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Abolire le tecnologie a Scuola, perché sbagliano i nuovi conservatori

Sta emergendo una corrente di pensiero contraria all’uso di tecnologie a scuola. Si appoggia a ricerche e studi, che però tende a travisare o assolutizzare. Dimenticando che molte delle metodologie didattiche innovative hanno avuto bisogno di “nuove tecnologie” per potere esprimere il loro potenziale. Ecco perché

Pubblicato il 19 Apr 2018

Giovanni Biondi

presidente INDIRE - Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa

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A leggere i giornali anche quelli “scolastici” sembra che l’utilizzo delle tecnologie a scuola rappresenti un vero e proprio “nemico” da combattere. Ogni giorno appaiono proclami, manifesti, articoli sul giornale contro l’uso delle ICT a scuola.

Ultimo ma solo in ordine di tempo il contro-decalogo di Antonio Calvani al quale Tuttoscuola ha dato risalto. Se non fosse che si tratta di Calvani, il padre dell’utilizzo degli ipertesti che all’epoca rappresentavano il prodotto delle “nuove tecnologie” dedicate alla didattica. “Amico” fu all’epoca un software per la produzione facilitata degli ipertesti che ebbe una grande diffusione all’epoca.

Oggi Calvani, autore tra l’altro di numerosi testi proprio sulle ICT, sembra aver cambiato completamente idea. Naturalmente è del tutto legittimo ma gli argomenti usati credo che richiedano un commento sia pure sommario.

Le tesi contro la tecnologia a Scuola

Scrive Calvani:

Non è scontato che l’innovazione sia di per sé positiva: occorre valutare le conseguenze.

Una affermazione di per sé assolutamente condivisibile: il valore di un’idea, di un progetto non sta certamente nell’essere nuova ma nei suoi contenuti e negli effetti che porta con sè. Se però dietro questa affermazione si nasconde l’idea che è bene stare lontani da ogni innovazione e restare ancorati all’attuale modello scolastico, il tutto risulterebbe per lo meno discutibile. Conosciamo infatti bene le conseguenze della mancanza di innovazione della didattica e della permanenza del modello scolastico “tradizionale” basato sulla trasmissione del sapere e sulla lezione frontale come elemento centrale. Quel modello che conosciamo bene per averlo vissuto, basato sulla lezione, lo studio del libro di testo, le interrogazioni ha prodotto dispersione scolastica ed una disconnessione sempre più evidente tra scuola e società, tra scuola e nuove generazioni, tra scuola e mondo del lavoro. Un modello che ha prodotto quell’analfabetismo di ritorno di una popolazione adulta che le indagini internazionali hanno a più riprese certificato. Adulti che non sono certamente usciti da aule inquinate dalla tecnologia etc…. La struttura scolastica la conosciamo da tempo, è stata progettata nei suoi parametri fondamentali, la dimensione del tempo e dello spazio, degli strumenti con l’obiettivo di traghettare una società analfabeta verso una società industriale.

Un modello, quindi, funzionale a trasmettere contenuti, a verificare conoscenze, a garantire con la centralità delle aule e dei pochi arredi, l’attenzione degli studenti verso l’insegnante. Un modello per una società che non c’è più, per studenti che sono molto diversi dai loro coetanei di soli dieci, quindici anni fa. Quindi credo che il tema sia diverso: dobbiamo innovare il modello scolastico con l’obiettivo di superare una serie di criticità ormai evidenti. Una innovazione fine a se stessa o guidata dalla “moda” del momento è evidente che non porta a nulla ma è anche evidente che se pensiamo che l’innovazione stia nel migliorare qualche elemento quale la lezione credo non si sia capito di cosa abbiamo bisogno. Nello stesso modo anche l’utilizzo delle ICT può rappresentare un elemento di “conservazione” piuttosto che di trasformazione. Pensiamo alle LIM: se sostituiscono la lavagna con i gessetti solo per scrivere senza sporcarsi le mani non rappresentano una grande novità. Anche un tablet in una classe dove si fa lezione costituisce solo un elemento di disturbo. Oppure pensiamo che leggere sullo schermo invece che sul libro rappresenti una innovazione in sé? È evidente che queste innovazioni non sono di per sé positive. Ma è anche evidente che il modello scolastico ha bisogno di essere trasformato e che le ICT, i linguaggi digitali offrono numerose potenzialità ed opportunità.

