sicurezza informatica

Cyberdiplomacy, serve una “rivoluzione formativa”: le barriere culturali da abbattere

La costruzione della sicurezza informatica a livello internazionale richiede più cooperazione fra attori statali e non. Per renderla possibile serve anche un cambio di passo nella formazione, che aiuti a far emergere nuove figure professionali. Ecco gli ostacoli da superare

Pubblicato il 03 Mag 2022

Simone Arnaldi

docente di Sociologia generale, Università degli Studi di Trieste

Esterin Kojtari

dottore in Scienze internazionali e Diplomatiche, Università degli Studi di Trieste

cyber security

L’interdipendenza tecnologica tra gli Stati e l’incapacità di rispondere in maniera efficace ai pericoli cibernetici, hanno fatto dell’internazionalizzazione della cybersecurity un tema centrale nelle agende politiche. Ciononostante, la cooperazione internazionale in questa materia è limitata e questo scarso livello di collaborazione rende difficile mettere in atto politiche coordinate ed efficaci.

Ci sono certamente dinamiche di politica internazionale che scoraggiano questa collaborazione, ma esistono anche delle barriere culturali, fondate sulla separazione dei saperi scientifico-tecnologici e dei saperi sulla società e la politica.

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La cyberdiplomacy come risposta alle complessità della cybersicurezza

Già negli anni Cinquanta del secolo scorso, Charles Percy Snow parlava della incomunicabilità fra le due culture umanistica e scientifica. La cybersicurezza, così come la costruzione di una sua governance condivisa a livello internazionale, assomma complessità tecniche, politiche e sociali, rappresentando uno dei casi, sempre più frequenti vista l’integrazione delle nuove tecnologie nella nostra vita, in cui andare oltre i confini tematici e disciplinari tracciati dalla divisione tradizionale dei saperi è fondamentale per progettare politiche efficienti ed efficaci.

Non è un caso che, in anni recenti, sia emersa la cyberdiplomacy come risposta a queste complessità e con lo scopo di stimolare collaborazioni sempre più fitte per fronteggiare problemi comuni nel campo della sicurezza informatica. È in questo contesto che alcuni Paesi si sono spinti fino a creare la figura del cyberdiplomatico. In Europa, per esempio, i cyber-attachés sono una realtà in Francia, Repubblica Ceca e Germania. Nei Ministeri degli Esteri, vengono inoltre creati uffici specializzati sulla “cyber policy” o i “cyber Affairs”, come è accaduto in Italia dove, nel 2019, la Farnesina ha creato l’Unità per le Politiche e la Sicurezza dello Spazio Cibernetico.

La figura del cyberdiplomatico

I cyberdiplomatici nascono proprio con lo scopo di attraversare il confine fra le due comunità, di saperi e di pratiche, degli esperti in diplomazia e degli esperti in sicurezza informatica. Questa figura ha l’ambizione di favorire la collaborazione fra stati e fra organizzazioni, facendo da ponte fra i diversi saperi e le diverse culture professionali coinvolte nella definizione e nell’attuazione delle politiche internazionali sulla cybersecurity, partecipando, per esempio, nei forum internazionali dedicati a questo argomento come, per esempio lo United Nations Group of Governamental Experts (UNGEE) e l’Open-Ended Working Group (OEWG), costituiti nell’ambito della Commissione Disarmo e Cooperazione Internazionale delle Nazioni Unite.

In modo simmetrico, organismi tecnici come i Computer Security and Incident Response Teams (CSIRTs) e le loro reti internazionali influenzano direttamente e indirettamente le policy internazionali, partecipando direttamente a organismi consultivi come il citato UNGEE o svolgendo funzioni quasi-diplomatiche nel cooperare con attori designati come ostili come accade, per esempio, fra Stati Uniti e Russia dopo il caso “SolarWinds”, un attacco informatico che ha permesso ad un gruppo hacker di spiare diverse agenzie del Governo Federale degli Stati Uniti.

Questa duplice natura delle comunità di saperi e pratiche professionali coinvolte nella cybersecurity è fondamentale per il futuro di questo campo. Le capacità tecniche affiancate a quelle diplomatiche, costituiscono una peculiarità rilevante in un mondo non tanto proiettato alla specializzazione ma sulla capacità di affrontare la complessità delle sfide globali attraverso una conoscenza che vada oltre le più tradizionali divisioni fra campi disciplinari e professionali.

In entrambi i casi, sia i diplomatici che si occupano di cyber sicurezza sia gli esperti informatici che sono chiamati a collaborare alla regolazione di questo ambito, svolgono un’attività di intermediazione non solo fra conoscenza e decisione, ma anche fra diversi tipi di conoscenza.

Le opportunità formative per una svolta nella cyberdiplomacy

Perché il dialogo fra queste conoscenze abbia successo e perché chi fa parte di queste due comunità impegnate nella cybersecurity possa volgere efficacemente la propria opera di mediazione, è tuttavia necessaria la creazione di opportunità formative in grado di dare una base di conoscenza comune per professionisti, attuali e futuri, che provengono di norma da contesti specialistici e percorsi formativi diversi e distinti, quello delle relazioni internazionali e della diplomazia e quello dell’informatica.

Su questo aspetto, molto resta da fare e, se si eccettuano alcuni esempi internazionali, non esiste ancora un’offerta formativa che tenga conto della necessità di dare una formazione di base comune a tutte le comunità coinvolte e di offrire, anche, competenze trasversali, ma necessarie, esplicitamente finalizzate a sostenere il ruolo di mediazione che gli attori della cybersicurezza sono chiamati a fare, come la capacità di acquisire rapidamente conoscenze sufficienti in campi diversi dalla propria specializzazione, la capacità di sintetizzare e comunicare in modo semplice e rapido informazioni complesse, la capacità di ascoltare gli interlocutori e di comprendere i loro obiettivi e le loro esigenze, la consapevolezza di operare in un contesto dove sono principi, valori e interessi a fondare la posizione che si adotta, la pazienza di vedere il cambiamento politico procedere a piccoli passi anche se a fronte di cambiamenti scientifico tecnologici molto rapidi.

Conclusioni

È necessaria, quindi, una “rivoluzione formativa” per far fronte alla rivoluzione portata dalle tecnologie dell’informazione e dalle nuove frontiere per la sicurezza che la loro pervasività porta con sé. Sta (anche) agli enti di formazione superiore fare la loro parte, offrendo occasioni di formazione che contribuiscano a rafforzare il dialogo e la collaborazione fra culture professionali diverse ma necessariamente legate. Saranno questi nuovi professionisti, capaci di muoversi in campi anche molto diversi, come quelli della diplomazia e dell’informatica, si riuscirebbero a colmare il divario di conoscenze e i bias disciplinari che contribuiscono a minare la cooperazione internazionale sulla diplomazia cibernetica.

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