copyright e beni culturali

Videogiochi, i diritti d’uso sull’uso di luoghi reali: ecco le norme

L’acquisizione dei diritti di riproduzione di location nazionali presenti notevoli profili di complessità. Vediamo cosa prevedono le normative e quando è possibile restare al di fuori del campo di applicazione del Codice dei beni culturali

Pubblicato il 16 Set 2021

Simona Lavagnini

avvocato, partner LGV Avvocati

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È frequente l’uso nei videogiochi di citazioni di beni altrui, come marchi famosi, personaggi di fantasia, attori reali, e anche le cosiddette real-world locations, ossia luoghi reali del mondo, di solito di tipo iconico, come – ad esempio – centri storici di città famose (Parigi, Londra, Tokio), il Colosseo di Roma, il memoriale di Lincoln o la cattedrale di Manchester, ovvero anche luoghi naturali di particolare bellezza e notorietà (come le isole Ko Tapu tailandesi usate in Tomb Raider).

In alcuni casi i luoghi utilizzati nei videogiochi contengono opere architettoniche o dell’arte visuale che sono ancora sotto la protezione del diritto d’autore.

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Real-world locations e videogiochi: cosa prevede l’ordinamento italiano

Per questo tipo di usi l’ordinamento italiano non prevede alcuna eccezione, ed è dunque necessaria l’autorizzazione del titolare dei diritti d’autore (ed il pagamento del relativo compenso) per effettuare qualsiasi forma di riproduzione e/o elaborazione. In altri ordinamenti esiste invece una eccezione specifica, la cd. libertà di panorama, che consente di realizzare ed utilizzare riproduzioni di opere dell’ingegno protette, quando queste siano collocate in un luogo pubblico (è il caso della Germania, del Regno Unito, della Danimarca). Peraltro, la direttiva comunitaria Infosoc (2001/29) prevedeva la possibilità di introdurre un’eccezione ad hoc, proprio finalizzata a consentire la libertà di panorama, ma l’Italia non ha ritenuto di avvalersene. Non solo. Nel nostro Paese non è sufficiente accertarsi che lo sfondo utilizzato nel videogioco riguardi opere ormai cadute in pubblico dominio dal punto di vista del diritto d’autore, dal momento che anche queste potrebbero essere protette da diritti esclusivi. Si tratta in particolare dei diritti derivanti dal Codice dei beni culturali (d.lgs. 42/2004, come successivamente modificato) che, al fine di valorizzare e monetizzare il patrimonio culturale italiano, ha introdotto una protezione speciale per i beni culturali appartenenti allo Stato, alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali. Non si tratta solo di opere dell’ingegno, ma anche di beni mobili o immobili di tipo diverso, purché aventi interesse storico, archeologico o etnoantropologico. In linea generale, questi beni culturali non possono essere liberamente riprodotti, ancorché siano collocati in un luogo pubblico, e non vi è termine di durata. Per l’uso è necessario ottenere il previo consenso dell’amministrazione pubblica che li ha in consegna, e successivamente procedere al pagamento di un canone, che è calcolato in base alla natura del bene, al tipo di utilizzo, alla valorizzazione dell’uso. La legge esenta dall’applicazione del diritto esclusivo solo alcuni limitati usi, ossia quelli privi di scopo di lucro, che siano inoltre caratterizzati da fini educativi, di critica o culturali.