Calvani: Non ci sono evidenze scientifiche di un significativo miglioramento negli apprendimenti scolastici dovuto a inserimenti massicci di tecnologie al di fuori di obiettivi circoscritti e ben finalizzati. Sono le metodologie didattiche, e non le tecnologie, a fare la differenza.

Condivido pienamente anche questa affermazione. Vorrei però aggiungere che molte delle metodologie didattiche innovative hanno avuto bisogno di “nuove tecnologie” per potere esprimere il loro potenziale. La storia della scuola è ricca di esempi di questo tipo, basti pensare alla stamperia del Freinet. Certo è che oggi nessuna LIM o tablet può cambiare la scuola e che “la scuola digitale” non esiste o meglio non deve esistere, come ho scritto più volte. Ma nello stesso tempo, per fare la differenza, anche le metodologie hanno bisogno di sfruttare le opportunità che oggi offrono le “tecnologie”. Possiamo immaginare che fare geografia senza il “digitale” nelle sue varie componenti ma anche analizzare le opere d’arte, usare simulazioni per entrare nell’infinitamente piccolo o grande non possano essere dei potenti alleati per l’apprendimento? Naturalmente anche nella difesa e nella presentazione delle ICT si fanno numerosi errori. È il caso del modo con cui viene presentato il coding.

Nelle Indicazioni per la scuola primaria si legge che “la padronanza del coding e del pensiero computazionale possono aiutare le persone a governare le macchine e a comprenderne meglio il funzionamento, senza esserne invece dominati e asserviti in modo acritico”. Non può essere questa la ragione per cui il coding ha diritto di cittadinanza nel curricolo della scuola primaria. Non possiamo immaginare che il coding possa liberare i ragazzi dalla dipendenza dai social o da watsapp, instagram e simili e neppure dalla dipendenza da videogiochi. Le ragioni di questa dipendenza che spesso sfocia addirittura in forme patologiche, non dipende certo dal fatto che i ragazzi non conoscano la logica booleana e non immaginino che digitale derivi da “digit” e quindi che il tablet che maneggiano agevolmente abbia una base “numerica”. Ma neppure possiamo immaginare che scrivere qualche semplice riga di codice usando scratch o qualche altro linguaggio, mettendo in fila secondo una sequenza logica booleana una serie di operazioni, possa aiutarci a non essere “dominati ed asserviti in modo acritico” dalle macchine. Quando Pappert inventò il Logo che è stato il primo “ambiente” digitale costruito per i bambini, non pensava ad un robot come poi è diventata la famosa tartaruga e neppure a far capire il funzionamento di un computer ma ad un vero e proprio ambiente di apprendimento. Infatti, accanto alla tartaruga che obbediva a comandi ed eseguiva istruzioni semplici disegnando sullo schermo, c’era il mondo dei numeri quello della musica e quello dei folletti. Era un ambiente articolato per mettere le ali alla mente e per “dialogare con la propria intelligenza”. Una vera e propria palestra di problem solving, di logica.

Per i bambini ai quali si rivolgeva era soprattutto un gioco. Il risultato era gratificante per chi lo aveva costruito ma la cosa veramente importante era il processo. Anche nelle scuole secondarie, nel laboratorio di informatica si lavorava magari per mesi in “basic” per costruire poi un programma che non faceva altro che le principali operazioni aritmetiche, funzioni che stanno nelle più elementari calcolatrici. Il valore educativo stava tutto nel percorso, nel processo di costruzione step by step del programma, nella verifica, nel processo di debugging. Non siamo quindi di fronte ad una novità: queste attività magari con strumenti più grezzi e meno gratificanti, con una grafica “approssimativa” si facevano nella scuola da venti anni. D’altra parte si tratta di un esercizio che non è diverso anche se meno complicato di quello che uno studente fa quando traduce un testo latino o greco. Proprio una delle caratteristiche della scuola italiana è sempre stata quella di formare allo sviluppo del pensiero ed il valore aggiunto che molti insegnanti sono riusciti a dare al loro insegnamento derivava principalmente dalla capacità di stabilire collegamenti tra filosofia, storia, latino ed altre materie apparentemente di nessun valore “pratico”, con conoscenze e competenze cioè non immediatamente spendibili nel mondo del lavoro.

