nuove regole, destinato ad applicarsi alle grandi piattaforme dell’economia digitale, i “gatekeepers”, affrontando i principali problemi che la scala del loro potere porta con sé.
L’obiettivo della Commissione è quello di ripristinare i principi alla base del corretto funzionamento dei mercati: trasparenza, correttezza, concorrenza, libertà di impresa. Il punto di partenza è che le regole attuali a salvaguardia di tali princìpi non bastano. Per capire il perché, bisogna partire dalle caratteristiche strutturali dell’economia digitale; per poi soffermarsi sul come il DMA e DSA prevedono di intervenire; e su quali sono le difficoltà, i limiti e i rischi della nuova regolazione europea che vediamo in embrione.
DSA e DMA: l’impatto delle future regole nel sistema europeo, italiano e internazionale
Perché intervenire
Diamo per scontato, in questa sede, che tutti siamo consapevoli degli enormi benefici che la digitalizzazione ha portato ai consumatori con la sua doppia innovazione: creando nuovi servizi digitali e nuovi metodi di produzione e distribuzione di servizi già esistenti. Questo enorme salto in avanti nell’innovazione, peraltro grandemente accelerato nell’anno della pandemia, è stato reso possibile da tre caratteristiche del business digitale: le economie di scala e di scopo, gli enormi effetti di rete e l’acquisizione e lo sfruttamento dei big data.
In virtù di queste caratteristiche, nell’economia delle piattaforme il costo di produzione di ogni servizio aggiuntivo è molto basso; i consumatori (ma anche gli utenti-rivenditori-pubblicitari) contribuiscono a creare valore, e affluiscono naturalmente alla piattaforma che ha il maggior numero di utenti; il controllo dei dati e degli algoritmi dà un forte vantaggio competitivo. Tutte e tre queste caratteristiche portano strutturalmente verso quella che Tim Wu, da poco scelto dal presidente Biden come suo consigliere, definisce “la maledizione della grandezza”. E sono le stesse caratteristiche che la Commissione europea elenca per motivare la necessità di intervenire.
Dunque, quella che per Big Tech è la chiave del successo, per i nuovi regolatori è l’essenza del problema, anzi dei due problemi principali che ne conseguono: la non contendibilità della posizione di mercato delle grandi piattaforme e l’assenza di fairness nelle regole che decidono e impongono a tutti coloro che operano all’interno dei loro ecosistemi.
Ma perché intervenire con una nuova, abbondante produzione normativa? Sia nel caso del DMA che del DSA, alla base ci sono ragioni tecniche e politiche. Le ragioni tecniche risiedono nell’insufficienza degli strumenti attuali: i rimedi antitrust, nonostante l’attivismo degli ultimi anni in Europa, si sono rivelati poco efficaci, lenti di fronte all’evoluzione rapidissima dei mercati digitali, del tutto incapaci di contrastare la capillare e gigantesca ondata di acquisizioni da parte delle grandi piattaforme.
La Direttiva sull’eCommerce, adottata ormai oltre 20 anni fa, basata sul principio che esonera le piattaforme da obblighi e responsabilità per i contenuti che veicolano e i prodotti che vendono ora presenta il conto. Una completa esenzione dalla responsabilità, in verità esistente su ambedue i lati dell’Atlantico, ha sicuramente favorito lo sviluppo digitale ma ha avuto conseguenze economiche sia sulla crescita enorme del potere di mercato dei gatekeepers sia sulla qualità del dibattito democratico, aggredito da disinformazione e crescente polarizzazione.
Le ragioni politiche sono nella necessità di evitare iniziative frammentate a livello nazionale, che sono già in corso e potrebbero compromettere lo sviluppo del mercato digitale unico in Europa; nella volontà di colmare il divario con Usa e Cina; e nella necessità di rispondere alla pressante richiesta di Parlamento Europeo e Consiglio di aggiornare la direttiva e-commerce per introdurre forme di responsabilità per gli intermediari dei servizi online.
Come intervenire
I due provvedimenti proposti hanno focus diversi: mercati e servizi. Ma condividono aspetti comuni e sono chiaramente complementari. Il primo aspetto comune è nella individuazione dei destinatari, chiamati “digital gatekeepers” nel DMA e “very large platforms” nel DSA, individuati in base alle soglie di utenti (oltre 45 milioni), e nel caso del DMA anche di fatturato o capitalizzazione (più di 6,5 miliardi di euro o 65 miliardi di euro). Questo vuol dire che si tratta di una regolazione asimmetrica, che cioè si applica solo ai grandi, con l’obiettivo di favorire l’ingresso nel mercato di nuovi soggetti, e per questa via, eventualmente, anche di favorire la crescita di attori europei.
