l'analisi

Università “globali” con la didattica a distanza: problemi e rischi per i territori

La didattica a distanza è un vantaggio anche per le Università ma questa trasformazione non è neutra, né priva di conseguenze: come in ogni sistema, alla base vi è una logica precisa che va esaminata e compresa. I rischi sono gli stessi della globalizzazione di altri settori economici. Vanno governati dalla politica

Pubblicato il 30 Mag 2020

Luca Taddio

Università di Udine

Photo by Nathan Dumlao on Unsplash

In questo periodo i docenti delle Università italiane stanno, volenti o nolenti, sperimentando la didattica a distanza. Alcuni la ritengono un’opportunità per il futuro, un’occasione per estendere il bacino di utenti e per abbattere i costi delle rette degli studenti, i quali, potendo studiare da casa, riducono notevolmente i costi di spostamento. Nulla di moralmente disdicevole, anzi: un sistema, soprattutto in prospettiva, dagli innegabili vantaggi, che in modo coerente si inserisce all’interno delle logiche di digitalizzazione e di globalizzazione in corso.

Tuttavia, questa trasformazione non è né neutra, né priva di conseguenze: come in ogni sistema, alla base vi è una logica precisa che va esaminata e compresa. L’Università a distanza (il mezzo che utilizza) tende per sua natura a sradicarsi dal territorio per trasformarsi in un prodotto globale. Tra le caratteristiche del digitale riscontriamo il fatto che comprime le distanze (la natura del mezzo tende a rivolgersi direttamente all’utente finale eliminando i corpi intermedi), abbatte i costi e produce guadagni, offre sistemi più potenti rispetto a quelli dei singoli operatori ed è estensibile in modo esponenziale.

Didattica a distanza e rapporto Università-territorio

Veniamo, così, al punto fondamentale: l’applicazione sistematica della didattica a distanza modificherebbe in breve tempo la natura della relazione Università-territorio. Le realtà universitarie, che caratterizzano gran parte dei nostri territori, sono realtà di piccole dimensioni: guardano alla conoscenza attraverso la loro vocazione universale, ma sempre in quanto istituzioni che si collocano in una specifica area geografica in funzione delle sue particolari esigenze.

Diventando un prodotto globale, l’Università andrebbe a posizionarsi su standard adeguati alle esigenze del mercato globale. A questo punto, tutte le Università si muoverebbero in funzione della libera concorrenza globale (regolata da chi?) a prescindere da logiche territoriali. In questo contesto, perché uno studente dovrebbe rivolgersi all’ateneo più vicino?

Se un giorno tutto si dovesse svolgere a distanza andrebbe a vantaggio degli enti con maggiore capacità attrattiva. Le logiche sottostanti a tutti gli attuali processi di digitalizzazione-globalizzazione sono simili. Questo sistema potrebbe addirittura portare con sé enormi vantaggi: milioni di studenti potrebbero accedere alle forme più alte del sapere. Inoltre, come già accade, i corsi sarebbero accessibili a tutti e gratuiti: si pagherebbe solo la certificazione degli esami. Da qualsiasi continente gli studenti potrebbero seguire senza costi né problemi i corsi delle migliori Università al mondo. L’offerta sarebbe così incomparabilmente più alta e meno costosa.

Accesso globale all’Università

All’interno di questo scenario si annidano diversi problemi e diversi rischi solo parzialmente prevedibili: i problemi, infatti, sorgono a seconda dei modi e dei tempi con cui vengono applicati. Nell’applicazione dei sistemi si iscrivono micro-dinamiche di potere difficili da decifrare prima della loro attuazione. Ma il punto decisivo è il seguente: si tratta di una prospettiva di interesse per il territorio? In fondo, anche se il numero dei docenti dovesse ridursi e gli spazi degli atenei comprimersi, coloro che vivono nel territorio ci guadagnerebbero avendo tra le mani un prodotto migliore. Ma se applicassimo questa logica a tutti i settori, cosa accadrebbe?

Utilizzando unicamente i servizi senza averne alcun controllo, il grado di autonomia e di autodeterminazione del singolo territorio andrebbe gradualmente riducendosi. Ed è quello che sta accadendo sul piano finanziario e che da tempo notiamo su diversi segmenti della produzione. Seguendo questa logica, perché il sapere e la formazione dovrebbero rimanere al riparo da queste forme di organizzazione e pianificazione? E se un sistema di questo tipo a un certo punto implodesse, cosa resterebbe in mano ai territori? Nulla.

La stragrande maggioranza delle persone non vive in un contesto globale, ma in territori delimitati. E la sua qualità della vita dipende da queste realtà locali e dalle loro economie. Le singole realtà come possono tutelarsi da enti e logiche a loro estrinseci? Come possono esercitare potere di governo su qualcosa la cui natura li attraversa come pareti di burro? Questi enti che per loro natura tendono al monopolio saranno in breve tempo incomparabilmente più potenti di loro. La logica di tale sviluppo prevale sulla dimensione delle politiche territoriali. Ed è una logica che non dipende tanto o solo dagli Stati di cui sono emanazione ma, prevalentemente, dalla logica tecnico-scientifica di sviluppo. O si cambia logica (ma quale, e su quali basi?) o si cambia la cornice economica, in modo da rendere compatibile con noi tale sistema, andando oltre gli attuali paradigmi interni al capitalismo – ma quali? E come si potrebbero operare queste decisioni su scala globale?

È un fatto che le società multinazionali a interesse privato stiano concentrando nelle loro mani una potenza economica superiore a quella dei singoli Stati che dovrebbero, almeno in teoria, poterne regolamentare il comportamento, togliendo ai singoli territori la loro possibilità di autodeterminazione. Inoltre, tali enti possono agire di fatto globalmente in modo difforme rispetto a quanto è consentito agli attuali cittadini-consumatori, spostandosi liberamente secondo un protocollo d’azione che prevede diritti e doveri. Ora, che cosa vieterebbe in linea di principio a due o tre Università nel mondo di acquisire gran parte del mercato della formazione?

Accettare la sfida della globalizzazione senza rinunciare a una prospettiva cosmopolita richiede un complesso equilibrio tra la dimensione necessariamente globale, assunta da alcuni fenomeni, e la dimensione necessariamente locale che tutela l’organizzazione dei singoli. Equilibrio che forse potrebbe avvenire attraverso la riaffermazione della politica nelle sue molteplici configurazioni.

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