Una formazione appunto che ha puntato alla “testa ben fatta” e che oggi richiede di porre un argine alla proliferazione delle materie alla rincorsa ai contenuti e alle nozioni. Nella scuola primaria giocare con il coding come con i robot, costruire artefatti, materiali così come animazioni o giochi sullo schermo, rappresenta una attività importante, complementare a tante altre che già Maria Montessori consigliava agli insegnanti quasi un secolo fa. Oggi le tecnologie ed i linguaggi digitali offrono nuove opportunità che la scuola deve assolutamente sfruttare evitando però di considerarle nuove materie che finiscono per aumentare quella frammentazione del curricolo che invece si dovrebbe cercare di ricomporre. Quando si mette mano a quello che gli insegnanti continuano a chiamare “il programma” si dovrebbe evitare la logica di inserire attività, educazioni sulla base della loro importanza. Abbiamo assistito ad una invasione di educazioni: “alla cittadinanza”, “alla legalità”, “all’alimentazione”, “all’ambiente”, “alla sicurezza stradale” tutti argomenti che hanno una grande importanza ma la costruzione di un curricolo deve partire da altri presupposti che sono prima di tutto educativi e che rispondono alla domanda: quali sono le competenze che si vogliono sviluppare?

Quelle davvero necessarie guardando al futuro? Inseguire con modelli “enciclopedici” lo sviluppo e la proliferazione delle conoscenze della nostra società porta solo all’aumento ogni anno delle pagine dei libri di testo diventati ormai “intrasportabili” e spesso anche per questo usati sempre meno. Un dibattito aperto quindi ma che non può basarsi su posizioni preconcette

Ancora Calvani: i bambini nella prima età formativa non hanno ancora strutture cognitive adeguatamente sviluppate. Le tecnologie, alleggerendo il carico cognitivo, disattivano processi cognitivi e riflessivi anche importanti.

Anche in questo caso si tratta di una affermazione che ha molte evidenze scientifiche ma non dovrebbe essere assolutizzata. Alcuni ricercatori di INDIRE hanno in questi anni usato le stampanti 3d, la LIM ed i tablet con bambini di cinque anni in numerose scuole di diverse parti d’Italia con buoni risultati sia per aiutare i bambini a sviluppare in un modo nuovo la competenza relativa alla lateralizzazione, usando programmi di disegno 3D, sia che sul pensiero logico e creativo. L’intera esperienza ha prodotto diverse pubblicazioni (Didamatica, Immersive Italy, Future of Education), inoltre i risultati sono stati valutati da un equipe di psicologi della Facoltà di Psicologia dell’Università di Napoli e pubblicati negli atti del VI Congresso del CKBG “Ubique e intelligenti: tecnologie e persone”.

I casi in cui le tecnologie sono utili sono particolari (servono, per esempio, a supportare la didattica rivolta a soggetti con disabilità), e richiedono una specifica competenza da parte del docente.

Certamente nella disabilità l’uso delle ICT permette di superare numerose barriere e in questo campo la preparazione del docente è fondamentale. Come è fondamentale nell’uso di tutte le tecnologie: Calvani stesso negli anni 80 fondava tutto il suo lavoro di diffusione degli ipertesti sulla formazione dei docenti attraverso decine e decine di corsi di aggiornamento frequentati da centinaia di insegnanti.

Neurologi e psicologi rilevano fenomeni come la riduzione dell’attenzione, della concentrazione, della capacità comunicativa attraverso lo sguardo, associabili alla eccessiva esposizione dei bambini ai nuovi media.

