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Coronavirus, rischia grosso chi filma persone in strada e pubblica online

Filmare da casa propria persone in strada che a nostro avviso potrebbero violare le misure anti-covid e poi pubblicare i video online è un comportamento lesivo di beni giuridici tutelati dalla Costituzione e dal Codice Penale quali l’onore e la reputazione, la riservatezza, la dignità personale. Ecco cosa rischia chi lo fa

Pubblicato il 05 Mag 2020

Marco Cartisano

Studio Polimeni.legal

persone strada covid

In queste lunghe settimane di confinamento domestico causa covid-19, si sono diffusi alcuni comportamenti apparentemente giustificati dall’emergenza sanitaria ma che in realtà ledono beni giuridici tutelati dalla Costituzione e dal Codice Penale quali l’onore e la reputazione, la riservatezza, la dignità personale.

Tra questi, è sempre più frequente abitudine di filmare dalle proprie finestre soggetti che “presuntivamente” stanno violando le misure di contenimento, per poi pubblicare i video sui canali social al fine di scatenare il pubblico biasimo.

Ma cosa rischia concretamente chi pubblica il video?

Differenze fra privata dimora e gli altri luoghi

Partiamo dal presupposto che la ripresa audio visiva, ancorché non autorizzata dall’interessato, è del tutto lecita, purché sia fatto in un luogo pubblico ovvero aperto al pubblico, non viene diffusa o non è idonea a identificare una specifica persona ovvero il cui contenuto non sia di per sé reato (pedopornografia, immagini coperte da segreto militare o di Stato, ecc) ovvero non sia tale da integrare le molestie o lo stalking.

Questo perché quando il nostro codice vuole punire la sola “ripresa” in relazione ai luoghi ne circoscrive le modalità, per esempio, secondo l’art. 615 bis c.p. che così recita:

«Art. 615 bis – Interferenze illecite nella vita privata

Chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’articolo 614, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni.

Alla stessa pena soggiace, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei modi indicati nella prima parte di questo articolo.

I delitti sono punibili a querela della persona offesa; tuttavia si procede d’ufficio e la pena è della reclusione da uno a cinque anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato.»

I luoghi della “vita privata” ai sensi dell’art. 614 c.p. (violazione di domicilio n.d.r.), alla luce dei principi enucleati dalla giurisprudenza, sono caratterizzati da:

«a) l’utilizzo del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (tra cui rientra anche l’attività lavorativa in genere) in modo riservato e al riparo da intrusioni esterne;

b) la durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, che deve essere caratterizzato da stabilità e non da occasionalità;

c) la non accessibilità del luogo da parte di estranei senza il consenso del titolare.».

Stante la definizione di privata dimora è necessario fornire ulteriori definizioni:

  • Per luogo pubblico si intende il luogo in cui tutti possono accedere liberamente e sono ricomprese le pubbliche vie e i luoghi ad esse assimilati;
  • Per luogo aperto al pubblico si intende quello nel quale l’accesso è possibile solo dopo l’espletamento di particolari formalità: pagamento del biglietto, esibizione dell’invito come, ad esempio, cinema, esercizi commerciali, pub, ristoranti, spazi di concerti e manifestazioni sportive ecc..;
  • Per luogo esposto al pubblico si intende un luogo privato che, però, può essere facile oggetto di osservazione dall’esterno come, ad esempio, balconi, lastrici solari, giardini con recinzione a vista.

Se ne deduce che il domicilio è tutelato non solo nella sua dimensione squisitamente materialistica (violazione di domicilio), ma anche quale strumento primario di tutela della vita privata (interferenze illecite); dato che la Costituzione ne sancisce l’inviolabilità (art. 14 Cost.) in chiave funzionalistica (riservatezza) sarebbe irragionevole prevedere tale tutela anche per i luoghi diversi dal domicilio, atteso che ciò cozzerebbe con altri valori costituzionalmente garantiti quali il diritto/dovere di cronaca, la libertà di manifestazione del pensiero, la libera circolazione, libertà di riunione.

Riprese in un luogo pubblico: sempre lecite?

Tuttavia, le ben note restrizioni alla libera circolazione delle persone imposte dalle recenti norme di legge e regolamentari hanno generato una insensata caccia all’ “untore” di turno o, più semplicemente, al trasgressore.

Il problema, come si potrà ben intuire, non riguarda tanto la pratica di memorizzare le immagini dei malcapitati runner, proprietari di cani o di persone più o meno incuranti degli effetti catastrofici della pandemia che, magari, vengono sottoposti ai doverosi controlli di polizia, ma la successiva condivisione per il tramite dei social network.

A parere del sottoscritto non solo tale pratica non è utile ma può essere addirittura dannosa nella misura in cui si ledono i diritti della persona ritratta.

Difatti, nella maggior parte dei casi non ci si limita a caricare le immagini senza avere l’accortezza di oscurare i volti dei protagonisti, ma si rende il video liberamente condivisibile, esponendo il malcapitato a tutta una serie di offese fuori controllo e, nei casi più gravi, minacce.