Insomma, i gatekeeper, i guardiani dell’accesso al mondo digitale, troverebbero in Europa un quadro regolatorio specifico, scritto per loro: un unicum a livello mondiale, almeno fin quando l’amministrazione Biden non scoprirà le carte sul tema. È abbastanza chiaro, per quanto di non facile realizzazione, lo scopo di tali regole per il DSA: una limitazione del principio del safe harbour per le piattaforme, ossia l’introduzione di regole di responsabilità per i contenuti e i prodotti che veicolano e distribuiscono.
Quanto al DMA, va ben compreso che anche in questo caso si tratta di un intervento regolatorio, non di diritto della concorrenza. Sempre Margrethe Vestager lo ha spiegato molto efficacemente ricorrendo alla metafora del fiume: l’antitrust interviene per rimuovere i detriti dal fiume, il DMA vuole porre un filtro a monte, per evitare che certi detriti nel fiume vi entrino. Disegnare e costruire il filtro però è tutt’altro che facile.
Nel DMA, lo si fa con una lista di obblighi e divieti, ossia di cose che le piattaforme possono fare e cose che non possono fare. Al momento la lista, contenuta negli articoli 5 e 6 della proposta, appare lunga e un po’ confusa, svariando dalle clausole MFN (Most favoured nation), al self preferencing, alla combinazione dei dati, e include anche pratiche che molti economisti sostengono essere spesso innocue o addirittura pro-competitive. Tutte queste condotte sarebbero proibite di per sé, a prescindere dal loro effetto – e in particolare da qualsiasi verifica del loro effetto – sulle dinamiche della concorrenza. Come dire: ci sono cose che i “troppo grandi” non possono fare perché in sé sono una minaccia ai principi della libera concorrenza o della libertà d’impresa (degli altri).
Big tech, troppo potere: tutte le proposte per risolvere il dilemma del decennio
Limiti e rischi dell’attuale proposta
Il nuovo quadro regolatorio disegnato e proposto dalla Commissione è complesso e ambizioso, quantomeno nelle intenzioni. Funzionerà? Ovviamente è presto per dirlo, e molto dipenderà dalla forma che prendono le sue varie parti nel corso della discussione appena iniziata. Di certo, si parte da una situazione nella quale c’è vasto consenso sulla necessità di un intervento per affrontare i pericoli crescenti sui mercati digitali, senza mettere a rischio gli enormi vantaggi che hanno portato all’economia e ai consumatori. Così come è quasi un luogo comune che gli strumenti esistenti, a disposizione dei regolatori e dell’antitrust, appaiono largamente insufficienti. Ma proprio per questi motivi bisognerà prestare estrema attenzione all’efficacia dei nuovi strumenti che si propongono, soprattutto in relazione agli obiettivi che si vogliono perseguire.
Per stabilire le nuove regole per il mercato (il “filtro” a monte del fiume), la Commissione ricorre a un metodo di regolazione antico, essenzialmente fa una lista di cose che non si possono fare, cose che forse si possono fare, cose che si debbono fare. Ma la lista degli obblighi e delle proibizioni per le piattaforme rischia di essere troppo rigida e diventare obsoleta nelle stesse ore in cui la si discute. Questa preoccupazione vale sempre, ma a maggior ragione quando si regola un settore ad alto e velocissimo tasso di innovazione
Quanto alla chiamata alla responsabilità delle piattaforme per i contenuti che veicolano, le evidenze e criticità che sono emerse da quanto si è cominciato ad affrontare il problema nel campo della disinformazione e dell’hate speech – si veda la delusione per l’implementazione da parte delle piattaforme del Code of Practice concordato con la Commissione – fanno emergere anche i possibili conflitti tra la necessità di un intervento e il rischio di delegarne la soluzione alle stesse piattaforme, rafforzando paradossalmente il loro ruolo di gatekeepers e creando rischi anche per la libertà d’espressione online.
Il pericolo al momento è che le regole appena disegnate finiscano per essere solo sabbia negli ingranaggi delle poderose macchine dei giganti digitali, invece di favorire la maggiore concorrenza o la maggiore fairness che si vorrebbe assicurare. Se così fosse, le regole si riveleranno al tempo stesso inefficienti, ridurranno il benessere dei consumatori, e inefficaci, non ridurranno il potere di mercato dei gatekeepers.
Insomma, si sta aprendo una stagione di riforme importante, necessaria e forse anche tardiva, ma non sarà facile raggiungere i risultati auspicati senza soluzioni molto più legate agli obiettivi e un dibattito veramente approfondito.