Sull’eccessiva esposizione tutti siamo d’accordo. Resta difficile capire come questa affermazione possa avere a che fare, ad esempio, con l’utilizzo dei linguaggi digitali o del coding a scuola. Poi non possiamo mettere l’utilizzo dei social insieme al WEB e neppure possiamo mettere i videogiochi tutti insieme. Ne esistono alcuni estremamente importanti sul piano educativo che vengono usati addirittura in corsi universitari come Simcity. Tutte queste osservazioni vanno poi riportate alle età degli studenti, ai tempi di utilizzo ed al tipo di media utilizzati. Non si può quindi usare questi argomenti in modo generico e neppure trattarli come una minaccia.

Il BYOD (Bring Your Own Device: il permesso dato agli alunni di portare in classe il proprio smartphone o tablet), incoraggiato dal Miur, rischia di distrarre gli alunni e di provocare nuove forme di discriminazione sociale legata alla diversa qualità tecnica dei dispositivi posseduti.

È come dire che indossare i vecchi grembiuli col fiocco aiuta ad evitare la diversa “qualità” dei vestiti firmati che i ragazzi si portano da casa. Comunque questa affermazione non riguarda l’uso delle ICT a scuola. Il tema è se portare i propri device da casa o se trovarli a scuola. Personalmente sono contrario al fatto che il MIUR codifichi le pratiche didattiche e dia suggerimenti agli insegnanti: non è il suo ruolo e non è questo che la scuola si aspetta dal MIUR. Comunque questa affermazione è estranea all’utilizzo delle ICT a scuola.

Non è giusto scaricare sugli insegnanti la responsabilità dei fallimenti. Servono esempi e dimostrazioni convincenti su come e quando i devices si possono utilizzare ed evidenze affidabili sui risultati.

I fautori delle nuove tecnologie ne associano l’impiego alla crescita di senso critico, creatività, cittadinanza, ma le esperienze finora prodotte sono “di una banalità sconcertante”.

Difficile commentare senza sapere a cosa Calvani si riferisce. Non so a quali esperienze si riferisce. Concordo comunque che un utilizzo “banale” l’ho riscontrato più volte e riguarda appunto la trasposizione ipertestuale di un lavoro fatto in classe e che viene appunto rivestito di musica, colori, immagini come si faceva proprio con gli ipertesti di tanti anni fa. Un confezionamento brillante che appunto nascondeva spesso un contenuto modesto.

Le neuroscienze segnalano l’importanza di una educazione alla scrittura manuale, e alla lettura nei formati tradizionali.

Spero proprio che non si pensi al computer in contrapposizione ai libri. Certamente lo schermo di un computer non è il mezzo migliore per leggere un romanzo. Ma non possiamo pensare di rinunciare alle opportunità di analizzare un’opera d’arte potendo studiare la singola pennellata proprio attraverso le potenzialità della tecnologia. O entrare, come si diceva prima, nell’infinitamente piccolo (una cellula) o nell’infinitamente grande (l’universo). Non possiamo neppure rinunciare a navigare con google map per vedere e capire una foce ad estuario o a delta, per visitare il mondo, per tornare al vecchio atlante. Perché poi si parla solo di scrittura e non anche di disegno, di manipolazione, di costruzione di oggetti? Tutte esperienze che certamente non si possono fare col computer ma che non sono meno importanti della scrittura manuale per sviluppare quelle capacità di base che aiutano a maturare le competenze a cui si riferisce Calvani. Eppure la manipolazione e la capacità di costruire oggetti non sono certo rimpiazzabili da una tastiera ed è vero che hanno meno spazio a scuola. Sempre colpa delle tecnologie?

I decisori politici dovrebbero acquisire le risultanze della ricerca evidence-based prima di pronunciarsi.

Certo che per i politici è difficile pronunciarsi di fronte ad un tale altalenare di posizioni del mondo accademico. Anzi si dovrebbe osservare che queste tecnologie sono appunto “nuove”, hanno cioè una storia breve ed i loro effetti sono tutti da studiare anche perché stanno avendo uno sviluppo continuo e rapido: basta pensare alla realtà immersiva, aumentata, virtuale, alla robotica. Tutte tecnologie che hanno pochi anni di storia ed ancora meno a scuola.

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