La problematica, come è noto, è sostanzialmente culturale nella misura in cui lo Stato dovrebbe avere il monopolio dell’accertamento degli illeciti e della successiva punizione, dovendosi fermamente condannare pericolose tendenze di “giustizia fai da te” fondate sul sospetto e sulla gogna 2.0.

Va detto che l’utilizzatore medio della rete non sempre ha gli strumenti per potere decidere coscientemente cosa è giusto o meno condividere e commentare, ma ciò non lo esime da responsabilità: nel dubbio meglio non postare nulla.

Nella fattispecie potrebbero ricorrere i presupposti di cui all’art. 595 c.p. comma 3 c.p. (diffamazione aggravata) se i commenti e le condivisioni ledono la reputazione (ossia la considerazione che hanno i consociati) della persona offesa.

D’altro canto, la giurisprudenza è granitica nel dire che «La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.» (Cassazione penale sez. V, 03/05/2018, n.40083); se al testo vengono accompagnate le immagini di una persona il danno è sicuramente maggiore.

La questione del diritto di cronaca

Senza voler troppo approfondire il diritto di cronaca, va detto che il privato cittadino non può avvalersi delle scriminanti ivi previste poiché non è un operatore professionale e quindi non è soggetto alle rigide norme deontologiche che regolano il lavoro dei giornalisti: se una notizia non è accompagnata dai criteri di verità, continenza ed interesse pubblico, il redattore ed il direttore responsabile risponderanno di eventuali reati a mezzo stampa fra quali spicca, appunto, la diffamazione.

Il privato, invece, che diffonde le immagini di un altrettanto privato cittadino con il chiaro intento di stigmatizzarne il comportamento, condividendo liberamente il post ed istigando indirettamente terzi affinché si “indignino”, non solo non fa nulla di utile per i consociati, ma rischia di subire una condanna da sei mesi a tre anni, una multa non minore di 516 euro, oltre al risarcimento del danno; la vera domanda è: ma ne vale la pena?

Oltretutto potrebbe configurarsi una illecita detenzione di dati personali in assenza del consenso della vittima per lo sfruttamento della propria immagine in quanto secondo la S.C. «È configurabile il trattamento illecito di dati personali nell’ipotesi in cui taluno, anche solo per un breve lasso di tempo, posta su siti porno fotomontaggi realizzati a partire da foto di sue conoscenti, prelevate da Facebook, a nulla rilevando che si è trattato di una “bravata”. La Cassazione ha confermato la condanna per l’imputato per violazione della privacy di ben 17 ragazze, nonostante avessero tutte rimesso la querela per diffamazione a seguito di uno spontaneo risarcimento di 1.300 euro ciascuna da parte del ricorrente. Per la Corte l’indiscutibile attentato all’onorabilità delle persone inconsapevolmente interessate dal fotomontaggio e l’assenza del loro consenso all’utilizzo della propria immagine sono alla base del reato previsto dall’articolo 167 del codice Privacy.» (Cassazione penale sez. III, 19/06/2019, n.43534).

In ogni caso il mancato consenso alla diffusione comporta di certo una responsabilità per danni e l’inibitoria ai sensi dell’art. 10 del codice civile (che disciplina l’abuso dell’immagine altrui) nonché ai sensi della Legge n. 633/1941 sul diritto d’autore che vieta la pubblicazione di immagini o video di altre persone in mancanza di preventivo consenso e con riferimento a qualunque tipo di diffusione al pubblico (che appunto comprende i maggiori social network e sistemi di messaggistica istantanea).

Quando le riprese sono “prove”

Va detto che se le riprese hanno per oggetto un illecito penale potranno essere utilizzate ai fini della individuazione del responsabile, anche se l’autore del filmato dovrebbe limitarsi a fornire il materiale agli inquirenti, non tanto per tutelare la reputazione del sospettato, ma per evitare di pregiudicare l’indagine e la sicurezza dell’eventuale vittima ripresa.

Questo perché, secondo la S.C. «Le video riprese in luoghi pubblici effettuate al di fuori delle indagini preliminari non possono essere considerate prove atipiche ex art. 189 c.p.p., ma devono essere qualificate documenti e possono diventare prove documentali da utilizzare come tati nel processo (cfr. sez. un., 28 marzo 2006, P.). Non si tratta, peraltro, di scritture private che, quindi, debbano essere soggette, ai fini dell’utilizzazione processuale, alle regole imposte dall’art. 2702 c.c., sicché non è necessaria alcuna sottoscrizione, mentre la relativa autenticità va accertata caso per caso dal giudice.» (Cassazione penale sez. VI, 17/11/2009, n.4978)

Conclusioni

Al di là delle brevi considerazioni fatte finora appare chiaro che, dove non arriva il diritto, dovrebbe arrivare il buon senso anche perché non ci si improvvisa né giornalisti, né operatori di P.S. e le conseguenze legali potrebbero essere molto pesanti.

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