test invalsi

Studenti, una generazione di incapaci: ripartiamo dallo studio del “linguaggio naturale”

A scuola, prima del coding o degli iperbati, i ragazzi dovrebbero avere una conoscenza eccellente del linguaggio naturale. Senza la quale nemmeno l’informatica si regge. E non c’è bisogno dei risultati Invalsi per capire che c’è un problema serio

Pubblicato il 18 Lug 2019

Alberto Berretti

Dipartimento di Ingegneria Civile ed Ingegneria Informatica, Università di Tor Vergata

invalsi_ scuola

Circola la notizia secondo la quale molti studenti che escono dalla terza media – si parla di uno su tre, ma mi sembra irrilevante – hanno dei gravi problemi di comprensione del testo, come rilevato dai famosi test Invalsi: un numero preoccupante. Circola – a dire il vero, circola di meno – anche la notizia che non sarebbe vero e che le cose vanno bene, accompagnata dal solito commento un filino spocchioso dello studioso – questa volta non di medicina ma di docimologia – secondo il quale voi non avete il diritto di discutere del problema perché non siete esperti.

Invalsi o non Invalsi, abbiamo un problema

Sia chiaro: non ho bisogno dei testi Invalsi o quello che è per sapere che c’è un problema. Né devo aver fatto profondi studi di docimologia per accorgermene.

Mi basta guardare i compiti di Analisi Matematica 1 degli studenti del primo anno di Ingegneria – un campione già abbastanza “raffinato” e “depurato” dai casi limite dunque – in cui mi è capitato di vedere cose come il chiedersi cosa succede alle soluzioni di una equazione quando varia 1 (che, forse non ci arrivate perché non ci potete nemmeno credere che qualcuno lo possa pensare, essendo un numero ben preciso, semplicemente… non varia!).

Mi basta ascoltare un po’ di esami orali in cui solo gli studenti più brillanti capiscono ad esempio che differenza c’è tra giustapporre due fatti A e B e metterci in mezzo “e” (i due fatti accadono entrambi) o dire che “se A allora B” (il che implica una logica di conseguenza che da A conduce a B): niente, per costoro c’è solo la vicinanza lessicale delle parole, che non riescono ad analizzare ulteriormente per cogliere il tipo di nesso logico che collega A e B. O l’incapacità di articolare verbalmente un ragionamento in modo che si capisca (1) perché il concetto in questione mi serve (2) perché lui e non altri (3) come funziona (4) come lo uso – attività mentali che nel mio contesto servono per capire l’Analisi Matematica ma che ovviamente sono un modus operandi universale.

E si, una volta – dove una volta vuol dire più di una quindicina di anni fa – tutto questo non succedeva; e si, la situazione apparentemente peggiora di anno in anno.

Scuola, lo scontro tra opposte fazioni

Ma se la situazione non mi fa indulgere all’ottimismo, i commenti che leggo in giro ancora di meno. Siamo ancora allo scontro frontale fra i sostenitori di una “modernizzazione” della scuola, tipicamente sempre più verso la diluizione dei programmi tradizionali in un insieme di progetti e di attività che ruotano attorno al digitale, fra chi pensa che “alle aziende” servano studenti che hanno studiato coding (ma che è poi? ne parliamo dopo) o competenze STEM (per chi non è del giro: STEM è acronimo inglese per Science, Technology, Engineering and Mathematics), e fra i sostenitori di quella che io chiamo la scuola BDSM (non googlate l’acronimo che è meglio): più grammatica, più analisi logica, più complementi, tanti compiti a casa, selezione, ordine e disciplina.

Il teatrino fra queste due fazioni – un teatrino ridicolo – continua sui social, in interminabili discussioni, prosegue nei Consigli di Istituto e nei Collegi dei Docenti delle scuole, sui media, dappertutto. Ma è un teatrino ridicolo e disgustoso tra due posizioni insostenibili, fatto allegramente mentre il sistema si deteriora e sforna studenti di livello sempre inferiore ed incapaci di affrontare problemi anche solo un poco complessi.

Stavamo meglio prima?

Sono passati dieci anni da quanto su un blog oramai chiuso postavo le disavventure grammaticali di un mio figlio all’epoca in terza media, alle prese con lo studio della Poesia: si, della Poesia con la P maiuscola, della Poesia in generale. Avete presente come nei libri delle elementari tutte le colline sono dolci e ci crescono viti e olivi, pretendendo di descrivere l’essenza dell’essere Collina magari a chi vive in collina e non c’è manco un’olivo o una vite? Bene, analogamente il libro di terza media pretendeva di spiegare cos’è una Poesia in generale (problema al quale le migliori menti letterarie e filosofiche degli ultimi duemila anni si sono adoperate senza soluzioni definitive). E come lo faceva? Facendo leggergli tante poesie e chiedendogli “ragazzi secondo voi cos’hanno in comune?” No. Spiegando il linguaggio poetico introducendo – no shit i concetti di: inversione, iperbato, paragone, metafora, sinestesia, ossimoro, metonimia, anafora ed epifora, concludendo parlando di simbolismo, denotazione e connotazione.

