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Quale PA innovativa se manca il coraggio di investire nelle persone

La PA ha iniziato a svolgere da qualche tempo, molto timidamente, quel ruolo di catalizzatore di innovazione digitale. Più lenta, invece, la spinta che ci si aspettava dal public procurement che langue tra il timore di osare e il rischio di accuse di corruzione

Pubblicato il 04 Set 2017

Gino Falvo

Direttore Amministrativo, Lepida

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È indubbia la relazione tra spesa ICT, innovazione e crescita. L’ICT, come tecnologia “general purpose” ossia in grado di generare innovazione di prodotto e di processo non solo nell’ambito del settore in cui è sviluppata ma in modo trasversale in tutti i comparti dell’economia, è il maggior contributore del TFP (Total Factor Productivity – misura il rapporto tra un indice di output e un indice di input, media ponderata degli indici di lavoro e capitale, dunque è una variabile che approssima lo sviluppo delle capacità organizzative, innovative, manageriali e di skills, nota anche come “Residuo di Solow”, dal nome dell’economista premio Nobel che per primo l’ha definita.). L’ICT produce il cosiddetto effetto Spillover; contagia, positivamente, tutti i settori dell’economia.

E’ di per sé un acceleratore e non solo per l’industria ICT ma per l’intero sistema produttivo. Secondo uno studio, infatti, possiamo parlare addirittura di “Dividendo ICT”, nel senso che l’investimento in ICT genera una crescita che va ben oltre il valore del capitale investito. Dividendo o, se si vuole, maggior valore, che viene quantificato in 7-8 punti percentuali e che porta il ROI (Return of Investment) dell’ICT ad essere del 50% superiore a quello di altre forme di capitale. E l’Italia, forse seguendo i consigli proposti in quello studio o per accresciuta consapevolezza oppure semplicemente per inerzia trainata probabilmente da tutto ciò che succede oltralpe, ha iniziato nuovamente ad investire in ICT. Nel nostro Paese, infatti, il mercato digitale fa registrare tassi di crescita positivi, benché contenuti. Le startup innovative, secondo Assinform (su fonte dati MISE – febbraio 2017), sono cresciute in un anno del 31%, attestandosi a quota 6.745. La Pubblica Amministrazione ha iniziato a svolgere da qualche tempo anche se, a parere di chi scrive, molto timidamente, forse perché intimorita dal rispetto degli obiettivi imposti dall’Agenda Digitale Europea, quel ruolo di catalizzatore di innovazione digitale, sia approvando il Piano Nazionale Banda Ultra Larga (non solo come lotta al digital divide), sia adottando il Piano Triennale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione 2017-2019.

Più in sordina la spinta che ci si aspettava dal public procurement che langue tra il timore di osare e la certezza di accuse di corruzione e ostacolo alla concorrenza; accuse mosse nonostante la consapevolezza che, se non si vuole finire nel baratro che ha travolto il popolo ellenico qualche tempo fa, occorre incrementare la spesa ICT, traino fondamentale per la crescita e lo sviluppo del Paese, riducendo anche i tempi del procurement pubblico. Si badi che tutto ciò è chiaramente registrato dal DESI 2017 (Digital Economy and Society Index – l’indice elaborato dalla Commissione Europea per valutare lo stato di avanzamento degli Stati membri dell’UE verso un’economia e una società digitale), che colloca l’Italia al quart’ultimo posto. E lo è, sostanzialmente, su tutti i parametri (connettività, capitale umano, uso di internet, integrazione della tecnologia digitale, servizi pubblici digitali), distante anni luce, ormai, da Spagna, Francia, Germania e Inghilterra.

Magra consolazione i pochi punti di eccellenza nel panorama nazionale richiamati dal rapporto specifico dedicato all’Italia dove, in riferimento alla connettività, si cita la Regione Emilia-Romagna con il progetto Net4all (tra i vincitori degli European Broadband Awards 2016 della Commissione europea), un partenariato pubblico-privato che include i comuni sul cui territorio si trovano le aree industriali poco servite, le imprese situate nelle zone industriali interessate, Lepida Spa (la società interna della Regione Emilia-Romagna incaricata della gestione della rete), le camere di commercio locali e gli operatori del settore delle telecomunicazioni, che ha portato la banda larga ultraveloce in 12 aree industriali e 90 imprese (ma con piani per aggiungere ulteriori 20 aree industriali e 150 imprese).

Cosa manca ancora, dunque? Domanda ricorrente quando ci si interroga su tali temi; complessa la risposta. E di cose ne mancano molte, alcune delle quali impossibili da recuperare. Innanzitutto il non aver investito in digitale quando lo faceva il mondo intero, rinunciando, così, a quel vantaggio competitivo che altri Paesi hanno ottenuto. È un treno perso che forse non potremo mai più riacciuffare. Ciò che, però, possiamo e dobbiamo fare è investire nella cultura digitale, dunque in uno dei più determinanti dei fattori: il capitale umano. A molti potrà apparire paradossale, eppure è solo razionale pensare che per crescere nel digitale, nel mondo delle macchine (internet of things; Cloud Computing, Big Data, Connettività etc) si debba investire nelle persone.

Quelle stesse persone che hanno, ancora, paura di perdere il posto di lavoro proprio per il sopravvento del digitale. C’è, però, a questo proposito, un mito da sfatare: la spesa in digitale genera posti di lavoro, non li distrugge. E anche in questo ambito, come sistema paese, abbiamo perso un altro treno. Secondo quanto riportato nella pubblicazione “Fattore ICT: l’innovazione digitale per la crescita, la produttività, l’occupazione e la sostenibilità ambientale”, la diffusione dell’ICT e di Internet ha, infatti, un impatto positivo “netto”, dunque depurato da altre cause di contesto, sull’occupazione. Le analisi mostrano come il web abbia creato in media 2,6 posti di lavoro per ogni posto perduto, effetto maggiormente accentuato nelle economie più “digitalizzate” come la Svezia, dove si registra un rapporto di 3,9. L’Italia, sempre secondo lo stesso studio, ha un rapporto pari a 1,8.

Ovviamente possiamo e dobbiamo fare di più. In sintesi, se non vogliamo perdere altro vantaggio competitivo, occorre prendere coscienza che sia proprio lo “Human Capital”, esso stesso parametro del DESI in cui peraltro l’Italia registra risultati ben al di sotto della media e progressi limitati, l’unico vero capitale nel quale dobbiamo investire maggiormente. In tale ambito ognuno di noi, cittadini e imprese, deve mettersi in gioco, e il settore pubblico, dal canto suo, non può e non deve sottrarsi alla sfida del digitale. Di più, la deve, in qualche modo, organizzare e stimolare anche indirizzando la spesa ICT, in primis la propria, nello sviluppo del più autentico e innovativo dei capitali: quello umano.

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