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Telemedicina, che fare perché attecchisca in Italia

Valutazione del contesto, delle incidenze e della sostenibilità economica; valutazione e scelte tecnologiche; gestione del cambiamento. Ecco le indicazioni perché si esca dal circolo vizioso delle sperimentazioni fallite e si sfrutti il vero potenziale della telemedicina

Pubblicato il 05 Mar 2018

Mauro Caliani

Dirigente Settore Informatica, Archivio e protocollo, Comunicazione web, URP Consiglio Regionale della Toscana

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La ricerca di una nuova sostenibilità universalistica dell’assistenza sta portando a nuovi modelli organizzativi dei Sistemi Sanitari. La specializzazione degli ospedali sulle acuzie e del territorio sulla gestione della cronicità, assieme a un sempre più forte legale tra i due, sono i pilastri su cui si stanno ipotizzando e testando nuovi percorsi di assistenza e cura. Una delle sfide più ardue alle quali rispondere è senza dubbio quella dell’equità delle cure tra zone altamente popolate e zone a bassa densità di popolazione e questo porta alla nascita di almeno due necessità:

  • reti ospedaliere tra gli Ospedali territoriali e grandi centri d’eccellenza per la diffusione della qualità delle cure dei pazienti con minor spostamento e disagio, e la crescita delle professionalità degli operatori in qualsiasi struttura si trovino;
  • reti e percorsi ospedale-territorio con forte sinergia tra gli specialisti ospedalieri, i medici di medicina generale e le equipe territoriali con il supporto di strumenti elettromedicali e piattaforme tecnologiche innovative.

Le esperienze di telemedicina

Esperienze importanti e spesso avanzate di telemedicina e sanità digitale sono già nate a seguito di un forte bisogno o di una necessità:

  • reti di telemedicina verso paesi Africani o di altre zone dove rappresentano, in alcuni casi, l’unico modo per ricevere assistenza e cure di alta specializzazione;
  • reti di telemedicina militari per portare le competenze mediche necessarie in ogni scenario operativo.

Questi sono due esempi di esperienze importanti, reali, che possono dare indicazioni e soluzioni già operative da applicare a soluzioni innovative in ambito nazionale. Un patrimonio di conoscenza ed esperienza da non disperdere ma da dove iniziare.

Per i nostri territori disagiati o bassamente popolati, la necessità di salute e accesso alle cure diventa quindi bisogno essenziale che può diventare il fattore scatenante per supportare processi di innovazione tecnologica e organizzativa supportati anche dalle stesse comunità locali.

Come supportare nuove reti sanitarie

Supportare le nuove reti sanitarie con progetti di successo passa però necessariamente da tre fasi essenziali:

  1. valutazione del contesto, delle incidenze e della sostenibilità economica;
  2. valutazione e scelte tecnologiche;
  3. gestione del cambiamento.

La fase 2. è quella che molte volte viene erroneamente considerata come la soluzione progettuale alla necessità, ma senza un’adeguata fase 1., e soprattutto senza una fase 3. di gestione del cambiamento, anche un buon progetto corre il forte rischio di fallire o ridimensionare molto i suoi obiettivi e risultati.

Quello che si può obiettare è che infondo le due prime fasi altro non sono che uno studio completo di HTA e nella maggior parte dei casi questo è corretto. Purtroppo però, soprattutto per innovazioni spinte o servizi molto legati ai territori, non si riesce a utilizzare alcuni passi del processo HTA (ad esempio è difficoltoso realizzare un imbuto delle evidenze coerente con il contesto di riferimento territoriale), pur rimanendo la metodologia un riferimento e una indicazione da seguire per gli strumenti che mette a disposizione e per la filosofia di fondo. Ma al di là di questo, è il fine che rende essenziale una fase di valutazione in modo da arrivare a scelte oggettive e forti del decisore, scelte consapevoli che portino ad una più alta percentuale di successo.

Un’analisi accurata del contesto di riferimento secondo diverse dimensioni (economiche, sociali, orografiche, servizi, etc.) e propedeutico a valutare poi incidenze matriciali tra parametri di rilevazione di servizio ed economici. Ad esempio se vogliamo studiare i trasporti tra Pronti Soccorso territoriali e Pronti Soccorsi di riferimento per ottimizzare trasporti e assistenza specialistica, è necessario studiare le incidenze delle patologie in uscita rispetto ai vari siti, le provenienze per patologie, i parametri economici di costo dei trasporti e delle modalità organizzative tradizionali. Questo solo a titolo di esempio semplificativo, ma che già fa capire come non si può portare avanti un buon progetto d’innovazione senza un’accurata valutazione del contesto.

Contesto che sarà il punto di partenza per la valutazione delle tecnologie e le piattaforme necessarie a realizzare il processo. Oggi sono presenti moltissime tecnologie per lo sviluppo di processi di sanità digitale e con potenziali innovativi molto alti. Questo permette di selezionare tecnologie sempre più verticali e specialistiche per patologia in modo da rendere il processo di lavoro più aderente possibile alle necessità di gestione clinica di quel particolare paziente in quel particolare evento. Tutto ciò in un contesto di piattaforma comune di gestione dei flussi, che segue standard e framework ben definiti all’interno dei processi ospedalieri, e in veloce evoluzione e convergenza per le piattaforme territoriali.

Perché falliscono le sperimentazioni e come risolvere

Rimane però un grosso problema da affrontare quando si portano avanti progetti d’innovazione tecnologica. Tale problema, ad esempio, è probabilmente alla base del fallimento di molte sperimentazioni di telemedicina fatte negli ultimi anni. È molto raro difatti che, fatto e portato avanti il progetto, si faccia una vera e proprio gestione del cambiamento. Se si prende a riferimento la fig. 1  la gestione si ferma a della mera formazione, a volte seguita da un affiancamento, dell’operatore, che si limita a restare tra i livelli “come lo faccio?” e “provo a farlo”. Quasi mai si tratta la parte bassa della scala in modo da motivare il personale prima dell’introduzione del nuovo processo. Ancor meno si accompagna l’operatore fino in cima alla scala con la certezza di utilizzo della tecnologia al 100% delle sue possibilità. D’altronde l’introduzione di nuovi percorsi, nuove tecnologie o innovazioni in generale, non può prescindere dalla gestione della zona di comfort dell’operatore e della sua resilienza ai cambiamenti per arrivare in cima alla scala.

Sono necessarie quindi figure, con formazione ingegneristica gestionale, che coinvolgano gli operatori già in fase di disegno dei nuovi processi fino ad accompagnarli all’utilizzo in routine clinica dei nuovi strumenti attraverso metodologie di gestione del cambiamento del singolo e della collettività degli operatori interessati. Un approccio molto diverso dall’attuale che, ad esempio, non si differenzia rispetto al grado di resilienza e alle competenze digitali del singolo e che quindi tratta tutti allo stesso modo non preoccupandosi che alcuni arrivino al massimo e altri tornino indietro anche al rifiuto dell’utilizzo.

D’altra parte una cosa è chiara e facilmente comprensibile: se un nuovo strumento e/o processo non diventa pervasivo dei processi di cura, e normalmente usato come ogni altra tecnologia, il progetto fallirà nonostante PDTA, criteri di elezioni, linee guida aziendali, regionali o nazionali e indipendentemente dalla qualità del progetto, della tecnologia e dei professionisti.

Una buona gestione del cambiamento può essere quindi l’arma vincente per passare finalmente dalle sperimentazioni a nuovi processi innovativi consolidati e supportati dai nuovi strumenti digitali.

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