Segue esercizio: trova gli iperbati (manco fossero dei Pokémon rari). Il sottoscritto, che si maturò classicamente nell’ormai lontano 1976 con la votazione di sessanta sessantesimi con lode, non aveva mai sentito nominare gli iperbati nella sua intera carriera scolastica.

Se avessi una collezione di grammatiche italiane provenienti da varie epoche potrei anche rappresentare graficamente il proliferare del numero di tipi di pronomi e aggettivi nel tempo. O volendo, tanto per fare un po’ di scandalo presso i sostenitori della scuola BDSM, potrei dire che spiegare ai ragazzi la differenza tra complemento d’agente e complemento di causa efficiente è assolutamente ridicolo, stupido ed inutile (ed è solo un esempio…), e che chiamare questa cosa analisi logica è un’offesa alla logica.

O vogliamo parlare dei programmi di matematica e fisica cresciuti a dismisura nei licei? Le derivate al Liceo Classico? Le equazioni differenziali al Liceo Scientifico? La relatività e la meccanica quantistica sempre al Liceo Scientifico? Senza ovviamente che gli studenti ne capiscano un’acca. O il coding, la programmazione, intesa come buttar giù due righe di Javascript – si, di Javascript! – da far girare in un browser, ignorando che programmare vuol dire innanzitutto comprendere un problema a fondo ben prima di scrivere una riga di codice! Anzi tipicamente il momento in cui inizi a porti il problema di scrivere un programma per risolvere un problema è il momento in cui sei costretto a pensare al problema seriamente, e ti accorgi che il medesimo era mal compreso o mal posto e lo devi ripensare: tutto questo senza scrivere ancora una riga di codice (sorvolo sul delirio di usare come primo linguaggio di programmazione Javascript, che è probabilmente un caso isolato di cui sono stato accidentalmente testimone).

Ma veramente credevate che smettendo di interrogare, e quindi di far parlare, di interagire con gli studenti, di argomentare e discutere con loro, perché non c’è tempo signora mia devo avere 4 voti a quadrimestre come faccio, credete che sostituendo il momento fondamentale dell’interrogazione con una stupida verifica scritta (anche non a risposte multiple…) si ottenessero risultati migliori? E a chi obietta – come sopra – dicendo che non ha tempo di interrogare e coprire il programma al tempo stesso, rispondo che da una parte non c’è bisogno di arrivare al Caso Moro e a Tangentopoli facendo Storia alle superiori, ad esempio (quella non è Storia, manca totalmente la prospettiva storica per parlare da storico di quei fatti… e ciononostante c’è chi ci arriva…), e dall’altra che quarant’anni fa ci riuscivano egregiamente. Basta fare inutili verifiche scritte, prendete i ragazzi e portateli alla cattedra, alla lavagna e fateli parlare. A ruota libera su un argomento, non “a domanda rispondi”.

L’importanza della conoscenza del linguaggio naturale, prima del coding

Credevate davvero che continuando a parlare di coding, di STEM, e di altre cose simili si poteva ottenere un risultato diverso? Non capite che la matematica, la fisica, le scienze vanno in primis comunicate e comprese verbalmente?

Non esiste e non può esistere una comprensione delle scienze matematiche e naturali, e anche dell’informatica (direi anzi soprattutto dell’informatica) senza prima una conoscenza eccellente del linguaggio naturale – e quindi dei problemi concreti da risolvere, come essi vengono comunicati. Era il grande Edsger W. Dijkstra che diceva nella sua celebre Turing Award Lecture del 1972 (The Humble Programmer) che in primis l’insegnamento dell’informatica consiste nell’insegnamento di una metodologia, piuttosto che la semplice disseminazione di nozioni (e nel 1972 la ridicola nozione di competenze come contrapposte a conoscenze non aveva ancora preso piede).

Ed ora, dopo un ventennio di iperbati da una parte, e di competenze, STEM, coding, etc. dall’altra, vi ritrovate con una generazione di incapaci. Non me ne stupisco minimamente. Voglio peraltro vedere quale azienda assume un giovane che non sa parlare compiutamente e non capisce un testo, anche se ha studiato Python a scuola.

Ed è un peccato, perché la scuola in realtà potrebbe essere contemporaneamente seria e divertente.

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