L’acquisizione dei diritti di riproduzione

È evidente come, alla luce di queste disposizioni, l’acquisizione dei diritti di riproduzione di locations nazionali presenti notevoli profili di complessità, dal momento che sarebbe necessario in primo luogo identificare se la locations in questione contiene beni protetti dal diritto d’autore; anche esclusa l’applicabilità della normativa sul diritto d’autore (che effettivamente non si applica per molti luoghi iconici del nostro Paese, in quanto risalenti nel tempo), resta comunque la questione dei beni culturali, che non appare eliminabile, visto che la protezione prevista dal Codice dei beni culturali non ha scadenza; va dunque identificata l’amministrazione pubblica che può avere in consegna i beni in questione, in un contesto ove peraltro – per fare un esempio – in una piazza vi possono essere diverse amministrazioni competenti per diversi tipi di beni culturali presenti nella stessa (si pensi a una famosa scalinata, di titolarità di una Soprintendenza, che conduca alla facciata di una nota Chiesa, in amministrazione al Vaticano); in ultimo è necessario acquisire il consenso della/delle amministrazioni e pagare (se del caso) un compenso, sempre ammesso che non vi siano ostacoli di principio (i quali spesso sussistono nel caso dei videogiochi, ritenuti talora potenzialmente dannosi per l’immagine del bene culturale, proprio solo per il fatto di essere videogiochi). Nel complesso, si tratta di norme che disincentivano fortemente l’ambientazione di videogiochi in Italia, anche solo per la complicazione burocratica connessa alla gestione dei diritti, il tutto con evidenti ricadute negative sul nostro Paese, proprio in termini di mancata valorizzazione del patrimonio culturale nazionale. È evidente infatti che la diffusione e la notorietà dei videogiochi costituisce uno strumento di promozione molto importante dei luoghi reali in essi rappresentati, per di più nei confronti di un’audience che per collocazione, età e interessi potrebbe essere altrimenti difficilmente raggiungibile.

Il diritto d’autore nel Digital Single Market

Non risolve il problema in discussione neppure la recente direttiva 2019/790 sul diritto d’autore nel Digital Single Market, che pure prevede una disposizione (l’art. 14), da molti salutata come utile per agevolare l’uso delle immagini dei beni culturali nelle nuove tecnologie. Questa disposizione, infatti, si limita a precedere che le riproduzioni di opere dell’arte visuale cadute in pubblico dominio siano liberamente utilizzabili. Essa riguarda quindi il tema dei diritti d’autore e non quello dei beni culturali; peraltro, si limita a liberalizzare l’uso di riproduzioni (prevalentemente fotografiche) di opere visuali come sculture, quadri, etc., che siano decadute dalla protezione del diritto d’autore per scadenza dei termini. Si tratta dunque di una previsione sostanzialmente diretta ad agevolare attività (come quelle delle enciclopedie online) in cui possono essere utilizzate fotografie semplici di opere dell’ingegno cadute in pubblico dominio, a corredo di una voce dedicata ad un museo, un autore o un collezionista. Essa non ha alcuna ricaduta sullo sviluppo dei videogiochi, in cui tipicamente le immagini sono digital graphic realizzate ad hoc dagli sviluppatori dei videogiochi stessi.

La questione dell’uso dei beni culturali resta dunque del tutto aperta. In assenza di una soluzione legislativa una strada potrebbe essere offerta dalla corretta applicazione dell’unica decisione finora emessa dalla Corte di Cassazione in materia di beni culturali. Il caso, risalente al 2013, riguardava la realizzazione da parte di un privato di copie di un cranio del Paleolitico, conservate nella grotta di Lamalunga di Altamura. La Suprema Corte ha ritenuto che la realizzazione e la distribuzione di tali copie fosse lecita, anche in assenza di autorizzazione da parte del Ministero dei beni culturali, sulla base della considerazione che non si trattava di riproduzioni fedeli o pedisseque del cranio, poiché questo, essendo incastrato nella roccia, era solo parzialmente visibile. Per realizzare le copie la società privata aveva dovuto procedere ad una ricostruzione in 3d tramite un proprio progetto e una propria strumentazione, con la conseguenza che si trattava di elaborazione creativa, cui le norme in materia del Codice dei beni culturali non potevano essere applicate, dal momento che le stesse fanno riferimento alla sola riproduzione e non anche alla elaborazione.

Conclusioni

Seguire questo stesso ragionamento appare possibile anche per i videogiochi. Nella maggioranza dei casi le digital graphic realizzate per l’inserimento nei videogames non rappresentano riproduzioni fedeli delle real-world locations, ma piuttosto elaborazioni creative, in cui interviene una componente qualificabile come “impronta personale” degli sviluppatori dei videogiochi. Per questa via si potrebbe allora sostenere – proprio come ha fatto la Cassazione in relazione al cranio del Paleolitico – che si tratti di elaborazione creative, e si resti quindi al di fuori del campo di applicazione del Codice dei beni culturali, con la conseguenza che la realizzazione e l’utilizzo delle digital graphics di questi beni nei videogiochi sia possibile senza autorizzazione dell’amministrazione competente e senza pagamento del compenso.

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